Nelle due regioni in cui l’unica priorità sembra essere il Ponte di Messina una scuola su tre ha necessità di interventi urgenti di manutenzione; inoltre, nelle città capoluogo, negli ultimi 5 anni non è stato costruito nessun nuovo edificio scolastico. In Sicilia e Calabria – dove tutti i capoluoghi di provincia, con la sola eccezione di Caltanissetta, sono in area sismica 1 e 2 – mediamente, nel 65% dei casi non è stata effettuata la verifica di vulnerabilità sismica. Lo scrive Legambiente nel suo 23esimo report “Ecosistema Scuola” che fotografa la situazione italiana in cui le scuole continuano ad essere in ritardo cronico su riqualificazione edilizia e servizi scolastici.
Nelle due regioni in cui l’unica priorità sembra essere il Ponte di Messina una scuola su tre ha necessità di interventi urgenti di manutenzione
I ritardi maggiori si registrano ancora volta nel Mezzogiorno, ma preoccupa anche la situazione del centro Italia colpito dal sisma del 2016 dove l’obiettivo messa in sicurezza delle scuole è ancora lontano. Altra nota dolente, riguarda i servizi scolastici che nonostante rappresentino una parte importante per la crescita, la socialità e l’inclusione tra i ragazzi sono poco garantiti nelle scuole del Sud della Penisola. Nonostante lo stanziamento delle risorse, nella Penisola la realizzazione di nuove scuole è un miraggio: negli ultimi 5 anni è stato dello 0,6%.
Ammontano a 519 milioni di euro i fondi stanziati dal Pnrr per 767 nuove realizzazioni o ampliamenti/potenziamenti di spazi mensa. L’efficientamento energetico, pur affrontato da alcune amministrazioni su un numero consistente di edifici di propria pertinenza, riguarda solo il 12,7% del totale degli edifici scolastici tra quelli realizzati negli ultimi 5 anni, distribuito in modo piuttosto disomogeneo.
Ieri, solo per citare un caso, è accaduto in un liceo della provincia di Pordenone: alle 10 il termometro nelle aule segnava 13 gradi e di fronte alla prospettiva di passare in quell’aula altre sette ore gli studenti hanno deciso di lanciare un messaggio inequivocabile abbandonando le lezioni. Le altre classi in segno di solidarietà hanno deciso di proclamare un giorno di sciopero. La dirigente scolastica non ha potuto fare altro che rilasciare un’intervista al giornale locale in cui si augura che i caloriferi si accendano e la protesta si spenga.
Da Nord al Sud, le scuole al gelo
Secondo un recente sondaggio del sito specializzato skuola.net più di uno studente su due, complessivamente, si è lamentato per un ambiente scolastico in cui si registra un clima inadatto per poter svolgere serenamente le lezioni. Tanto che molti lasciano sulle spalle il cappotto, quando non arrivano a portarsi da casa il plaid. Per il 28 per cento degli studenti l motivo di tali problemi sarebbe da rintracciare nella scarsa tenuta termica degli edifici. Non è di certo una coincidenza che quasi sei strutture scolastiche ogni dieci su tutto il territorio stiano per compiere 50 anni.
All’Istituto Verga di Modica, in provincia di Ragusa, per ovviare al malfunzionamento dei termosifoni gli studenti si sono armati di coperte e scaldamani. Negli ultimi giorni al gelo s’è però aggiunta la pioggia che filtra dal soffitto e ha reso inagibili alcune aule. A Palermo nei giorni scorsi gli studenti dell’Istituto Tecnico Economico Marco Polo hanno deciso di occupare la scuola, per denunciare le temperature insostenibili che si protraggono costanti dal rientro dalle vacanze natalizie. A San Donà, in Veneto, nell’Istituto di Ragioneria Alberti hanno deciso di affidarsi ai cerotti riscaldanti perché secondo studenti e genitori le rotture della caldaia sono ormai croniche.
Quando non ci sono guasti il freddo è provocato dalle ristrettezze economiche, come nelle favole di Andersen: all’Istituto professionale Marconi del comune aretino di San Giovanni Valdarno il riscaldamento si accende il più tardi possibile perché – dicono i tecnici – le riserve di gasolio sono limitate. Cristina Costarelli, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi del Lazio, intervistata sulla questione, spiega che il freddo nelle scuole si lega alle strutture scolastiche ormai datate, alla difficoltà di manutenzione e alle esigenze di risparmio economico. I dirigenti scolastici possono gare poco di fronte a impianti vetusti e a cavilli burocratici. Qualche giorno fa nna dirigente scolastica di un istituto di Torino illustrava parlando con La Stampa i suoi sforzi quotidiani nel documentare le condizioni di freddo e nell’invocare interventi risolutivi. La problematica si scontra con la burocrazia e le competenze degli enti locali. La Consulta degli Studenti sottolinea la disparità di trattamento tra la mancanza di fondi per la scuola e le spese per la guerra e gli armamenti, evidenziando un problema di priorità nell’allocazione delle risorse.
