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Baobab Experience: una storia di ordinaria umanità

Come al solito Valigia Blu racconta meravigliosamente le storie che meritano di essere raccontate:

Il Baobab, infatti, non è un luogo, ma un metodo di accoglienza. Lo scrittore Nicola Lagioia nel cercare di trovarne una definizione, scrive:

Non è semplicemente un centro di accoglienza per migranti, non è un centro sociale, non è (perlomeno non ancora) un progetto in cui la cittadinanza attiva incontra le istituzioni per offrire una soluzione anche parziale a un’emergenza drammatica. Il Baobab è piuttosto un corridoio umanitario per migranti in transito, che una rete di privati cittadini ha prima messo a punto e subito dopo si è caricato sulle spalle.

Con la chiusura, “il luogo” in cui i volontari “lavorano” a questo “corridoio umanitario” è cambiato nel tempo. Il progetto di accoglienza collettivo è stato infatti portato avanti dalla rete del Baobab, anche dopo gli sgomberi degli accampamenti di fortuna, continuati sotto la nuova amministrazione a Cinque Stelle del Sindaco Virginia Raggi.

Oggi il presidio dei volontari si trova nel piazzale est della stazione Tiburtina, dove per diverse settimane decine di migranti hanno dormito per strada, sotto la pioggia e al freddo della notte, non essendo stata disponibile fino alla fine di novembre alcuna struttura in cui dar loro riparo.
Il 2 dicembre scorso, dopo un incontro tra la delegazione del Baobab e il nuovo assessore alle politiche sociali del Comune, Laura Baldassare, sono stati messi a disposizione dei migranti “transitanti” circa 100 posti letto nel centro di via del Frantoio, gestito dalla Croce Rossa e sostenuto da Roma Capitale. Riferendosi a questa novità, i volontari hanno parlato di un “piccolo passo”, specificando però che si tratta di una “soluzione emergenziale maturata solo dopo mesi di appelli e sollecitazioni”. Anche perché, hanno poi aggiunto, il flusso migratorio nella Capitale non si ferma, visto che, ad esempio, tra il 3 e il 4 dicembre altre 35 persone sono arrivate in piazzale Spadolini. Per questo motivo, i volontari hanno invitato le autorità a intervenire in modo meno temporaneo e più strutturale.

Al di là dei fatti di cronaca, abbiamo pensato valesse la pena guardare da vicino e raccontare cos’è Baobab Experience. Come si organizza quotidianamente? A quali problematiche risponde? Che idea di accoglienza trasmette? Rappresenta un modello replicabile altrove? Per cercare di capirlo, abbiamo parlato con alcuni dei tanti volontari che rendono possibile questa esperienza.

(il post è qui)

Di cosa è accusata la Muraro, assessora dimissionaria del Comune di Roma. Spiegato bene.

Sono contestazioni pesanti quelle che i pm avanzano a Paola Muraro, ormai ex assessora all’Ambiente del Campidoglio, quando era consulente di Ama. Secondo le accuse, la Muraro è responsabile di aver “truccato” le autorizzazioni per gli impianti di smaltimento dei rifiuti e di inquinamento ambientale.

Scrive il Corriere della Sera:

Agli atti dell’inchiesta ci sono i verbali dell’ex assessore al Bilancio Marcello Minenna e dell’ex amministratore delegato della municipalizzata Alessandro Solidoro che ricostruiscono quanto accaduto dopo la nomina di Muraro al Comune di Roma e specificano il ruolo di Luigi Di Maio che – anche nei momenti più delicati, come quello della notizia sull’iscrizione al registro degli indagati – avrebbe “offerto copertura politica a lei e a Raggi”.

Queste le accuse dei pm:

“Gli impianti di Rocca Cencia e Salario operavano una gestione dei rifiuti in violazione delle prescrizioni delle autorizzazioni riguardanti la gestione degli impianti per quanto concerne le percentuali di trasformazione dei rifiuti in ingresso e gli scarti di lavorazione”. Il sospetto dei pm – spiega il Corsera – è che i macchinari abbiano lavorato in regime ridotto per favorire altri impianti privati. In particolare Manlio Cerroni, ras dei rifiuti della Capitale, anche lui indagato, avrebbe beneficiato della permanenza di Muraro in Ama.

