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Operazione Ermes 2. Il cerchio intorno a Messina Denaro. I fatti e le facce.

(il pezzo di Egidio Morici per Tp24.it)

Il cerchio si stringe. Si stringe ancora. La terra bruciata attorno al boss latitante Matteo Messina Denaro sembra non esaurirsi mai. La novità di queste ultime due operazioni antimafia, sta forse nell’aver posto l’attenzione nei confronti di insospettabili. Nell’operazione Ebano aveva fatto molto scalpore che due funzionari del Comune di Castelvetrano fossero finiti nel registro degli indagati, ma nell’operazione Ermes 2 di ieri mattina lo stupore della città è stato ancora maggiore, visto il coinvolgimento del giornalista Filippo Siragusa, al quale è stata applicata la misura cautelare dell’obbligo di dimora nel comune di residenza, per il reato di intestazione fittizia di beni.
L’inchiesta è un approfondimento dell’operazione Ermes dell’agosto 2015, in cui era emerso il ruolo di Vito Gondola, l’allevatore pluripregiudicato reggente del mandamento mafioso di Mazara del Vallo, che si occupava di gestire la “corrispondenza” di Matteo Messina Denaro.

Ieri sono finiti in carcere i fratelli Loretta (Carlo e Giuseppe), pienamente inseriti con le loro aziende nella famiglia mafiosa di Mazara, per associazione mafiosa e attribuzione fittizia di beni a terzi; Epifanio Agate, figlio del capomafia Mariano Agate già deceduto, per estorsione aggravata dal metodo mafioso e, anche lui, per attribuzione fittizia di beni a terzi; ed Angelo Castelli per favoreggiamento alle cosche di Mazara e di Castelvetrano.

I terzi in questione sono invece soci di tre aziende: la Medio Ambiente, di Filippo Siragusa, Paola Bonomo ed Andrea Alessandrino e le due società (My Land e Fishmar) di Rachele Francaviglia, Francesco Mangiaracina, Nataliya Ostashko e Nicolò Passalacqua. Tutti raggiunti dall’obbligo di dimora.

Ma è nelle campagne tra Mazara e Castelvetrano che tutto ebbe inizio, la mattina del 2 marzo 2010, durante un summit mafioso dove c’erano vari personaggi “di spessore”: Antonino Marotta, uno dei componenti della banda di Salvatore Giuliano, consigliere di fiducia di don Ciccio Messina Denaro prima e del figlio Matteo dopo; Vito Gondola, reggente della cosca di Mazara, accompagnato da Carlo Loretta, pregiudicato mafioso mazarese; Giovanni Filardo, cugino del superlatitante poi arrestato nell’operazione Golem 2, meno di due settimane dopo.
In quell’occasione bisognava decidere come spartirsi i proventi degli appalti per la costruzione del parco eolico “Vento Di Vino”.

Anche la sede della ditta Mestra (Materiale Edile Scavi Trasporti Recuperi Ambientali) era spesso teatro di incontri fra boss mafiosi, organizzati dai fratelli Loretta che gestivano anche una discarica per lo smaltimento dei rifiuti e il recupero ambientale. Una discarica che agiva in regime di assoluto monopolio, essendo l’unica ad avere le relative licenze.
Nell’autolavaggio di Angelo Castelli, invece, il capomafia Vito Gondola discuteva con il suo sodale Carlo Loretta di sub-appalti e delle opere di sbancamento per il futuro ospedale di Mazara del Vallo.

La Mestra però, nel febbraio del 2014, era stata raggiunta da un’interdittiva antimafia della prefettura di Trapani, venendo estromessa dai lavori di ristrutturazione dell’ospedale.
Ed è per aggirare quest’interdittiva che i mafiosi decisero di creare la società cooperativa Medio Ambiente. E a questo scopo coinvolsero due dipendenti della Mestra (Anna Bonomo ed Andrea Alessandrino) e Filippo Siragusa, giornalista del Giornale di Sicilia che, da qualche tempo collaborava con la Mestra nel procacciare attività di smaltimento di rifiuti non pericolosi e di dismissione di manufatti di amianto. In poco tempo venivano acquisite tutte le autorizzazioni per accedere agli appalti pubblici.

Sulla possibilità che il giornalista fosse all’oscuro del reale motivo della costituzione della cooperativa, la Polizia di Stato invece è chiara. Le intercettazioni telefoniche dei soci “permettevano di confermare l’interesse del Siragusa Filippo alla gestione dell’impresa accanto ai Loretta. L’indagine ha accertato che il Siragusa era perfettamente a conoscenza dello spessore criminale dei Loretta e del perché era stata costituita la Medio Ambiente”.
Senza contare che, “per circa un mese dopo la costituzione – scrivono gli inquirenti – era stato anche amministratore” della società stessa. E d’altra parte, più volte il giornalista si era incontrato con Giuseppe Loretta per parlare delle strategie di mercato per lanciare la nuova azienda. E quando il Giornale di Sicilia parlò del giro di pizzini scoperto nella prima operazione Ermes, il collaboratore del quotidiano rispose alle lamentele della famiglia Loretta per l’ampio spazio dedicato dalla stampa, dicendo che “sta nel gioco delle parti, i giornalisti gonfiano le cose”.

Se la Medio Ambiente, formalmente intestata a Siragusa, Bonomo e Alessandrino, era invece nelle piena disponibilità dei fratelli Loretta, ci sono altre due società, sempre intestate a terzi, che invece erano di Epifanio Agate (figlio del boss Mariano Agate, ormai deceduto): la My Land e la Fishmar.
I soci di fatto erano l’Agate e Francesco Mangiaracina, cognato del collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori che, per sfuggire alla normativa di prevenzione antimafia, avevano intestato le quote della My Land alle mogli Rachele Francaviglia e Natalyia Ostashko. In seguito, a causa di problemi con le banche, il 95% delle quote della società era stato intestato alla Ostashko ed il 5% ad un uomo vicino all’Agate: Nicola Passalacqua, che ne era diventato l’amministratore.
L’operazione Ermes 2 chiaramente ha comportato il sequestro del capitale sociale e dei beni aziendali della Mestra, ma anche della Medio ambiente e della My Land.

Ciò che ha colpito di più è stato però il coinvolgimento di Filippo Siragusa, molto noto a Castelvetrano che ha dichiarato: “Ci sono momenti nella vita in cui ti arrivano dei colpi che non ti aspetti. Avrò modo di chiarire ogni cosa ai magistrati. Ho fiducia in loro e sono certo che presto sarà tutto chiarito in merito alle accuse che mi sono state rivolte. Dire altro in questo momento non serve. E’ un momento difficile per me e per i miei cari. Questo territorio mi conosce da troppi anni e sa come ho sempre agito come giornalista e lavoratore precario. Buon Natale”.
Di diverso avviso invece il Questore Maurizio Agricola: “Purtroppo era uno di quegli insospettabili che, ben consapevole della caratura mafiosa dei fratelli Loretta, si era intestato una società nuova, la Medio Ambiente, per permetter loro di aggirare la normativa antimafia”.