Il piatto piange
Gli uffici scolastici regionali addossano le responsabilità agli enti locali che a loro volta lamentano scarsità di fondi dal governo nazionale. La normativa attuale (D.Lgs. 81/08) non fissa assolutamente dei valori di temperatura né minimi, né massimi, per le scuole. Si fa riferimento ad altre fonti tecniche complesse che devono essere adattate all’ambiente scolastico con le dovute valutazioni che si dovranno effettuare a partire dal documento interno della valutazione dei rischi. Ma intanto a scuola si gela e i soldi che dovrebbero arrivare con il Pnrr, avvisano i dirigenti scolastici, saranno comunque insufficienti.
Duecentotrentanove (239) giorni dopo la passeggiata nel fango di Giorgia Meloni nel territorio devastato dall’alluvione tra Forlì e Faenza la presidente del Consiglio ritorna a Bologna e a Forlì per provare a fare il punto sui soldi che gli alluvionati continuano ad aspettare. Alle 9.45 la presidente del Consiglio è attesa in Regione, con il presidente emiliano-romagnolo Stefano Bonaccini e il ministro per gli Affari europei, le Politiche di coesione e il Pnrr, Raffaele Fitto, per la firma del nuovo accordo sul Fondo sviluppo e coesione (Fsc) 2021-2027, che garantisce investimenti per quasi 600 milioni in Emilia-Romagna.
Fuori in contemporanea è annunciato un presidio ambientalista contro l’accordo sulla Campogalliano-Sassuolo e Cispadana. È però in Romagna l’appuntamento più atteso e anche simbolico della giornata. Meloni sarà a Forlì, tra i centri colpiti dalle alluvioni dello scorso maggio, per una visita insieme alla presidente della Commissione Ue, Ursula Von Der Leyen. Tornano insieme sui luoghi che furono devastati dopo la visita che fecero il 25 maggio, con la Romagna ancora in ginocchio e sotto il fango.
Non saranno applausi. Fuori, in piazza Saffi, è preannunciato dalle 12 un sit-in di protesta degli alluvionati che “non si arrendono”, associazioni e comitati fra cui anche Anpi, Cgil, Legambiente, che giudicano “assolutamente insufficienti, gravemente tardive ed estremamente farraginose le poche risposte giunte finora ai bisogni urgenti delle terre alluvionate”. Bonaccini ha annunciato che verrà firmato l’accordo “per ricevere poco meno di 600 milioni di euro che sono i cosiddetti fondi sviluppo-coesione, fondi europei che spettano alle regioni per fare investimenti su diverse opere, dalle infrastrutture a bandi per progetti di rigenerazione urbana, per impiantistica sportiva, culturale, in un momento in cui l’andamento dell’economia non è proprio felice”. L’esponente del Pd ha ricordato che i rimborsi agli alluvionati “erano stati stimati a poco più di 4 miliardi per danni, metà per le imprese e metà per le famiglie: lì siamo lontani da ciò che serve e servirà” ma – ha aggiunto Bonaccini – “voglio sperare che quello che è stato promesso venga mantenuto. Non ci sposteremo di un millimetro finché, come per il terremoto, il 100% dei danni di cittadini, imprese e Comuni non venga rimborsato”.
Alluvione Romagna, la riunione (senza Meloni)
Ieri intanto si è tenuta una riunione tra il ministro per gli Affari europei, il Sud le Politiche di coesione e il Pnrr, Raffaele Fitto, il ministro dell’Economia e delle finanze, Giancarlo Giorgetti, il Commissario straordinario Francesco Figliuolo e il Presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini per fare il punto sulla ricostruzione in Emilia-Romagna. Nel corso della riunione – si legge in una nota – sono stati affrontati i temi relativi alla nuova misura Pnrr che ha stanziato 1,2 miliardi di euro aggiuntivi per interventi di difesa idraulica, di ripristino della viabilità delle infrastrutture stradali, del patrimonio edilizio residenziale pubblico e delle strutture sanitarie e sociosanitarie di proprietà pubblica nonché delle infrastrutture sportive e delle reti energetiche.
La nuova misura prevede scadenze precise: entro settembre 2024 occorre selezionare gli interventi mediante ordinanze del Commissario straordinario. Tutti gli appalti dovranno essere aggiudicati entro il 30 giugno 2025. Entro giugno 2026 sarà necessario completare il 90% degli interventi. Una parte dei soldi che dal governo davano per “già dati” all’Emilia Romagna per la ricostruzione è stata ufficializzata a 24 ore dalla nuova sfilata di Meloni e Von Der Leyen. I romagnoli si augurano che a breve sia programmata la prossima.