Non solo. L’assessora all’Ambiente della giunta Raggi è accusata anche di inquinamento ambientale. Nel suo ruolo d “responsabile tecnico e referente” degli impianti Ama – sostengono i pm – avrebbe consentito “lo stoccaggio di rifiuti in aree non autorizzate per l’impianto di Rocca Cencia”, mentre per il Salario “non venivano rispettate le aree di stoccaggio rifiuti: i cassoni di rifiuti contenenti metalli ferrosi, gli scarti del processo e le balle di Cdr non erano infatti ubicati conformemente a quanto previsto dagli atti autorizzativi”.

(fonte)

Una lezione politica: Iglesias ed Errejón si scrivono. Pubblicamente. Così.

Ha ragione Tiziana a scrivere nel suo pezzo che quella di Iglesias e Errejón (che si sfideranno a breve al congresso di Podemos, in Spagna) è una lezione di politica. I due hanno deciso di scriversi pubblicamente da sfidanti ma senza l’acredine degli avversari e mettendo in fuorigioco i retroscenisti. Roba inimmaginabile qui da noi.

Ecco il testo indirizzato dal segretario generale di Podemos Pablo Iglesias al suo compagno di partito e “oppositore interno”:

«Se la gente leggesse le nostre chat, scoprirebbe dalle risate e dagli scherzi che siamo amici. L’altro giorno discutevamo dei rapper che ci hanno dedicato un “combattimento di galli”. Ti dicevo che mi preoccupava che la nostra relazione si convertisse in una telenovela sui media. Mi rispondevi, a ragione, che questo faceva parte della strana cultura pop associata a Podemos.

Ho ripensato molte volte a questo e a tutto nelle ultime ore, e mi sono deciso a scriverti questa lettera aperta, per dirti le stesse cose che ti avrei scritto in una delle nostre chat. Pochi sanno che, spesso, senza neanche alzarci dal letto ci telefoniamo e ci raccontiamo cosa ognuno di noi andrà a dire ai media. E che ci facciamo delle gran risate calcolando che, qualunque cosa diremo, si convertirà sempre, anche se abbiamo pianificato il contrario, in “Íñigo contesta a Pablo…” o “Pablo contesta a Íñigo…”. Cosicché oggi ho deciso di “contestarti” scrivendoti da un giornale (e che gli altri titolino come meglio credono…). Penso che siamo tra i pochi che si possono permettere qualcosa di simile suonando credibili e onesti. Siccome, chissà, questo non dura per sempre, voglio farlo. Questo sì, come quando chattiamo o ci sentiamo al telefono, oggi non ti scrive il tuo segretario generale, ti scrive il tuo compagno e amico. Dobbiamo subordinare il nostro lavoro parlamentare a una strategia più ampia. I media, lo sai bene, ci vedono come rivali da tempo. È normale e prevedibile, però mi preoccupa enormemente, Íñigo, che i militanti e gli iscritti non ci vedano come compagni. Mi preoccupa anche che i nostri dibattiti vengano banalizzati. Penso che in Spagna stia crescendo lo spirito costituente di una maggioranza trasversale che vuole il cambiamento e penso che dobbiamo coltivare questo spirito nato dall’opposizione sociale, non solo di fronte al governo del Pp e dei suoi alleati, ma anche contro le élites che rappresentano. Per questo, credo, dobbiamo subordinare il lavoro parlamentare a una strategia più ampia di costruzione di contropoteri e istituzioni sociali alternativi, proteggendo e avendo cura del grande spazio politico che condividiamo con gli altri. So che ci sono molte sfumature in queste idee e che alcune non le condividi, però pensare ciò che penso, amico, non è imporre a Podemos una deriva estremista. Nello stesso modo in cui mente o non capisce niente chi ti attribuisce di essere vicino al Psoe. Tu ed io ci capiamo bene e fino a volte a completarci in questo dibattito, anche quando non siamo d’accordo su nulla, però mi preoccupa che alla fine di tutto ciò possa rimanere solo una caricatura. Credo, compagno, che sia più sensato vincolare qualunque lista di candidati alle idee e al progetto che difendono i suoi membri (Errejón chiede di votare separatamente, al congresso, le persone da candidare e i programmi, ndr). Credo che le idee e i progetti debbano rimanere incarnati nei documenti e che questi documenti debbano convertirsi in contratti con i militanti, le iscritte e gli iscritti. Per questo mi preoccupa che si votino separatamente i programmi e le persone, poiché credo che le persone non si possano svincolare dalle idee. Mi inorgoglisce che tu sia candidato alla leadership di Podemos, anche se ci sono differenze tra di noi, e ti assicuro che mi sforzerò per raggiungere la maggiore interazione possibile tra i nostri programmi, però non puoi chiedermi di separare il mio ruolo di segretario dalle mie idee.