Ad ogni modo si è trattato di un’operazione che ha dato conferma del saldo legame tra le cosche mafiose di Mazara del Vallo e di Castelvetrano, con Matteo Messina Denaro che detta come spartirsi gli appalti e risolve le varie controversie segnalategli da Vito Gondola. Le condizioni però diventano sempre più difficili ed anche il ricorso a persone insospettabili, potrebbe, come in questo caso, non funzionare più.

Sala ha saputo dell’indagine dai giornali? Sì, perché il suo avvocato non ha aperto le mail.

(Manuela D’Alessandro per Giustiziami)

Metà del messaggio postato su Facebook in cui Beppe Sala annuncia di voler tornare a fare il sindaco è dedicata al suo “stupore” nell’aver appreso dalla stampa di essere indagato. “Giovedì sera nessuna comunicazione ufficiale al riguardo mi era stata fatta, nessun avviso di garanzia mi era stato notificato (…). Mi direte, non è certo la prima volta. Vero, ciò nondimenno dobbiamo tutti insieme fare uno sforzo per non considerare la cosa ‘normale’. Non lo è se riguarda un cittadino e non lo è se riguarda il sindaco di Milano”.

Questa versione del sindaco sembrerebbe prefigurare una clamorosa violazione del segreto istruttorio a suo danno, con la ‘soffiata’ di una irrispettosa procura generale al cronista di turno. La realtà è ben diversa.

Giovedì sera, la magistratura ha notificato una mail con la richiesta di proroga dell’indagine sulla Piastra di Expo all’avvocato d’ufficio Luana Battista. E’ quello che accade al qualsiasi “cittadino” da lui evocato che non ha già un legale perché non è mai stato coinvolto in quell’inchiesta. Sala dimentica di raccontare che ha saputo dai giornali di essere accusato per la presunta falsificazione di due verbali solo perché l’avvocato d’ufficio non ha aperto la sua posta elettronica, come da lei candidamente ammesso (“Non c’erano nomi noti nella prima pagina, sembrava una nomina come le altre”). Nel frattempo, i giornalisti hanno dato risalto a un atto non più segreto in quanto (in teoria) già conosciuto dall’indagato.

Forse al sindaco da’ fastidio aver saputo troppo tardi che l’accusa a suo carico era ‘solo’ quella di falso.  Quando sono uscite le prime notizie, racconta chi è gli è stato vicino, il suo timore era di essere accusato di turbativa d’asta, il reato attorno a cui ruota l’inchiesta sul più ricco appalto di Expo. Di qui il tono infastidito verso stampa e procura generale: se avesse saputo che doveva rispondere ‘solo’ di avere retrodato dei verbali non si sarebbe cacciato nel limbo scivoloso dell’autosospensione.

Uno ogni 73

Il bilancio dei migranti o rifugiati morti o dispersi nel Mediterraneo dall’inizio del 2016 mentre tentavano di giungere in Europa è salito a 4.901, secondo gli ultimi dati resi noti oggi a Ginevra dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). A pochi giorni dalla fine del 2016, il dato di 4.901 decessi è nettamente superiore ai 3.777 decessi segnalati per tutto l’anno scorso. Il tasso di mortalità nel 2016 è inoltre di gran lunga superiore a quello del 2015. Quest’anno un migrante è morto per ogni 73 migranti giunti via mare. Nel 2015 la cifra era di un decesso per 267 arrivi, sottolinea l’Oim in una nota.

(ansa)

Una brigata di talenti e intelligenze verso #giornimigliori (e, ancora, sulla “sinistra unita”)

E ora? Assisto a scene indimenticabili. E ora? mi chiede qualcuno, altri me lo scrivono. E ora? Ora ci si arrampica sulla cima più bella e ossigenata della politica: il programma. Che, se ci pensate bene, il programma è andato fuori moda in contemporanea all’abitudine dell’uomo solo al comando. Si vota Grillo, si vota Renzi, si vota la Meloni, si vota Silvio; provate a sperimentare quanta gente conosce il nome del partito che rappresentano e rimarrete esterrefatti. Il programma invece va letto e soprattutto va scritto. E rimane. Nessuna delega in bianco all’uomo della provvidenza: è lo streaming definitivo, il programma politico.

E quindi a chi mi chiede “e ora?” posso raccontare cosa ci siamo messi in testa di fare noi che alla provvidenza ci crediamo davvero poco ma che siamo convinti che sia arrivato il tempo di prendere il biglietto verso #giornimigliori. Come abbiamo scritto qui:

«Scriverlo, sembra banale, ma i programmi di governo, con i numeri a fianco, non li scrive più nessuno. Sono riusciti a fare addirittura tre governi in una sola legislatura, senza esplicitare se non a grandi linee (e a larghe intese) cosa avrebbero fatto e come. Anche Gentiloni non si sottrae alla regola, in un racconto fumoso, in cui in tono gentile si dicono le stesse cose che prima si dicevano in tono monumentale.

Invece, come diceva quella canzone, «bisogna solo scrivere e lottare».

Possibile prosegue il proprio lavoro, alla ricerca del testo più preciso e condiviso possibile, appunto.

Lo farà a partire da un’anagrafe delle competenze, a cui potete partecipare immediatamente, segnalandoci la vostra qualifica (non solo il titolo di studio, ciò che avete imparato a fare) e segnalando soprattutto la vostra disponibilità a partecipare al nostro progetto

Una ricognizione di talenti e di intelligenze. Ecco. Una cosa così. E basta andare qui per rendersi disponibili.

E poi c’è la questione della sinistra unita. Insieme a quelli che chiedono “e ora?” ci sono quelli che insistono con il “con chi?”. Tra l’altro l’inverno sembra promettere un’ondata di convegnite senza pari (ne scrive Paolo qui). Lo continuiamo a dire (qui, qui, solo per fare un esempio): ci si allea con chi condivide la stessa idea di Paese possibile. Mi pare così semplice. E la nostra idea di Paese possibile è incompatibile con gli atti di questo governo (sul lavoro, sulla scuola, sulle disuguaglianze) e con chi aspira a esserne la stampella a sinistra. Questione di scelte: c’è chi (con tutto il nostro rispetto, eh) cerca di cambiare il PD e chi cerca di cambiare il Paese: in questo momento ci sono processi politici, anche a sinistra, che stanno sciogliendo questo nodo. E noi non abbiamo tempo di aspettare. È chiaro così?