Ma c’è bisogno di scriverlo ancora Certo, va ripetuto ogni giorno, finché non si ha contezza della gravità della situazione. Scriviamolo quindi che il 2023 è stato globalmente l’anno più caldo mai registrato dal 1850. Inoltre, lo scorso è stato il novembre con la temperatura più anomala di cui si abbia traccia. Situazioni simili, ammonisce l’organizzazione meteorologica mondiale (Wmo), si riproporranno con frequenza e intensità sempre maggiori.
C’è una probabilità pari al 66%, secondo l’agenzia Onu, che tra il 2023 e il 2027 la temperatura media superi la soglia di 1,5 gradi centigradi fissata dall’accordo di Parigi per almeno un anno. Mentre la probabilità sale al 98% che uno di questi anni nonché il quinquennio nel suo complesso siano i più caldi mai registrati.
Il 2023 è stato l’unico anno in cui il 100% dei giorni ha registrato un’anomalia (segue il 2019, con 363 giorni su 365). Inoltre lo scorso è stato anche l’anno con più giorni con oltre 1,5 gradi centigradi di anomalia: oltre il 47% del totale. Sono 192 i giorni in cui l’anomalia è stata compresa tra il grado e il grado e mezzo e ben 173 quelli in cui ha superato la soglia del grado e mezzo. Una cifra, quest’ultima, particolarmente notevole e preoccupante, se pensiamo che il valore più alto, finora, erano stati i 77 giorni del 2016. Due giorni, ovvero il 17 e il 18 novembre, hanno addirittura superato la soglia dei 2 gradi – quella scongiurata dall’accordo di Parigi per via degli effetti irrecuperabili che avrebbe sull’ambiente. Vedete senso di urgenza in giro?
In Italia esiste un serio problema di gestione dei beni confiscati alla criminalità e se non fossimo allucinati dalle missioni effimere stile Caivano forse sarebbe il caso di parlarne. Ad agosto di quest’anno è stato dato alle fiamme un terreno confiscato all’ex capo di Casalesi Francesco Schiavone, detto Sandonkan. In provincia di Caserta ci sono stati altri due incendi in terreni confiscati, come anche in Calabria, mentre non si contano le intimidazione e i danneggiamenti.
Eppure sui beni confiscati pesa la decisione vigliacca del governo di cancellare fondi del Pnrr per i beni sottratti alle mafie in Italia. Un problema di cuii non si parla, al punto che Libera, Cgil, Avviso Pubblico, Legambiente, Arci e Acli hanno scritto una lettera al ministro competente per il Pnrr, Raffaele Fitto.
Beni confiscati alle mafie, tutto tace
Il motivo è avere chiarimenti sulla cancellazione del bando e sul reperimento di risorse alternative a copertura di quanto presentato nell’ambito dell’Avviso: “Dopo la decisione del Governo dello scorso luglio di cancellare con un tratto di penna i 300 milioni di euro previsti dal Pnrr per la rifunzionalizzazione e la valorizzazione dei beni confiscati, e dopo l’approvazione della quinta rata del Pnrr da parte dell’Unione europea, chiediamo al ministro di poter avere chiarimenti sull’avanzamento del bando e sul reperimento di risorse alternative a copertura di quanto presentato nell’ambito dell’Avviso. Chiediamo che vengano presentate le misure attraverso le quali saranno tutelate le Amministrazioni comunali che stanno portando avanti le proposte progettuali attraverso gare d’appalto e aggiudicazioni, e con le quali si darà sostegno a tutti i progetti risultati vincitori del bando. In un clima di forte crisi economica e sociale del nostro Paese, il rischio che alcuni Comuni possano incorrere in procedure di dissesto o di incertezza finanziaria non è accettabile”.
Un regalo ai clan
“Le norme sull’attacco ai patrimoni mafiosi e sul riutilizzo pubblico e sociale dei beni confiscati alle mafie hanno compiuto, in questo 2023, rispettivamente 41 e 27 anni. La cancellazione del finanziamento di circa 300 milioni di euro previsti dal Pnrr per la rifunzionalizzazione e la valorizzazione dei beni confiscati, fondi definanziati dal Ministro Fitto e che sarebbero poi dovuti arrivare da ulteriori provvedimenti di cui ancora non c’è traccia, rischia di essere un freno all’avanzamento della lotta alle mafie e alla corruzione – ricordano le associazioni che hanno sollevato il caso.