So che la pensi diversamente ma voglio che tu sappia che la nostra proposta di votare contemporaneamente le idee e le persone non è un invito al duello nell’“Ok Corral” (qui fa riferimento al “rimprovero” di Errejon), né un combattimento tra galli, né un’involuzione democratica, è una proposta legittima quanto quella che difendi tu. Per questo mi preoccupa che l’idea del duello possa prevalere su quella del dibattito fraterno. Tu ed io non siamo galli da combattimento, siamo compagni. Voglio un Podemos nel quale tu possa lavorare al mio fianco e non di fronte a me. Mi preoccupa, Íñigo, il ruolo di arbitro che certi interessi editoriali potrebbero giocare nei nostri dibattiti, sai come me che la visione editoriale condivisa da quasi tutti è che il “moderato errejonismo” rappresenta il male minore innanzi al “radical pablismo” (espressioni che meritano grandi risate nelle nostre chat). Sai come me che questa visione non solo fa un magro favore al prestigio del tuo progetto (essere il “preferito” di certi poteri non genera credibilità tra la nostra gente), ma svilisce i dibattiti. Molte volte mi hai detto che non dobbiamo dire sempre quello che pensiamo di questi poteri e che dobbiamo aspirare a governare. Tatticamente hai sicuramente ragione, ma credo che la gente preferisca che noi diciamo, almeno ogni tanto, certe verità come pugni, nonostante i tanti contraccolpi che potremo ricevere per averlo fatto.

Íñigo, voglio tenere aperta la discussione e ti dico chiaramente che lavorerò affinché le idee che condivido con le altre compagne e gli altri compagni abbiano il maggiore sostegno possibile all’Assemblea Ciudadana (preparatoria al congresso di Podemos, ndr). Come te rispetto al tuo progetto, anch’io penso che il mio ci avvicini di più e meglio alla costruzione di una maggioranza per il cambiamento in Spagna. Tuttavia, voglio un Podemos in cui le tue idee e il tuo progetto abbiano spazio, allo stesso modo degli altri compagni come Miguel e Teresa (Urban e Rodriguez, esponenti di altre aree programmatiche, ndr). Voglio un Podemos nel quale tu, che sei tra le persone con il maggior talento e brillantezza che io abbia conosciuto, possa lavorare al mio fianco e non di fronte a me. Prendiamoci cura della nostra discussione, Íñigo, in modo che, con o senza accordo, possiamo sempre dirci amici, fratelli, compagni.»

Ed ecco la risposta di Errejón:

«Lo sai che continuerò a camminare accanto a te, perché lo dobbiamo alla nostra gente ma soprattutto perché è un onore. Ma noi siamo di passaggio, arriverà un giorno in cui faremo un passo indietro e verranno altre e altri. Ne Il postino, Mario apprende da Don Pablo le metafore e le usa. E quando Neruda gli rimprovera di aver usato una delle sue poesie lui gli risponde che la poesia non è la sua, ma di chi ne ha bisogno. Così è per Podemos, che deve essere una metafora del Paese che verrà».