Quante sviste nel concorso per notai

(ne scrive Francesca Sironi per l’Espresso)

È lo sbarramento all’ingresso dell’ultima ambizione di casta. Il passaggio obbligato per l’accesso a una categoria che – seppur lamenti crisi – rimane in testa alle classifiche di reddito, con 200 mila euro all’anno dichiarati in media dai suoi professionisti. È il traguardo di lunghi studi e dura gavetta, ma soprattutto la prova che tributa il ruolo di pubblico ufficiale a chi firmerà atti, registri e documenti sancendone l’autenticità con il sigillo della Repubblica. Sul concorso notarile si addensano quindi molte speranze. Ma ora anche nuove domande. Almeno a leggere quanto rileva una denuncia che ipotizza reati sul bando per 300 nuovi notai indetto nel settembre del 2014 – di cui gli esami scritti si sono svolti l’anno scorso, e gli orali sono andati avanti fino allo scorso 6 dicembre.

Dopo aver chiesto l’accesso alle correzioni d’esame, a cui aveva partecipato lei stessa, l’autrice dell’esposto si è trovata tra le mani decine di compiti in parte irregolari, testi redatti con imprecisioni tali, segnala nell’esposto, da renderli nulli secondo la legge in almeno dieci casi, ma a cui sono stati assegnati ugualmente voti sufficienti a traghettare i candidati verso il traguardo della nomina a notai, ormai prossima. Nell’elenco ci sono inciampi evidenti anche per chi non ha dimestichezza con gli strumenti del mestiere – come un atto in cui un sordomuto, «legge ad alta voce» le proprie disposizioni per l’eredità – e altri più tecnici, ma significativi per chi proprio in quella tecnica fa risiedere parte della specificità di un ruolo ancora saldamente nelle mani di meno di cinquemila persone nell’intero paese. Fra gli altri, un candidato sarebbe stato ammesso all’orale pur avendo all’interno del proprio elaborato una pagina scritta a mano con una calligrafia diversa da tutto il resto del suo testo.

Stesso compito, due grafie...
(Stesso compito, due grafie completamente diverse)

L’indagine giudiziaria avviata in seguito alla denuncia è stata chiusa nell’arco di pochi mesi, e i pm della procura di Perugia titolari dell’inchiesta e competenti perché coinvolti otto magistrati romani che fanno parte della commissione, hanno chiesto al gip l’archiviazione. Decisione alla quale si è opposta la denunciante che ha segnalato al giudice, che ancora deve decidere, altri errori presenti negli elaborati. E pure nuovi quesiti sulla validità di giudizi formulati dalla commissione del concorso.

(continua qui)

Ehm, scusate: il braccio destro di Sala, invece, l’hanno già arrestato ai tempi di Expo. Per dire.

Ma non se lo ricorda più nessuno?

E infatti Sala dichiarò: «”Svolgo da sempre la mia attività professionale credendo nel lavoro di squadra e nella lealtà dei comportamenti. Oggi questa fiducia appare sorprendentemente tradita da una delle persone di Expo” ha detto il commissario unico. “Dal mio punto di vista – ha aggiunto – non intendo sottrarmi alla responsabilità che comunque è sempre in capo a chi guida una società”.

[Qui un articolo per rinfrescarsi la memoria:

Una cupola un po’ di destra e un po’ di sinistra sugli appalti dell’Expo 2015, ma anche sulla sanità lombarda (ancora una volta). Un patto tra chi è stato comunista e chi è stato democristiano con chi, più giovane, gestisce ora gli affari dell’esposizione internazionale di Milano del prossimo anno. Erano garantite “le imprese riconducibili a tutti i partiti” dicono i magistrati dell’inchiesta che oggi, 8 maggio, ha portato a 7 arresti (6 in carcere e uno ai domiciliari).  E nel pomeriggio La Direzione investigativa antimafia ha perquisito per un’ora la sede della società Expo 2015 in via Rovello a Milano. Società che ha convocato un cda straordinario alle 18 per discutere la situazione dopo i nuovi arresti.

Se sia una nuova Tangentopoli, nata all’ombra del grande evento lombardo, è presto per dirlo. Di certo c’è che i protagonisti della storia arrivano da quello che sembrava il passato remoto. La fotografia di gruppo dell’inchiesta assomiglia a una Polaroid ingallita che improvvisamente riprende colore. A finire in cella, infatti, non è solo il direttore della pianificazione acquisti di Expo, Angelo Paris, ma anche personaggi che hanno punteggiato la bufera di Mani Pulite: l’ex segretario regionale della Dc lombarda e parlamentare di Forza Italia (pluricondannato) Gianstefano Frigerio, lo storico esponente del Pci Primo Greganti (il “compagno G”) e l’imprenditore Enrico Maltauro. Gli altri a essere stati raggiunti da un ordine di custodia cautelare in carcere sono stati l’intermediario genovese Sergio Catozzo (ex Cisl, ex Udc infine berlusconiano) e l’ex senatore del Pdl Luigi Grillo, già coinvolto in numerose inchieste (la più nota quella sulla Banca Popolare di Lodi, alla fine della quale è stato assolto in appello). Ai domiciliari, infine, Antonio Rognoni, direttore generale di Infrastrutture Lombarde, già arrestato due mesi fa per presunte irregolarità negli appalti delle opere pubbliche.

La cupola aveva contatti molto in alto – agli atti ci sono le telefonate degli arrestati con Silvio Berlusconi, Cesare Previti e Gianni Letta -, prometteva avanzamenti di carriera e protezioni politiche ai manager, incontrava direttori di aziende ospedaliere, copriva e proteggeva le imprese “riconducibili” a tutti i partiti, comprese “le cooperative”. E appena si verificava un vuoto di potere il gruppo sembrava pronto a riempirlo con qualcuno di “fidato” per poter compiere altri reati, tanto da mandare raccomandazioni al leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, al presidente della Regione Roberto Maroni e al suo vice Mario Mantovani. “Ho mandato un biglietto a Berlusconi, non chiamo nessuno per telefono – dice Frigerio al telefono – Un biglietto per Berlusconi e uno a Mantovani dicendo ‘ma la soluzione migliore si chiama Paris per la direzione’. Una “strategia” per sostituire proprio l’ex dg di Infrastrutture Lombarde Rognoni. E il 3 febbraio, scrive il gip, proprio Paris partecipa a una cena ad Arcore.