Parliamo di 300 milioni di euro per la realizzazione di 200 progetti nelle otto Regioni del Mezzogiorno (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia). Nel dicembre 2022 vi è stata l’approvazione con decreto di una graduatoria e relativi finanziamenti. L’iter è proseguito con ulteriori adempimenti tecnici dell’Agenzia, fino all’approvazione del Decreto del 19 dicembre 2022, che ha approvato le graduatorie e i finanziamenti, poi integralmente sostituito da un successivo decreto del 21 marzo 2023. ll 27 luglio 2023 il ministro Fitto ha presentato la proposta di revisione del Pnrr, per un totale di 15,89 miliardi di euro. Una serie di misure sono state definanziate completamente, tra cui quella relativa alla ‘Valorizzazione dei beni confiscati alle mafie’. L’annuncio del governo di intervenire non è stato seguito da nessun documento ufficiale. Anzi, l’Agenzia per la Coesione prosegue l’iter amministrativo con una serie di atti formali. La lotta alle mafie rimane relegata al prossimo intervento ad “alto impatto” ma bassa resa.
Nel primo Consiglio dei ministri che convocherò entro la fine della prossima settimana interverremo con un decreto», dice la presidente Marzia Rizzo testa sul microfono come un abbeverarsi, «legalizzando il femminicidio e chiudendo una volta per tutte questa piaga infestante che ha assalito il dibattito pubblico. Il popolo ha espresso la sua volontà, ci affida la responsabilità di occuparci di cose ben più serie per la prosperità dei cittadini di DF».
«Legalizzare il femminicidio?». Nella sede dei Democratici, uffici usurati e odore di mensa, la conferenza stampa della presidente Marzia Rizzo è seguita nel salone principale da una televisione larga e pesante ormai fuori produzione. «Legalizzare il femminicidio è impossibile, ha preso un abbaglio, avrà voluto dire normare e le è scappata la mano», dice un senatore che anche questa volta è riuscito a rientrare in Parlamento, per 110 fortuna, visti i debiti ancora da pagare.
Il segretario dei Democratici assiste alla trasmissione su una sedia di magazzino, i gomiti sulle ginocchia, una campagna elettorale appena persa che non ha lasciato segni. Alla brocca del caffè Mario Spini, un vecchio comunista che ancora legge libri, lamenta un «periodo nero, nerissimo, per cui non siamo pronti, per cui non siamo attrezzati», e gli altri che gli dicono di smetterla, di accontentarsi, che ha guadagnato un altro giro di giostra alla sua età e non ha ancora imparato a fare un caffè. In fondo alla stanza si consigliano di non evidenziare l’errore, non è questa l’opposizione che gli elettori si aspettano, non è una parola sbagliata a fare perdere il consenso a questi che sono una corazzata. Dall’osservatorio del sentimento sui social dicono che quella frase sostanzialmente è passata inosservata. «Alle femministe gliela farà pagare. Questo lo possiamo dare per certo.
Il suo elettorato glielo chiede ma soprattutto glielo chiede Corti che non sopporta l’idea di essere stato fatto fuori su un tema che per lui non dovrebbe nemmeno esistere», Filippo Sansa è il segretario particolare del segretario, quando dice qualcosa i parlamentari gli prestano attenzione perché conoscono i passaggi di idee all’interno del partito: Sansa propone, il segretario talvolta si limita a smussare ma l’azione finale ricalca la proposta. Il segretario ombra lo chiamano quelli della minoranza interna che vorrebbero scalzare il segretario da anni ma ogni volta ne escono sconfitti. «Ai cittadini di DF interessa l’economia. Vedo che continuate a non capirlo. Non interessano le battaglie ideologiche sui principi. Non interessa l’azione residuale di chi radicalizza lo scontro ma non propone soluzioni», dice Luigi Barattini, l’economista per tutti, professore universitario in una scuola senza iscritti ma membro nei direttivi di una dozzina di fondazioni. «Sì Luigi», gli risponde Sansa, «posso anche essere d’accordo con te ma Valerio Corti non ha perso la poltrona da presidente per una previsione errata sull’inflazione».
Sbuffa, Sansa. Lo scontro nel partito tra chi ritiene gli elettori selvatici sottosviluppati da non inseguire nei loro pruriti e chi, come lui, chiede di intercettare anche i desideri, oltre ai bisogni, è una litania quotidiana. Filippo Sansa non lo vuole nemmeno fare quel lavoro, non sopporta ricoprire quel ruolo. Filippo Sansa ha la natura del funzionario di partito, ama smistare le elaborazioni dei gruppi di lavoro, allertare gli esperti sui progetti di legge, coordinare i gruppi locali e nazionali, tirare le somme degli incassi nelle feste e negli eventi.
Pragmatico, dicono di lui. Il segretario del partito lo vuole con sé perché «il Sansa vede le cose come le vede la nostra gente, è la cinghia di distribuzione tra dirigenti e popolo». «Nei nostri circoli ci si chiede perché non siamo capaci di esprimere una donna come segretario», affonda Sansa. Qui il segretario solleva i gomiti e si pone eretto. «In che senso?», gli chiede, e Sansa spiega che tra gli iscritti al partito galleggia un’evidente delusione per l’intuizione di candidare a presidente di DF una donna, dice Sansa che gli iscritti gli chiedono perché «non siamo arrivati prima noi». «Le iscritte, immagino», interviene il deputato Torlisi.