Povertà in Italia: +141% in dieci anni

(di Michela Scacchioli per Repubblica)

Si è allargata a macchia d’olio. Ha finito col mettere in ginocchio intere famiglie. Ha snervato e fiaccato i giovani. Ed è più che raddoppiata nell’arco degli ultimi dieci anni. Un balzo drammatico, da capogiro: più 141 per cento. Il suo nome è povertà. Una realtà messa in luce – con tutta l’evidenza possibile – dagli esiti del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso.

INFOGRAFICA Welfare e disuguaglianze sociali in Italia

Oggi, infatti, 4,6 milioni di persone vivono nell’indigenza assoluta: quasi l’8% della popolazione residente in Italia. Basti pensare che erano poco meno di 2 milioni nel 2005 (il 3,3% del totale). Un incremento che non ha risparmiato nessun’area della penisola: al nord il numero dei bisognosi è addirittura triplicato. Qualche numero? Sempre nel 2005 i poveri erano 588mila al nord e poco più di un milione al sud mentre adesso sono rispettivamente 1,8 e 2 milioni circa. Persone che non possono permettersi spese essenziali come quelle per gli alimenti, la casa, i vestiti, i mezzi per spostarsi né le medicine.

(naviga nei grafici interattivi per visualizzare i dati – fonti: Istat ed Eurostat)

E il profilo di chi si è indebolito oltre ogni misura ci restituisce un quadro degli effetti causati dalla crisi (economica e occupazionale) iniziata nel 2008: quella che gli esperti chiamano ‘grande recessione’ e che ha cambiato il panorama sociale del nostro Paese.

Quando il lavoro non basta. Secondo i dati elaborati da Openpolis (in collaborazione con ActionAid) per Repubblica.it, la probabilità di essere poveri è cresciuta soprattutto tra chi si trova ai margini del mercato del lavoro, come i giovani e coloro che sono in cerca di occupazione. Ma il dato che emerge con prepotenza è che spesso il lavoro – per come si è configurato dopo la crisi – a volte non basta a mettere al riparo da ristrettezze e immiserimenti. Tra le famiglie operaie, ad esempio, il tasso di povertà è salito dal 3,9 all’11,7 per cento. E, con la crisi, il rischio di finire in miseria è aumentato per i lavoratori in 7 Stati Ue su 10. L’Italia è il quarto Paese in cui è cresciuto di più: nel 2005 erano a rischio povertà 8,7 lavoratori su 100, nel 2015 sono diventati 11. Fanno peggio di noi Germania, Estonia e Bulgaria. Tra i lavoratori tedeschi il medesimo rischio è aumentato di oltre 5 punti percentuali. Migliora la situazione in diversi Paesi dell’est Europa, tra cui Polonia, Slovacchia e Ungheria.

In parallelo all’aumento dei poveri, cresce anche il numero di persone che lavorano poche ore a settimana.

Accanto, poi, a tendenze consolidate a livello europeo, si registrano alcune particolarità tutte italiane. Tipo: il più alto tasso di giovani che non studiano e non lavorano (Neet) e una delle più basse percentuali di donne che continuano a lavorare dopo la maternità. Una combinazione che ha impoverito in particolare le famiglie giovani e numerose. Senza risparmiare, purtroppo, i più piccoli: sono quasi raddoppiati i bambini sotto i 6 anni che vivono in una condizione di grave privazione materiale. Per dire: in punti percentuali, solo la Grecia ha registrato un incremento maggiore rispetto all’Italia .

Di certo c’è che dopo oltre 8 anni di crisi economica, la povertà non può più essere considerata un fatto straordinario che riguarda pochi sfortunati. Ha numeri da fenomeno di massa, e il nostro welfare – concepito in un altro momento storico – sembra poco efficace per contrastarla. “Poche risorse vengono destinate alle famiglie in difficoltà, ai senza lavoro e in generale alle situazioni di disagio – sottolinea Openpolis -. Le misure contro l’esclusione sociale sono diverse e frammentate, a volte temporanee, prive di un disegno organico che le tenga insieme”. Un progetto di legge già approvato alla Camera a luglio – e dunque ben prima della crisi di governo – vuole razionalizzare questi interventi e ricondurli verso una misura universale che, a regime, dovrebbe valere 1,5 miliardi di euro per oltre un milione di persone. Un passo in avanti rispetto agli anni scorsi, ma che esclude ancora oltre 3 milioni di cittadini.