La cupola che proteggeva “le imprese riconducibili a tutti i partiti”
In Lombardia sarebbe esistita una vera e propria “cupola per condizionare gli appalti”, alcuni dei quali relativi anche ad Expo, come hanno spiegato i magistrati. La “cupola” prometteva “avanzamenti di carriera” grazie a “protezioni politiche” a manager e pubblici ufficiali. Racconta il pm Claudio Gittardi che Paris in un’intercettazione telefonica agli atti dice in sostanza: “Io vi do tutti gli appalti che volete se favorite la mia carriera”. E il “compagno G”? Secondo gli inquirenti “copriva e proteggeva le cooperative”: la “saldatura” tra Greganti e Frigerio “proteggeva le imprese riconducibili a tutti gli schieramenti politici”. Nelle carte dell’inchiesta compaiono, a quanto si è appreso, i nomi di Silvio BerlusconiCesare Previti e Gianni Letta, che però non risultano indagati. L’inchiesta che ha portato anche ad una serie di perquisizioni da parte della Guardia di Finanza  e della Dia milanese, vede al centro i reati di associazione per delinquerecorruzioneturbativa d’astarivelazione e utilizzazione del segreto d’ufficio.

“Viavai continuo di imprenditori, dg di Asl, politici”
La “sede sociale” dell’associazione per delinquere che avrebbe “inquinato” gli appalti era un’associazione culturale intitolata a Tommaso Moro, lo scrittore umanista autore di “Utopia”. “Neanche la sua fantasia sarebbe arrivata a tanto”, ha affermato il procuratore della Repubblica di Milano Edmondo Bruti Liberati. Frigerio era il presidente del Centro Culturale Tommaso Moro e alcuni imprenditori, secondo i pm, avrebbero anche dato “soldi per una pubblicazione riferibile al figlio di Frigerio”. Nel centro, secondo il pm Gittardi, “c’era una viavai continuo di imprenditori, dg di aziende ospedaliere, personaggi di rilievo politico” e poi una serie di incontri si svolgevano anche “in alberghi, ristoranti, nel corso di cene a Milano e Roma”. Gli incontri si svolgevano, come ha spiegato il pm D’Alessio, “anche a Roma ogni mercoledì”. La “struttura” associativa, come ha sottolineato Bruti Liberati, “ruotava attorno a Frigerio, Greganti, Grillo come organizzatori dell’associazione” e aveva per “partecipi Cattozzo, Paris e Maltauro”. Frigerio, invece, aveva a disposizione, in particolare, una “squadra” di dg di aziende ospedaliere lombarde. Questa, hanno sottolineato i pm, “non è un’indagine sull’Expo, ma è anche un’indagine sull’Expo”.

Una ventina di indagati: “Squadra di direttori generali degli ospedali a disposizione della cupola”
Sono 12 le misure cautelari rigettate per un totale di circa 20 indagati. Il pm Antonio D’Alessio parla di “ramificazioni in diversi settori dell’amministrazione e agganci politici” di qualsiasi schieramento. Era una struttura, continuava il magistrato, capace di “avvicinare il pubblico ufficiale per ottenere anticipi di bandi e di procedure di gara” ad esempio relativi al progetto delle Vie d’acqua o all’area parcheggi per Expo. In questo senso è “sorprendente la disponibilità” di Paris “di mettere a disposizione informazioni riservate”. Un’organizzazione che si “rivolge a pubblici ufficiali promettendo avanzamenti di carriera in cambio di protezione politica” e che ha dalla sua parte – aggiunge il pm Gittardi – una “capacità impressionante di interventi in appalti sanitari, con una squadra di direttore generali e amministratori a sua disposizione“. C’è un richiamo “fortissimo a far parte di una squadra, la capacità di coprire tutte le aziende operative con collegamenti e protezioni” riferibili “a qualsiasi schieramento politico”, conclude. Gli inquirenti milanesi stanno indagando anche su ipotesi corruttive relative a forniture sanitarie a favore, tra le altre, delle aziende ospedaliere di Melegnano e Pavia, per le quali risultano indagati Patrizia Pedrotti e Paolo Moroni, rispettivamente direttore amministrativo e generale del presidio di Melegnano, e Daniela Troiano direttore generale dell’azienda ospedaliera di Pavia.

“Condizionati appalti sui servizi e sull’area parcheggi”
I pm titolari dell’inchiesta – il procuratore aggiunto Ilda Boccassini, i sostitutiClaudio Gittardi e Antonio D’Alessio, assieme a Bruti Liberati – hanno chiarito che l’associazione per delinquere “operativa da un anno e mezzo o due” avrebbe condizionato o tentato di condizionare almeno da metà del 2013 alcuni appalti dell’Expo, tra cui la gara per “l’affidamento per le architetture di servizi”, che sarebbe stata pilotata a favore dell’imprenditore vicentino Enrico Maltauro, anche lui finito in carcere. Maltauro, sempre secondo i pm, avrebbe versato “30-40mila euro al mese” in contanti o come fatturazione di consulenze alla “cupola degli appalti”. Paris, importante manager dell’Expo e, in particolare, responsabile dell’Ufficio contratti, avrebbe dimostrato “a partire dal settembre-ottobre 2013 piena disponibilità nei confronti del sodalizio” e sarebbe stato “totalmente a disposizione”, tanto che, sempre secondo i pm, “avrebbe fornito notizie riservatesulle gare d’appalto e pilotato le assegnazioni”. Al centro dell’inchiesta ci sono poi alcuni altri appalti “minori” di Expo come quello “dell’area parcheggi”. Le indagini poi avrebbero accertato anche la presunta aggiudicazione illecita di appalti per alcune “aziende ospedaliere lombarde” e del progetto “Città della Salute”, nuovo polo che dovrebbe sorgere a Sesto San Giovanni e che dovrebbe riunire il “Besta” e l’istituto tumori. Ma non solo: la “cupola” secondo i pm è riuscita anche a condizionare un appalto con al centro Sogin per lo smaltimento di scorie nucleari.

L’indagine è nata da un’altra inchiesta che nei mesi scorsi aveva portato all’arresto dell’ex consigliere lombardo, Massimo Gianluca Guarischi (ora sotto processo), per presunte tangenti nella sanità lombarda, un filone questo che vede indagato in una tranche (distinta dall’inchiesta scaturita nel blitz di stamani) anche l’ex presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni.