«Gli iscritti, anche gli iscritti maschi», puntualizza Sansa. «Me li vedo i nostri iscritti Democratici che non dormono la notte perché non abbiamo una donna come segretaria, interessati più al sesso che alle qualità della guida della nostra comunità. A me pare che qui si stia perdendo la bussola. Se domani lanciamo una campagna in difesa degli uccelli dobbiamo proporre un’upupa come ministra all’Ambiente?», chiede Barattini mentre smammola sul telefonino sudato. «Io dico la mia», dice Sansa che ha voglia di troncare la discussione, in sottofondo s’ode Marzia Rizzo rispondere sulle iniziative per richiudere il buco dell’ozono.
«I nostri hanno bisogno di essere scaldati con battaglie identitarie. E infatti in questa campagna elettorale si sono mossi poco, svogliati e male», dice Sansa. Il segretario dei democratici ora è in piedi. «Andare alla guerra contro un governo che non si è ancora insediato accusando una donna di essere nemica delle donne sarebbe un gesto di poco rispetto istituzionale, basato su un pregiudizio. La Rizzo ha anche una figlia femmina. Faremo solo la figura dei fessi, ancora una volta». La discussione è chiusa, forse.
Guardando la conferenza stampa, Clementina si riempie di collera. «Legalizzare il femminicidio?», Clementina Merlin chiama immediatamente la redazione. «Questa è la notizia da mettere in prima», dice trafelata al suo caporedattore. «Non lo so, ora vediamo, non ne sta parlando nessuno, nemmeno i Democratici rispondono, rischiamo di montare un caso inesistente». «Inesistente? Ma cosa serve di più, che vengano a manganellarci in casa? Ma perché siete così cretini?». «Clementina, al solito esageri e io non ho tempo da perdere, devo chiudere il giornale». La stimano in redazione. Però «quando vuole sa essere davvero insolente», dicono. Lei ora vorrebbe poter parlare per l’ultima volta con suo padre, chiedergli un consiglio. «Legalizzare il femminicidio?».
Quando Marzia Rizzo pronuncia la frase, Beatrice Vagnati sta bruciando nel boschetto dietro alla stazione di Saranda. Aveva sedici anni fino a un minuto fa. Ora ha milioni di anni come la cenere che si appoggia. Era contenta di Mario, più grande, con la patente. A volte le faceva il piacere di accompagnare al supermercato anche le sue amiche, in classe con lei. Passavano a prenderle, come gli adulti, lei scendeva per alzare il sedile e spedirle dietro perché il sedile davanti, di fianco a Mario, quello delle mogli, era roba sua. L’ha conosciuto alla festa della scuola, lui era fidanzato con una all’ultimo anno. Ma era una puttana, diceva, perché lo tradiva in continuazione. A Beatrice ha fatto tenerezza, così ferito e bistrattato, nonostante il taglio sul sopracciglio destro.
Oggi uscivano per festeggiare un anno di fidanzamento, Mario si è arrabbiato per un messaggio nel telefono di Beatrice, un compagno di classe che la salutava con baci. «Che cazzo bacia? Che vuol dire Bea?», le ha chiesto. «Baci, si dice baci mica perché si bacia, si dice baci come si dice ciao», ma lui no, lui sapeva che semplicemente gli era scappato perché si baciano davvero. «Pensi che sia stupido? Pensi di prendermi per il culo?». A lei veniva da ridere ma non rideva per non farlo arrabbiare di più, lo baciava a baci piccoli sulla bocca come i pappagalli mangiano i biscotti, lui l’ha spinta sul sedile con una manata sulla faccia. «Ma sei scemo?».
«Chi cazzo è questo? Chi cazzo è?», diceva mentre le stringeva le mani sul collo, urlandole come poteva fargli questo, anche lei come tutte le altre, «Ma allora siete tutte puttane», e ripeteva rispondi!, le diceva rispondi!, ma lei non respirava più. Terrorizzato, non voleva. Non se n’è nemmeno accorto. La solleva, non ci riesce, la trascina in uno spiazzo, ha una tanica di benzina per il decespugliatore. Gli rimane l’odore dei capelli bruciati, sembra plastica.
Quando i giornalisti chiedono a Valerio Corti cosa ne pensi dell’ennesimo femminicidio lui risponde che, se è un femminicidio anche un litigio tra ragazzini, allora vale tutto. «Ancora con questa storia? Non preoccupatevi, ora la sistemiamo». Saluta. Ora che è al governo la scorta ha un’auto nuova, più veloce e più elegante.