Povertà relativa. Oltre alla povertà assoluta “ci sono anche altri modi per contare quante siano le persone in ristrettezze economiche, ma tutti gli indicatori mostrano la stessa tendenza. Il principale metodo alternativo è contare gli individui che si trovano in povertà relativa”. In questo caso il discrimine tra povero e non povero non è la capacità di acquistare un paniere di beni essenziali, ma una linea di povertà convenzionale, che per l’Istat è la spesa media per consumi pro capite. Se si contano le persone al di sotto della linea di povertà relativa, i poveri sono 8,3 milioni, vale a dire il 13,7% della popolazione (contro l’11,1 del 2005).

Rischio esclusione sociale. Ancora più ampio il numero di persone a rischio povertà o esclusione sociale. In questo caso agli individui a basso reddito vengono sommati coloro che vivono in situazioni di grave privazione materiale oppure in famiglie a “bassa intensità di lavoro”. Secondo l’Eurostat, tra 2005 e 2015 la quota di popolazione a rischio povertà o esclusione sociale è passata dal 25,6% al 28,7 per cento. In tutta l’Unione europea, l’Italia ha registrato un peggioramento inferiore solo a quello di Grecia, Spagna e Cipro. Il rischio è cresciuto anche in Svezia e Germania, mentre diminuisce in Francia e Regno Unito. Si registra una forte diminuzione nei paesi dell’Est europeo, che partivano però da situazioni di maggiore disagio.

Le famiglie povere. La quota di famiglie in povertà assoluta è quasi raddoppiata. Erano 819mila nel 2005, mentre oggi sono quasi 1,6 milioni, con un balzo dal 3,6 al 6,10%. Su 100 famiglie, 6 non possono permettersi un tenore di vita accettabile. Ma il disagio è ancora più vasto secondo altri indicatori: il 38,6% delle famiglie non può far fronte a spese impreviste (erano il 29% nel 2005). Sono aumentate del 65% quelle che non possono permettersi di riscaldare la propria abitazione e dell’81% quelle che non consumano pasti proteici almeno 3 volte a settimana.

In quali professioni crescono i poveri. I nuclei familiari più in difficoltà sono quelli in cui la persona di riferimento è un operaio o è in cerca di occupazione. Le famiglie che dipendono da una persona che sta cercando lavoro in un caso su cinque non possono permettersi uno standard di vita accettabile. Come si diceva, tra le famiglie operaie il tasso di povertà assoluta è triplicato rispetto al 2005, passando dal 3,9% all’11,7% del 2015. È più che raddoppiata la probabilità di trovarsi in povertà assoluta se il capofamiglia è un lavoratore autonomo, mentre è diminuita se si è ritirato dal lavoro. La stessa probabilità rimane contenuta per le famiglie dei colletti bianchi, ma rispetto al 2005 è aumentata di quasi dieci volte.

Quanto lavorano gli occupati. Gli oltre 22 milioni di occupati italiani non sono tutti lavoratori a tempo pieno. Per l’Istat è sufficiente un’ora di lavoro a settimana per essere considerati occupati. In diversi casi una situazione lavorativa precaria o part-time può essere il fattore scatenante di una condizione di povertà. Rispetto al decennio scorso, aumentano coloro che lavorano poche o pochissime ore a settimana: il numero di chi è occupato meno di dieci ore è cresciuto del 9% dal 2005, e salgono addirittura del 28% quelli che lavorano tra le 11 e le 25 ore. I lavoratori pagati con i voucher erano meno di 25mila del 2008, sono saliti a quasi 1,4 milioni nel 2015.