Frigerio, il parlamentare di B. graziato dal Parlamento
Gianstefano Frigerio
, attuale collaboratore dell’ufficio politico del Ppe a Bruxelles, è stato condannato definitivamente a tre anni e nove mesi per le mazzette sulle discariche lombarde (corruzione) e a due anni e undici mesi in altri due processi della Tangentopoli milanese (concussione, corruzione, ricettazione, finanziamento illecito), salvo per prescrizione nel processo Enel (corruzione), diventa deputato di Forza Italia nel 2001 (ha un posto sicuro in Puglia, col nome cambiato in “Carlo” per camuffarlo meglio), ma non riesce a entrare alla Camera perché lo arrestano subito. Mentre il presidente Pierferdinando Casini inaugura i lavori della 14esima legislatura invocando la Madonna di San Luca, i giudici di Milano provvedono all’arresto dell’onorevole pregiudicato. Poi ottiene un ricalcolo della pena, con un congruo sconto, e accede ai servizi sociali. Che riesce a scontare in Parlamento. Nel 2006, privo del diritto di voto a causa dell’interdizione dai pubblici uffici, non viene ricandidato. Ma rimane responsabile dell’Ufficio dei dipartimenti di Forza Italia e collaboratore del Giornale di Paolo Berlusconi, che negli anni Novanta gli pagava le tangenti. Il suo caso in Parlamento dette qualche speranza proprio a Berlusconi quando – a pochi mesi dalla condanna definitiva per la frode fiscale di Mediaset – l’ex Cavaliere tentava in tutti i modi di rimanere senatore, evitando non solo la decadenza – poi avvenuta con il voto di Palazzo Madama – ma anche l’interdizione dai pubblici uffici.

Il compagno G, 21 anni dopo
L’ex Compagno G, ex cassiere di Pci e Pds, classe 1944, fu tra i pochi a rifiutare ogni collaborazione con i magistrati ai tempi di Tangentopoli. Era il primo marzo 1993 quando Greganti venne arrestato in esecuzione di un ordine di custodia firmato dallo “storico” gip di Mani Pulite Italo Ghitti su richiesta del pm Antonio Di Pietro, con l’accusa di corruzione, per aver ricevuto in Svizzera, tra il 1990 e il 1992, 621 milioni dal gruppo Ferruzzi per appalti Enel. Denaro che, secondo la magistratura, rappresentava la prima delle due quote riservate al Pci-Pds delle tangenti concordate con il sistema dei partiti (l’1,6 per cento sul valore delle commesse). A fotografare quella ripartizione di mazzette ai magistrati milanesi era stato Lorenzo Panzavolta, amministratore della Calcestruzzi di Ravenna, l’uomo che fece materialmente i versamenti estero su estero. In seguito i versamenti accertati “lievitarono” a tre: 621 milioni depositati il 21 novembre 1990 sul conto “Gabbietta” intestato a Greganti alla Banca di Lugano; 525 milioni nel settembre 1992 sul conto 294469 alla Banca del Gottardo di Zurigo, sempre nella disponibilità di Greganti; 100 milioni consegnati personalmente nello stesso 1992 al compagno G. Il quale negò sempre ogni addebito e continuò a ripetere che si trattavano di consulenze personali. Alla fine di un’inchiesta “contrastata” che vide gli inquirenti milanesi dividersi e scontrarsi sul capitolo Pci-Pds, Greganti venne condannato a 3 anni e 7 mesi per finanziamento illecito al suo partito, pena successivamente patteggiata e ridotta a 3 anni e confermata dalla Corte di Cassazione nel marzo 2002, ulteriormente ridotta di sei mesi dopo che Greganti aveva già scontato in regime di carcerazione cautelare a San Vittore durante le indagini. Del “compagno G” in seguito si è saputo poco o nulla. Solo che aveva “abbandonato” la politica e si dedicava ad affari privati. In passato ha anche difeso la “rivoluzione” giudiziaria milanese sostenendo che “seppur con errori ed eccessi, senza quell’inchiesta saremmo finiti come l’Argentina”.

Greganti e il Pd
Ma Greganti ha davvero abbandonato gli ambienti del Pd? Il Pd si è davvero liberato di Greganti? Nel 2010 Europa raccontava che il compagno G raccoglieva soldi per il partito. O meglio: alla festa nazionale del partito, a Torino, era addetto al “coccardaggio“, cioè l’applicazione dell’adesivo sul petto dell’ospite in arrivo. Scrisse anche un libro (Scusate il ritardo) in cui difendeva il suo operato e quello del Pci. Sembrava scomparso, ma un mese e mezzo fa il suo nome è ricomparso al principale evento del Pd regionale: la candidatura di Sergio Chiamparino alla Regione Piemonte, dopo gli scandali che hanno contraddistinto l’ultima parte del mandato del presidente uscente Roberto Cota.

L’ex pm Colombo: “Dopo 22 anni nulla è cambiato”
“Dopo più di vent’anni questi arresti mi lasciano allibito” afferma all’Adnkronos l’ex pm di Mani Pulite, oggi consigliere Rai, Gherardo Colombo. Della “vecchia” inchiesta sul Pci-Pds, Colombo non si occupò direttamente e non interrogò mai Primo Greganti. Più volte però l’ex magistrato ha avuto modo di sentire Frigerio, anche lui coinvolto oggi nell’indagine milanese, come Greganti protagonista di Tangentopoli. “Sembra proprio – dice ancora Colombo – che la corruzione in questo Paese non finisca mai. Certo, la magistratura dovrà accertare quelli che al momento sono solo ipotesi di reato”. Ipotesi che però, se confermate, “danno un brutto polso dello stato di salute di questo Paese. Un Paese dove, dopo 22 anni, nulla è cambiato”. “Gli arresti di oggi – conferma in un tweet un altro ex pm di Mani Pulite – confermano la necessità di una nuova Mani Pulite. Il Parlamento si dissoci da coloro che hanno problemi di giustizia”.

(fonte)]

Expo, Sala e le indagini sul maxi appalto. Spiegate bene.

C’è il falso materiale e va bene. C’è quel documento retrodatato e una “commissione ombra” per non bloccare l’assegnazione dei lavori della Piastra di Expo. Per questo Beppe Sala rischia di finire a processo. E già domani forse si presenterà davanti al sostituto procuratore generale Felice Isnardi per farsi interrogare. Ma c’è qualcosa di più grave che emerge dalle carte dell’inchiesta avocata dalla Procura generale di Milano. Ovvero l’intera gestione del maxi appalto da 272 milioni, prima e dopo l’affidamento. C’è una condotta di Sala che tutto sembra tranne quella incentrata alla tutela del bene pubblico e alla gestione trasparente di un’opera strategica. Eppure, ed ecco il paradosso, per questo aspetto il sindaco di Milano ed ex ad di Expo spa non rischia alcuna imputazione. Partiamo dalla fine e dalle conclusioni della Guardia di finanza sulla vicenda Expo. “La condotta del management di Expo – si legge a pagina 672 – e in primis dall’ad Giuseppe Sala non appare né irreprensibile né lineare”, perché “attraverso condotte fattive ed omissive hanno comunque contribuito a concretizzare la strategia volta a danneggiare indebitamente la Mantovaniper tutelare e garantire, si ritiene, più che la società Expo, il loro personale ruolo all’interno della stessa”.