Il Consiglio e il Parlamento europeo hanno trovato l’accordo in trilogo (tra Parlamento europeo, Consiglio dell’Unione europea e Commissione europea) sulla direttiva contro le cosiddette liti temerarie, le cause pretestuose intentate contro giornalisti, media e altri soggetti al solo scopo di intimidirli (Anti-Slapp, Strategic Lawsuit Against Public Participation, nel gergo bruxellese). Le nuove norme mirano a garantire la protezione a livello dell’Ue di giornalisti, media, attivisti, accademici, artisti e ricercatori contro procedimenti legali infondati e abusivi. La nuova legge, spiega il Parlamento, si applicherà nei casi transfrontalieri e proteggerà le persone e le organizzazioni attive in settori come i diritti fondamentali, l’ambiente, la lotta alla disinformazione e le indagini sulla corruzione da procedimenti giudiziari abusivi, mirati a intimidire e molestare.
Il Consiglio e il Parlamento europeo hanno trovato l’accordo in trilogo sulla direttiva contro le cosiddette liti temerarie
Gli eurodeputati hanno fatto in modo che i casi vengano considerati transfrontalieri, a meno che entrambe le parti non siano domiciliate nello stesso Paese del Tribunale e il caso non riguardi solo uno Stato membro. In base alle nuove norme, gli imputati potranno chiedere il rigetto anticipato delle pretese manifestamente infondate: in questo caso, i promotori della causa dovranno dimostrare la fondatezza delle loro ragioni. Per prevenire azioni legali abusive, i Tribunali potranno imporre sanzioni dissuasive ai ricorrenti, solitamente rappresentati da gruppi di pressione, aziende o politici. I giudici possono obbligare il ricorrente a pagare tutte le spese del procedimento, comprese le spese legali della controparte. Ove la legislazione nazionale non consenta che questi costi siano interamente pagati dal ricorrente, i governi dell’Ue dovranno garantire che siano coperti, a meno che non siano eccessivi.
A Bruxelles da anni si discute di liti temerarie e di libertà dell’informazione. Come spiega l’eurodeputato Tiemo Wölken (S&D, Germania), l’accordo sulla direttiva costituisce “un passo verso la fine della pratica diffusa di azioni legali abusive volte a mettere a tacere giornalisti, Ong e società civile. Ora la legge deve essere approvata in plenaria e dagli Stati membri per poi essere pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.
Il disegno di legge targato FdI prevede sanzioni fino a 50mila euro. Per i giornalisti è peggio della galera
In Italia la maggioranza spinge in direzione contraria. Il disegno di legge sulla diffamazione incardinato in Commissione Giustizia al Senato non convince l’Ordine dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa (Fnsi) che lamentano punti critici del testo, che abolisce il carcere per i giornalisti, come chiesto dalla Corte costituzionale e dagli organismi internazionali, come le sanzioni fino a 50mila euro, ritenute assolutamente sproporzionate rispetto alla media retributiva di collaboratori e lavoratori autonomi; la rettifica automatica senza alcun commento da parte del direttore di testata o del singolo giornalista; il fatto che il giornalista non possa difendersi nel foro di registrazione della testata, ma debba farlo in quello del querelante “costringendo – è stato spiegato – colleghe e colleghi che sono ai margini della professione a una sorta di costoso ‘turismo giudiziario’…”.
Per questo la Fnsi ha deciso di convocare per giovedì 14 dicembre alle 10 nella piazza romana di Santi Apostoli una riunione straordinaria del Consiglio nazionale alla quale sono invitati a partecipare, insieme a colleghe e colleghi, i rappresentanti degli organismi della categoria, parlamentari, magistrati. Le modifiche richieste al disegno di legge non sono arrivate “nonostante gli emendamenti presentati da parlamentari di diversi schieramenti politici”, osserva la Fnsi.
In quali ambiti è inapplicata, se non addirittura tradita, la Costituzione italiana? Che Italia sarebbe quella in cui la politica, tutta, si ripromettesse di applicare la Costituzione? E come sarebbe un Paese fondato sulla rendita se domattina dovesse svegliarsi fondato davvero sul lavoro?
Parte da Lodi il tour della nuova “giullarata politica” firmata da Giulio Cavalli. Questa sera (ore 21) l’attore, giornalista e scrittore lodigiano sarà in scena al teatrino San Rocco in via Padre Granata 14 con “Odio gli indifferenti – Che Paese saremmo se si rispettasse la Costituzione”, anteprima dello spettacolo che dal 12 al 21 gennaio sarà al teatro della Cooperativa di Milano. Cavalli dividerà il palco con Luigi De Magistris, una lunga carriera come pubblico ministero prima dell’entrata in politica, culminata nell’incarico di sindaco di Napoli. L’anteprima lodigiana è organizzata in collaborazione con il BarZaghi (per info e prenotazione biglietti, 339 6535017), il locale nell’omonimo piazzale sempre più protagonista della vita culturale cittadina.