Forbice generazionale: com’è cambiata. Fino al 2011 non c’erano grandi differenze tra le varie fasce d’età, e i più poveri erano gli over 65 (circa 4,5% si trovava in povertà assoluta). La crisi, distruggendo posti di lavoro e riducendo le opportunità di impiego, ha capovolto questa situazione. In un decennio il tasso di povertà è diminuito tra gli anziani (4,1%) – molti di loro possono contare su un reddito fisso – mentre è cresciuto nelle fasce più giovani: di oltre 3 volte tra i giovani adulti (18-34 anni) e di quasi 3 volte tra i minorenni e nella fascia tra i 35 e i 64 anni.

I Neet e il rischio povertà. I Neet sono i giovani che non studiano, non lavorano e non sono in formazione. A livello europeo gli Stati dove è più alta la percentuale di Neet sono anche quelli dove è più alto il tasso di povertà giovanile. In Italia nella fascia d’età tra i 15 e i 29 anni i Neet sono il 15% e i giovani a rischio povertà il 32,2 per cento. In Austria meno del 5% dei giovani sono inattivi e il rischio povertà si ferma al 15,2 per cento. In Bulgaria al 16,5% di Neet corrisponde un rischio povertà pari al 46,1 per cento.

La difficoltà economica nelle famiglie giovani. Nel 2015 le famiglie più giovani sono anche quelle più povere. Non può permettersi uno standard di vita dignitoso una famiglia su dieci tra quelle con capofamiglia sotto i 34 anni. Si trova in povertà assoluta circa l’8% delle famiglie all’interno delle quali la persona di riferimento ha tra i 35 e i 54 anni, mentre in quelle dove supera i 65 anni la percentuale si riduce al 4 per cento. Rispetto al 2005, il tasso di povertà assoluta è aumentato di 3 volte quando il capofamiglia ha meno di 55 anni, è cresciuto di 2,7 volte quando ha tra i 55 e i 64 anni, mentre è diminuito nei casi in cui ha più di 65 anni.

La povertà infantile. La quota di bambini in situazioni di grave disagio materiale è cresciuta, con la crisi, in 7 Paesi europei su 28. Dopo la Grecia, dove oggi oltre un bambino sotto i 6 anni su cinque vive una condizione di grave privazione materiale, l’Italia è il secondo paese dove è aumentata di più la povertà infantile (+5,3 punti percentuali tra 2006 e 2015). Nel nostro Paese l’11,4% dei bambini sotto i 6 anni vive una grave privazione materiale, ma la situazione è anche peggiore in Bulgaria (33%), Romania (29,6%), Ungheria (21,2%), Grecia (20,7%), Cipro (16%), Lettonia (13,3%) e Croazia (11,6%).

Povertà di genere. Il numero di donne che vivono in povertà assoluta è più che raddoppiato tra 2005 e 2015, un andamento coerente con quello del resto della popolazione. Nel 2005 viveva in povertà assoluta il 3,5% delle donne, percentuale molto simile a quella di tutti i residenti in Italia (3,3%). Una quota che nel 2009 era salita al 4%, sia per le donne che per l’intera popolazione. Nel triennio successivo per le donne si arriva fino al 5,8%, per poi superare il 7% nel 2013, livello su cui si attesta anche nel 2015. Questo dato complessivo nasconde ulteriori situazioni di disagio sociale che riguardano in particolare il genere femminile. Continuano a emergere la difficoltà di conciliare lavoro e famiglia e la differenza salariale tra i sessi – il gender pay gap – che, seppure più contenuta rispetto ad altri paesi europei, in Italia ha registrato uno dei maggiori aumenti durante la crisi. Il divario nelle retribuzioni è peggiorato in cinque Paesi e l’Italia è tra questi. Gli altri sono Portogallo, Lettonia, Bulgaria e Spagna.

La difficoltà economica nelle famiglie numerose. La scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro e la minore retribuzione rispetto agli uomini si riflettono anche nella povertà familiare, perché questo spesso significa dover contare su un solo stipendio. In effetti la povertà assoluta è cresciuta molto nelle famiglie, in particolare in quelle numerose. Tra quelle con tre o più figli, quasi il 20%, cioè quasi una su cinque, non può permettersi un livello di vita dignitoso (erano il 6,9% nel 2005). La presenza di anziani, di solito pensionati, tende a ridurre il tasso di povertà familiare. Le donne sole incontrano ancora più difficoltà. Si trova in stato di grave privazione materiale il 19,8% delle famiglie rette da una madre single con figli.