La vicenda Piastra svela un sistema che mette insieme interessi politici e carriere personali. Sala, in questo, risulta assoluto protagonista. Ecco allora i fatti. La Mantovani spa nell’estate del 2012 si aggiudica l’appalto con un ribasso di poco sotto il limite di legge e lo fa sorprendendo l’intero sistema Milano. Intercettazioni e verbali d’interrogatorio svelano che prima di Mantovani i favoriti erano da un lato Impregilo e dall’altro Pizzarotti. I loro padrini erano da un lato l’ex ad di Infrastrutture Lombarde Antonio Rognoni e l’ex governatore, oggi senatore, Roberto Formigoni. Vince, invece, Mantovani che pare godere di importanti appoggi politici, mediati, forse, dai soci della Socostramo, i fratelli Cinque molto vicini all’ex ministro dei Trasporti Altero Matteoli. L’azienda veneta mette così in allarme il sistema che reagisce. Da un lato con l’opera di Rognoni e l’accordo dello stesso Sala si aggiungono clausole economiche non previste per danneggiare Mantovani, dall’altro, però, viene evitata una più che dovuta verifica di congruità dell’offerta che avrebbe imposto una revisione completa del progetto allungando pericolosamente i tempi dei lavori.

Ed ecco il risultato dell’agire di Sala e dei suoi manager: “Pur mostrando una formale diffidenza – scrive la Finanza – si ottiene l’effetto di dare definitiva copertura a un’impresa illecitamente favorita”. Tradotto: le poltrone si tutelano limitando il raggio d’azione dell’intrusa Mantovani, che però va remunerata per non rischiare di far finire Expo a gambe all’aria. Mantovani grazie a forze politiche esterne e più potenti del sistema Milano sale su una carrozza che non è stata preparata per lei. Posizione ideale per battere cassa utilizzando il ricatto di “metter in discussione l’intero evento”. Di trasparente c’è poco. E così se da un lato Sala asseconda l’operato di Rognoni nell’ostacolare Mantovani, dall’altro apre la cassaforte di Expo all’ad di Mantovani Piergiorgio Baita. Ricordiamolo: il ribasso è del 41,8%, sull’importo iniziale si lima fino a 149 milioni. Nemmeno in grado di coprire le spese. Mantovani deve recuperare i soldi. Baita ne parla con l’ex dg di Expo, Angelo Paris. “In sostanza – riassumono i pm – l’imprenditore richiede che vengano riconosciuti ulteriori 50 milioni grazie alle riserve”. Il progetto doveva essere “elastico”, ovvero passibile di varianti. E così fu fin dall’inizio. Il giorno dell’aggiudicazione provvisoria, il responsabile unico del procedimento Carlo Chiesa dice a Sala: “Con il ribasso, lo sanno tutti che alla fine visto che devono fare delle varianti una parte la recuperano”.

Un concetto che Sala semplifica nei colloqui riservati con il presidente di Mantovani: “I soldi non mancano”. E i soldi arrivano, perché Expo non può fare altrimenti. A testimoniarlo l’Audit interno di Expo. Si legge: “Sono stati riscontrati reciproche richieste tra i soggetti coinvolti, finalizzate a recuperare da un lato i ritardi accumulati e dall’altro i maggiori compensi con la conseguente introduzione di elementi negoziali non coerenti (…). Le opere complementari sono sprovviste di proposta formale del Rup”. Il pm chiede a Baita: “Come è possibile che Mantovani si sia fidata di eseguire lavori priva dei supporti autorizzativi?”. Risposta: “Mantovani si relazionava con Sala, e riceveva rassicurazioni”. L’appalto di 272 milioni, affidato a 149, è costato 290. Ovvero 20 milioni in più.

(Davide Milosa, fonte)

«Grillo ringrazi i bravi giornalisti» (di Marco Lillo)

(di Marco Lillo, fonte)

I buoni giornalisti, così come i buoni politici, sono utili alla democrazia. È questa la lezione che Beppe Grillo dovrebbe trarre dal caso Raggi-Marra. Invece che continuare a definirli   “morti che camminano” o  “gossippari pennivendoli” il leader del Movimento 5 stelle dovrebbe ringraziare e scusarsi con tutti quei cronisti che, a partire da quelli de L’Espresso, hanno svelato gli affari immobiliari di Raffaele Marra. Giornalisti che, come spesso accade, fanno solo il loro dovere e, come in questa storia (non sempre) si dimostrano migliori del blog di Beppe Grillo, più efficaci della Casaleggio Associati e più utili del M5s nella formazione della conoscenza e coscienza dell’opinione pubblica. Non scrivo questo commento per dire: noi giornalisti siamo meglio di Grillo e dei suoi seguaci che ci insultano.

Scrivo perché vorrei mettere in guardia i nostri lettori e i suoi elettori sul fatto che le idee di Beppe Grillo sui giornalisti sono pericolose per la democrazia e che il caso Marra-Raggi ne è la migliore cartina di tornasole.

Ora che le carte della Procura di Roma sono state in parte depositate è possibile fare chiarezza su un punto chiave di questa storia: le indagini e il successivo arresto di Marra per i 367mila euro forniti dal costruttore Sergio Scarpellini per l’acquisto della casa intestata alla moglie sono partite dopo i pezzi de L’Espresso.

Emiliano Fittipaldi pubblica il 14 settembre il primo pezzo sull’acquisto anomalo di una casa a 728mila euro mentre un appartamento identico nello stesso stabile era stato venduto a un milione e 200mila euro nello stesso periodo. Già questo sarebbe dovuto bastare a Virginia Raggi per mollare il suo dirigente ma la sindaca andò avanti e confermò Marra alla direzione del personale.

Nonostante Beppe Grillo – questo va riconosciuto al leader del M5s – la mise in guardia. Poi, il 28 ottobre, Fittipaldi pubblica il secondo pezzo nel quale ricostruisce i rapporti tra il Comune di Roma e il costruttore Fabrizio Amore, indagato per turbativa di gara. In quel pezzo descrive anche l’acquisto da parte della moglie della casa Enasarco a 375 mila euro. Ovviamente Fittipaldi non sa e non può sapere che quei soldi sono stati messi a disposizione da Scarpellini e il focus del suo articolo non è chi ha pagato ma lo sconto ottenuto da Enasarco. Dieci giorni dopo, l’8 novembre del 2016, il procuratore aggiunto Paolo Ielo incontra i dirigenti dell’ l’UIF e chiede ai segugi di Bankitalia di fargli sapere tutte le movimentazioni finanziarie di Marra. Il 30 novembre l’UIF risponde e scrive a Ielo che la casa è stata pagata con assegni circolari coperti da Scarpellini. A quel punto – dopo aver verificato che dai flussi dei conti correnti non risulta che i soldi siano stati restituiti – parte la richiesta d’arresto.