«”Odio gli indifferenti” è una giullarata in cui si immagina che nel 2048 esca un decreto che obblighi a rispettare la Costituzione in tutte le sue parti. Si tratta di uno spettacolo fondamentalmente comico, sullo stile di Dario Fo – racconta Cavalli che da pochi giorni ha pubblicato anche il suo nuovo romanzo, “I mangiafemmine” (Fandango libri) -. Mi serviva un pubblico ministero, da qui l’idea di invitare Luigi De Magistris, in scena da ex magistrato senza alcuna inclinazione politica. Abbiamo organizzato un “numero zero” a Foggia, una tappa andata decisamente meglio del previsto, mentre a gennaio inizierà il tour al teatro della Cooperativa di Milano. Il BarZaghi ha deciso di entrare come coproduttore dello spettacolo, chiedendoci di realizzare una prova aperta a Lodi». Cosa succederebbe in Italia se si rispettasse davvero la Costituzione? «Alcune professioni, per esempio, non esisterebbero: solo per dirne una, la rendita non è considerata una professione. Durante lo spettacolo affrontiamo passaggi storici, attraverso video della fase costituente, e gli articoli fondamentali della carta. Si parla di ambiente, di preservazione della cultura e della bellezza. Essendo una giullarata, il canovaccio ci permette di improvvisare molto. In tour, a Milano, sul palco saliranno anche alcuni ospiti, ognuno dei quali porterà un articolo sulla Costituzione: tra loro Cecilia Strada che affronterà il tema dell’immigrazione»
Quante promesse ha mantenuto il governo guidato da Giorgia Meloni? Immaginando di suddividere le promesse in 100 obiettivi importanti il sito di fact cheking Pagella Politica ha fatto i conti scoprendo che le cose stanno andando diversamente da come vengono raccontate: più della metà è in corso di attuazione, ma in tre casi è stato fatto il contrario di quanto promesso. Solo 17 promesse su 100 sono state mantenute mentre per 21 il governo non ha fatto nulla per rispettare la parola data ai suoi elettori prima delle elezioni. In tre casi le promesse risultano essere “compromesse” perché il governo ha fatto l’esatto contrario di quanto si era impegnato a fare.
L’analisi sull’esecutivo Meloni di Pagella Politica. Ecco tutti i flop collezionati dal governo dai migranti alla ricerca
Tra le 17 promesse mantenute Pagella Politica elenca: la sostituzione del reddito di cittadinanza con l’assegno di inclusione e il supporto per la formazione e il lavoro; il sostegno militare all’Ucraina, con l’invio di due pacchetti di armamenti che si sono aggiunti a quelli mandati dal governo Draghi; l’introduzione di nuovi incentivi per le assunzioni dei lavoratori, tra cui donne e giovani; l’aumento dell’estrazione di gas naturale in Italia; e l’innalzamento del limite all’uso del denaro contante, portato a 5 mila euro. Tra le 59 promesse che sono in corso di attuazione secondo Pagella Politica ci sono alcuni dei provvedimenti principali promossi dal governo. Qui, per esempio, rientrano la revisione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), su cui sono in corso le trattative con l’Unione europea; il taglio del cuneo fiscale, che è stato approvato, ma non in via strutturale; l’estensione del regime forfettario (chiamato impropriamente “flat tax”) per le partite Iva con ricavi fino a 85 mila euro, e non 100 mila come promesso nel programma di coalizione; la riforma fiscale, la cui legge delega è stata approvata dal Parlamento e che ora il governo dovrà concretizzare con i decreti attuativi; il sostegno alla natalità e altre varie riforme, come quella della giustizia.
Tra i punti disattesi persino la riforma del premierato che ha rimpiazzato l’elezione diretta del Capo dello Stato
Mentre tra le 21 promesse che secondo Pagella Politica il governo non è ancora riuscito a mantenere spiccano la “difesa dei confini nazionali ed europei” dai migranti, con gli sbarchi che dal 1° gennaio al 24 ottobre 2023 sono quasi raddoppiati rispetto allo stesso periodo del 2022; la creazione di hotspot nei Paesi fuori dall’Europa; l’allineamento ai parametri europei degli investimenti nella ricerca; la “salvaguardia della biodiversità” con “l’istituzione di nuove riserve naturali”; e l’introduzione della “valutazione dell’impatto generazionale delle leggi e dei provvedimenti a tutela delle future generazioni”. Nella sezione delle promesse compromesse il sito invece rileva come Giorgia Meloni avesse chiesto “l’elezione diretta del Presidente della repubblica” durante la sua campagna elettorale. Il cosiddetto “premierato” di cui si sta discutendo in queste settimane prevede una riforma costituzionale per l’elezione del presidente del Consiglio.