L’offerta di asili nido. Se la povertà delle famiglie – che è in crescita – dipende anche dalla difficoltà delle donne di accedere al mercato del lavoro, una delle cause è la mancanza di politiche che lo permettano. A cominciare dalla presenza degli asili nido sul territorio nazionale. Nell’arco di dieci anni è aumentato il numero di bambini potenzialmente coperti da questo servizio. Nel 2012 quasi l’80% dei bambini con meno di due anni viveva in un Comune in cui è presente un asilo nido (erano il 63,6% nel 2003). Ma spesso queste strutture non sono sufficienti. La percentuale di iscritti, pur in crescita, resta bassa: oltre l’88% dei bambini tra 0 e 2 anni non frequenta l’asilo nido.

Il welfare: quanto è capace di ridurre la povertà? Spesa in protezione sociale, l’Italia è quinta su 28 stati dell’Unione europea. Eppure la capacità del nostro Stato sociale di incidere sulla povertà è inferiore a molti altri Paesi. La ragione è che la stragrande maggioranza di questa spesa in Italia è impegnata nelle pensioni di anzianità e reversibilità.

Resta molto limitato il welfare dedicato alla fasce sociali che negli anni della crisi hanno visto aumentare il proprio disagio economico. Le spese per famiglie, bambini e diritto alla casa valgono solo il 6,5% della protezione sociale italiana, contro il 10% della Germania, il 14% della Francia e il 18% del Regno Unito. Per la tutela dalla disoccupazione e dal rischio esclusione, l’Italia spende il 6,5% del budget sociale, contro l’11-12% di Germania, Francia e Regno Unito e il 15,8% della Spagna. Tradotto: i gruppi sociali che in Italia hanno subìto di più la crisi ricevono meno contributi rispetto ad altri Paesi europei.

 Il rischio povertà prima e dopo il welfare. Un modo per valutare la capacità del welfare di sottrarre la popolazione dalla povertà è confrontare il rischio povertà prima e dopo i trasferimenti sociali. I Paesi dove l’indigenza diminuisce di più (in punti percentuali) sono Ungheria (-35,1), Irlanda (-33,2) – dove però prima dei trasferimenti un cittadino su due si trovava a rischio povertà – e Francia (-31,1). In questa classifica l’Italia è 17esima su 28 stati: nel nostro Paese il rischio povertà diminuisce di 26,4 punti dopo i trasferimenti sociali. Agli ultimi posti Malta (-21,9), Lettonia (-20,5) e Estonia (-19,1).

Finalmente. Arrestato il “re delle slot” Corallo (e c’entra anche un ex deputato e il cognato di Fini).

Dall’accumulazione illecita di decine di milioni di euro sottratti alle casse dello Stato all’acquisto della famosa casa di Montecarlo ereditata da Alleanza nazionale e venduta al cognato di Gianfranco Fini, passando per un decreto che si sospetta «comprato» per continuare a guadagnare soldi con la gestione dei videogiochi. E’ la trama scoperta dall’indagine della Procura di Roma e della Guardia di finanza che ha portato all’ordine di arresto per l’imprenditore Francesco Corallo, ribattezzato «re delle slot machine», l’ex deputato Amedeo Laboccetta e altre tre persone coinvolte nel presunto riciclaggio, condotta in collegamento con l’autorità giudiziaria olandese che ha competenza su una parte delle isole Antille.

La rete di società nei paradisi fiscali

Al centro dell’intrigo – secondo l’accusa sostenuta dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dal sostituto Barbara Sargenti, accolta dal giudice dell’indagine preliminare Simonetta D’Alessandro – , c’è proprio il gruppo di Corallo, che grazie alla concessione per l’impianto e l’utilizzo delle «macchinette mangiasoldi» e una rete di società off-shore nei cosiddetti «paradisi fiscali», ha «costruito un impero economico, sfruttando la posizione di concessionario pubblico del gioco legale, commettendo sistematiche violazioni della legge penale, prima tra tutte il reiterato peculato attraverso l’appropriazione delle somme di denaro che avrebbe dovuto versare all’Amministrazione dello Stato a titolo di prelievo unico erariale».