I pm mettono Marra in galera per il secondo acquisto ma ricordano nella richiesta di arresto anche il primo, nonostante sia ormai prescritto perché è del 2009. Se Marra è un virus, è evidente che in questa storia il M5s introduce il virus nella vita politica romana e la stampa lo individua e lo isola mentre la magistratura lo rimuove.

Il primo acquisto scontato mezzo milione da Scarpellini è stato scoperto dalla stampa e Virginia Raggi si è girata dall’altra parte. Il secondo acquisto, effettuato con 375mila euro di Scarpellini probabilmente è stato scoperto anche grazie alla stampa. Cosa ha da dire Beppe Grillo su questa prova della categoria dei ‘dead man walking‘?

Il punto non è se siano meglio i politici M5s o i giornalisti. Non si tratta di fare classifiche di utilità sociale o di etica pubblica. Per dire, non si conoscono giornali che abbiano rifiutato i contributi che spettavano per legge alla loro testata come il M5s ha rifiutato decine e decine di milioni di rimborsi elettorali.

Il punto è che i buoni giornalisti sono utili alla democrazia come lo sono i buoni politici. Il vecchio sistema, un po’ acciaccato dal tempo, nel quale esiste un quarto potere che controlla gli altri tre è ancora il migliore su piazza. Nonostante i conflitti di interesse degli editori, nonostante la crisi, nonostante la concorrenza del web, per scoprire che Marra non ha pagato la casa è stato più utile un giornalista di una società editoriale tradizionale, con tutti i suoi vizi e difetti, di un blogger grillino.

La colpa di Grillo in questa storia non è solo quella di avere scelto e supportato Virginia Raggi, definita da chi scrive nell’aprile scorso un candidato senza le carte in regola per guidare Roma. La colpa è anche quella di avere illuso i suoi elettori sul fatto che – per informarsi – sia meglio leggere un post sul suo blog che un articolo su L’Espresso o sul Fatto Quotidiano.

Quando abbiamo analizzato le omissioni di Virginia Raggi nelle sue comunicazioni pubbliche prescritte dalla legge Severino sia sul suo curriculum (praticantato presso lo studio di Cesare Previti) sia sui suoi incarichi (Asl di Civitavecchia), il M5s si è chiuso a riccio per difenderla.

Un esponente di spicco del M5s in quei giorni, dopo avermi garantito la sua presenza alla presentazione del mio libro ‘Il Potere dei segreti‘ a Roma, insieme a Michele Emiliano, non si presentò sostenendo che non aveva ricevuto gli sms e le mail che confermavano l’incontro. Il M5s non gradisce i giornalisti che trovano le notizie o che pongono le domande. Come ha spiegato una volta Grillo preferiscono i monologhi o le passerelle da Bruno Vespa.

Quando sul Fatto abbiamo descritto e documentato i metodi poco ortodossi con i quali Virginia Raggi ha messo nell’angolo il suo rivale alle comunarie, Marcello De Vito, ci hanno bollato come ‘gossipari’. Quando abbiamo raccontato gli scheletri negli armadi di alcuni assessori (i rapporti di Fiscon con Paola Muraro e i peccati fiscali di Paolo Berdini) non abbiamo ricevuto apprezzamenti ma solo critiche.

Dopo il primo scoop de L’Espresso su Marra, invece di spiegare le ragioni della permanenza di un simile personaggio in Campidoglio, Grillo nell’incontro di Palermo preferì insultare in coro con Julian Assange la stampa accorsa ad ascoltarlo. Avrebbe fatto meglio a rivolgere i suoi strali verso il palco. In questa storia la stampa ha fatto il suo dovere di controllo. Il M5s no.

Ecco la moratoria della Procura su Expo (di Frank Cimini e Manuela D’Alessandro)

(dal sito giustiziami, che vale la pena tenere tra i preferiti, di Frank Cimini e Manuela D’Alessandro)

Chissà, magari Beppe Sala, il ‘sindaco della procura‘ ha provato a prendersi la palma del peggiore in questa storia di malagiustizia, inventandosi l’autospensione che tecnicamente esiste ma politicamente assomiglia molto a una pagliacciata. Ha provato ma non ci è riuscito, perché è fuor di dubbio che quella palma appartiene alla procura di Milano (non ai pm Robledo, Filippini, Pellicano e Polizzi che ci ‘provarono’), alla moratoria delle indagini su Expo che adesso con anni di ritardo per sei mesi cercherà di fare la procura generale dopo aver avocato il fascicolo.

Sala poteva restare al suo posto perché è un semplice indagato dopo essere stato archiviato per l’assegnazione a Oscar Farinetti senza gara pubblica oppure poteva dimettersi. Invece si è autosospeso dopo aver saputo di dover rispondere di concorso in falso materiale e ideologico, la retrodatazione del cambio di due componenti della commissione aggiudicatrice sulla piastra. Non è una quisquilia si parla di verbali di riunione falsificati.

Milano rischia di tornare al voto in primavera, pagando un prezzo salato alla celebrazione costi quel che costi di Expo. C’era fretta, non si potevano rispettare le regole, non c’era tempo. La stessa spiegazione fornita per l’affaire Farinetti. Con la procura di Milano che aderisce e di fatto copre. Ma la magistratura copre anche se stessa perché per i fondi di Expo giustizia non era stata indetta la gara pubblica e tutti possono ammirare da anni gli inutili schermi appesi per tutto il Palazzo acquistati con quei fondi.

Fin qui era andata bene alla procura e a Sala diventato sindaco di Milano perché le indagini non erano state approfondite. Non tutte le ciambelle riescono con il buco. Si mettevano di mezzo un gip che rigettava l’archiviazione per la piastra e la procura generale che avocava. I boatos del palazzo riferiscono che dietro ci sarebbe anche una storia di correnti in lotta tra loro. Quelle correnti che al Csm fanno da sempre il bello e il cattivo tempo. E del resto il Csm rifiutò di aprire una pratica al fine di verificare l’esistenza o meno della moratoria della quale questo umile blog aveva iniziato a parlare nell’aprile del 2015, molto tempo prima dell’inaugurazione di Expo. Una voce nel deserto. Adesso la moratoria è sempre più chiara. Matteo Renzi da premier ringraziò due volte l’allora procuratore Edmondo Bruti Liberati per il senso di responsabilità istituzionale inserito tra le ragioni del sucesso di Expo.