Sulla promessa del governo di “prodotti e i servizi per l’infanzia” pesa la prossima Legge di Bilancio che invece prevede invece la fine del taglio dell’iva al 5%. Niente da fare anche per la promessa “piantumazione di alberi sull’intero territorio nazionale”. Ridiscutendo con l’Unione europea il Pnrr il governo Meloni ha chiesto di poter ridimensionare l’obiettivo, considerato irraggiungibile, di piantare 6,6 milioni di nuovi alberi entro il 2024. Analizzando gli ambiti Pagella Politica nota come le promesse non mantenute riguardano soprattutto le sezioni “Giovani e sport”, “Ambiente” e “Scuola, università e ricerca”. Molti di loro sono quelli spesso in piazza. Chissà perché.
Raccontò l’ex moglie di Umberto Bossi di essersi separata perché il fondatore della Lega Nord tutte le mattine usciva di casa con la valigetta da medico, dicendole sulla porta: “Ciao amore, vado in ospedale”. Bossi non era medico e gli mancavano sei esami per laurearsi. Uscire dalla porta di casa con una valigetta in mano per fingersi altro è un’eredità che Bossi ha regalato anche ai membri di questo governo, illuminati e diplomatici in trasferta mentre qui in Italia, a casa loro, perseguono il peggiore oscurantismo.
Alla Cop28 i rappresentanti del nostro governo spingono per la transizione. Ma poi in Italia la cannoneggiano
Ieri il ministro all’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin è intervenuto alla Plenaria di apertura della Pre-COP28 in corso ad Abu Dhabi con una dichiarazione con cui è impossibile non essere d’accordo: “Non vi è dubbio che sia dovere di tutti noi – ha detto il ministro – contribuire all’attuazione dell’Accordo di Parigi con la massima ambizione possibile, agendo con risolutezza entro il 2030 per ridurre le emissioni globali e procedere verso una traiettoria chiara di neutralità climatica. Un’azione ambiziosa per il clima è una azione equa, poiché riduce i rischi associati al riscaldamento globale, proteggendo i più vulnerabili dagli impatti peggiori”.
Negli Emirati Arabi Uniti devono aver pensato che il governo italiano abbia un ministro illuminato e progressista, attento anche alle disuguaglianze insite nella transizione energetica. “L’equità dovrebbe essere un fattore che favorisce la massima ambizione possibile di tutti i governi – ha detto Pichetto -. Tutti dobbiamo contribuire, e certamente in particolare quelli che attualmente emettono quote elevate di emissioni globali”. Il ministro, a tal proposito, ha sottolineato che “la scienza è molto chiara. La finestra di opportunità per agire per limitare gli effetti del cambiamento climatico è molto stretta e non possiamo pertanto perdere altro tempo. Ma la scienza ci fornisce anche soluzioni realizzabili per affrontare questa sfida globale. Ora è nostra responsabilità trasformarle in azioni”.
Il ministro ha spiegato anche che “politiche climatiche e scelte energetiche sono facce di una stessa medaglia, non si può parlare delle prime senza affrontare il tema della riduzione della nostra dipendenza dai combustibili fossili e al contempo assicurare la sicurezza energetica – ha avvertito -. In questo contesto, riteniamo che la COP28, attraverso il Global stocktake possa e debba dare indicazioni chiare, verso percorsi realistici che portino ad obbiettivi tangibili”. Per il ministro “triplicare la capacità di energia rinnovabile globale e raddoppiare il tasso di efficienza energetica attuale, ridurre drasticamente le emissioni di metano, eliminare gradualmente i sussidi ai combustibili fossili e adottare misure di mitigazione ambiziose in tutti i settori economici, sono tutti obbiettivi alla nostra portata”.
Il ministro Pichetto Fratin parla da ambientalista convinto al vertice di Abu Dhabi
Quando non ha la sua valigia per andare all’estero Pichetto Fratin però fa parte di un governo che smentisce quasi in toto le sue dichiarazioni. Non è un problema di credibilità politica internazionale – quella è una quisquilia – ma si tratta di sopravvivenza. Come può il ministro tollerare quindi la guerra (a suon di fake news) di alcuni suoi colleghi ministri alla mobilità elettrica Come si inserisca nel suo illuminato discorso la reazione scomposta di suoi alleati al via libera dell’Europarlamento alla legge sul ripristino della natura Matteo Salvini ha parlato infatti di “follia ideologica”, Francesco Lollobrigida di “farneticazioni della sinistra”, Antonio Tajani di “danni enormi”. Perché non zittisce chi sproloquia di “ideologia ambientalista”? Perché a capo di Enel e di Eni sono stati nominate personalità di lungo corso addirittura scettiche sul cambiamento climatico? Perché l’Italia è il sesto più grande finanziatore di combustibili fossili al mondo? Ma soprattuto la domanda più importante: perché il nostro ministro viene chiamato “della Sicurezza energetica” e non più “della Transizione ecologica”? Non resta che aspettare che glielo chieda qualcuno quando rientra a casa.