Comunque sia si indaga sia pure con ritardo e va considerato pure che a maggio Felice Isnardi il sostituto procuratore generale titolare del fascicolo compirà 70 anni e andrà in pensione. Magari prima di andare potrebbe anche convocare come testimone Renzi per chiedergli: “Scusi a che cosa si riferiva esattamente?”. (frank cimini e manuela d’alessandro)

Quello che manca al racconto su Aleppo

(un pezzo interessante di Fulvio Scaglione, editorialista di Famiglia Cristiana, per allargare lo sguardo)

La battaglia di Aleppo, con le stragi di questi giorni e gli anni terribili che le hanno precedute, ha segnato tra le altre cose il collasso del sistema informativo occidentale, ormai quasi incapace di distinguersi dalla propaganda di parte.

Tutto, nel racconto occidentale su Aleppo, sa di truffa e inganno. Dalla pubblicazione senza filtri né verifiche dei dati forniti dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, fondato e animato da un oppositore di Bashar al-Assad e mantenuto dal governo inglese, alla parola “assedio”, usata senza risparmio per Aleppo ma solo negli ultimi mesi, e mai nei più di tre anni in cui la città era attaccata su tre lati da ribelli e jihadisti, arrivati anche a occupare il 60 per cento del territorio urbano.

Ma questi, se vogliamo, sono piccoli particolari. Il problema vero è il rifiuto di confrontarsi con una realtà che possiamo sintetizzare così: quanto è accaduto ad Aleppo in queste settimane non è per nulla eccezionale. Al contrario, è la norma della guerra contemporanea. Non ci credete? Allora cominciamo a guardarci intorno. Prendiamo Mosul, la grande città irachena che da due anni e mezzo è occupata dall’Isis.

A metà ottobre è partita (finalmente) l’offensiva per liberarla dai jihadisti. Grandi fanfare, toni trionfalistici, esultanza per i civili che “venivano liberati” dai quartieri prima sotto il controllo dei miliziani (mentre i civili di Aleppo, che escono dai quartieri dominati da al-Nusra, non sono liberati ma “fuggono”). Adesso, due mesi dopo, tutto è fermo e di liberare Mosul non si parla più. Non solo: l’offensiva di americani, curdi e iracheni è così ferma che l’Isis ha distaccato 4-5 mila combattenti dal fronte iracheno e li ha mandati a riprendere Palmira in Siria. Perché?

La risposta è molto semplice. I due anni e mezzo di estenuante campagna di bombardamenti hanno dato all’Isis tutto il tempo per organizzare le difese in città. Le strade sono state minate o sbarrate o sostituite da gallerie note solo ai miliziani. Certi palazzi sono stati abbattuti per liberare le linee di tiro, in altri punti sono stati costruiti muri per chiudere la vista e il passaggio agli attaccanti. Migliaia di civili, infine, sono stati bloccati per essere usati come scudi umani.

Per essere “liberata” Mosul dovrà diventare un’altra Aleppo: con i bombardamenti, le vittime civili, i bambini straziati dai colpi e così via. L’alternativa c’è: la conquista casa per casa con centinaia e centinaia di morti tra gli iracheni e i curdi. Cosa che peraltro già succede, anche se le operazioni militari sono quasi ferme.

La missione delle Nazioni Unite per l’assistenza all’Iraq (Unami), diretta da Jan Kubis, ex ministro degli Esteri della Slovacchia (dal 2006 al 2009), ha reso noti i dati, allucinanti, sul numero dei morti iracheni, civili e non, degli ultimi mesi. In settembre, cioè prima dell’offensiva su Mosul, i civili iracheni uccisi erano stati 609 (con 951 feriti); in ottobre sono diventati 1.120 (con 1.005 feriti) e in novembre 926 (930 feriti).

Per quanto riguarda militari e combattenti vari, le cifre sono: in settembre, 394 uccisi (208 feriti), in ottobre 672 uccisi (353 feriti), in novembre 1.959 uccisi (e 450 feriti). Risultato? Tutto bloccato, quindi altre sofferenze per i civili prigionieri a Mosul e altro tempo regalato all’Isis per continuare a fortificarsi.

Certo, nouveaux philosophes e altri clown possono pigiare sul pedale delle atrocità e delle violazioni dei diritti umani ad Aleppo. Ma sono solo degli ipocriti. Nel 2004, l’esercito americano combattè due battaglie per “liberare” la città irachena di Fallujah, di fatto occupata dai miliziani di al-Qaeda, gli zii dei miliziani di al-Nusra, che tanta parte hanno avuto nella battaglia di Aleppo.

Secondo l’Ong indipendente Iraq Body Count, nella prima battaglia (aprile 2004) morirono tra 572 e 616 civili; nella seconda (novembre 2004) ne morirono tra 581 e 670. Gli americani usarono armi al fosforo e, pare, all’uranio impoverito. Avete mai sentito un nuovo filosofo stracciarsi le vesti in proposito? Ricordate che il Corriere della Sera abbia usato, nei titoli, per Fallujah, il termine “mattatoio” come ha fatto per Aleppo?

E che dire di Gaza? Secondo i dati più prudenti, che sono quelli pubblicati dal Jerusalem Center for Public Affairs, solo il 45 per cento dei 2.100 palestinesi uccisi nella Striscia durante la guerra del 2014 erano veri civili e non combattenti. Il che fa pur sempre 945 persone inermi ammazzate in due mesi di scontri.

Allora furono proprio i paesi che oggi gridano allo scandalo per le operazioni di Aleppo a bloccare, all’Onu, le proposte di censura contro Israele. E Gaza, d’altra parte, non è una perfetta copia dei quartieri est di Aleppo, quelli attaccati con le bombe dai russi e dai siriani di Assad?

Ancora. L’Unicef ci ha fatto sapere che nei primi sei mesi del 2016 in Afghanistan si è avuto il numero record di vittime civili: 1.601 morti e 3.565 feriti. Il semestre peggiore dall’invasione anti talebani del 2001. Secondo le stime dell’Onu, il 60 per cento dei civili afghani cade sotto i colpi dei talebani e degli altri gruppi ribelli e criminali.

Ma il 40 per cento di 1.601 morti fa pur sempre 640 morti, ossia 640 afghani innocenti ammazzati in sei mesi (più di 3 al giorno) dalle truppe arrivate dai nostri paesi, cioè da coloro che dovrebbero proteggerli e “liberarli”. Ma tutto tace, quei morti non meritano lo sdegno riservato ai morti di Aleppo est.

La guerra dei nostri tempi, insomma, è questa roba schifosa. Chi fa finta di credere che in Cecenia e ad Aleppo si siano fatte cose diverse da quelle accadute altrove, per esempio a Fallujah o a Gaza, molto semplicemente mente. Tutte le guerre di oggi si combattono sulla pelle dei civili. Tutte.

E in tutte le guerre gli uomini armati, portino o meno un’uniforme, sono al più le vittime collaterali. Cosa che politici, militari e terroristi sanno bene. Dunque la questione vera è evitare il più possibile le guerre, non far finta che ci siano guerre buone e guerre cattive.