L’appartamento di Montecarlo

Anche Sergio e Giancarlo Tulliani, suocero e cognato dell’ex presidente della Camera, Gianfranco Fini, sono indagati nell’ambito dell’inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma. Tra i finanziamenti elargiti dalla Corporate Agents, la fiduciaria che controlla le società del Gruppo, c’è almeno un milione e mezzo di euro trasferiti nel 2008 ad altre tre ditte riconducibili a Giancarlo Tulliani e, in un caso, anche alla sorella Elisabetta, compagna dell’ex leader missino e di An Fini. Con una parte di quei soldi, 327.000 euro – rintracciati al centesimo dagli investigatori delle Fiamme gialle, comprensive di parcelle e spese connesse – l’11 luglio 2008 è stato comprato l’appartamento di boulevard Princesse Charlotte 14, nel Principato di Monaco; la stessa casa è stata rivenduta nel 2015 per un milione e 360.000 dollari. Ma ci sono altri soldi finiti da Corallo alla famiglia imparentata con Fini. Per esempio 2 milioni e 400.000 euro accreditati presso una banca belga sul conto corrente di Sergio Tulliani, padre di Giancarlo e Elisabetta, per un incarico di consulenza considerato fittizio dagli inquirenti.

(fonte)

Thyssen: fu una “colpa imponente”

Il 13 maggio scorso la Cassazione aveva confermato le pene chiudendo la storia giudiziaria del caso Thyssen. È stata una “colpa imponente”, scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza, quella commessa dall’ex ad della Thyssen Harald Espenhahn che insieme ad altri cinque manager del gruppo siderurgico ha provocato, per la totale e consapevole mancanza di adeguate misure di sicurezza, il rogo dello stabilimento di Torino nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007 nel morirono sette operai.

“Imputati consapevoli del pericolo”
Ad avviso della Suprema Corte, quella dell’ex amministratore delegato e degli altri dirigenti, è una “colpa imponente” tanto “per la consapevolezza che gli imputati avevano maturato del tragico evento prima che poi ebbe a realizzarsi, sia per la pluralità e per la reiterazione delle condotte antidoverose riferite a ciascuno di essi che, sinergicamente, avevano confluito nel determinare all’interno” dello stabilimento di Torino “una situazione di attuale e latente pericolo per la vita e per la integrità fisica dei lavoratori“.  I supremi giudici affermano inoltre che quella commessa è stata una “colpa imponente” anche per “la imponente serie di inosservanze a specifiche disposizioni infortunistiche di carattere primario e secondario, non ultima la disposizione del piano di sicurezza che impegnava gli stessi lavoratori in prima battuta a fronteggiare gli inneschi di incendio, dotati di mezzi di spegnimento a breve gittata, ritenuti inadeguati e a evitare di rivolgersi a presidi esterni di pubblico intervento”.

I giudici avevano confermato le pene inflitte in appello: nove anni e otto mesi per Espenhahn, sei anni e dieci mesi per i dirigenti Marco Pucci e Gerald Priegnitz, sette anni e sei mesi per il direttore dello stabilimento Daniele Moroni, sette anni e due mesi per l’ex direttore dello stabilimento Raffaele Salerno e sei anni e otto mesi per il responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri. Le vittime del rogo sono Antonio Schiavone (il primo a morire alle 4 del mattino per le ferite riportate durante l’incidente), Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino (spirati lentamente dal 7 al 30 dicembre del 2007 per le gravissime ustioni riportate).

“L’ad massimo autore delle violazioni”
Con argomenti di “assoluta condivisione”, i giudici dell’appello bis muovendosi nel solco delle indicazioni della Cassazione, hanno individuato nell’ex ad di Thyssen, Harald Espenhahn, “il massimo autore delle violazioni antinfortunistiche che hanno causato gli eventi di incendio e morte” mettendo inoltre in evidenza il fatto che “intorno a lui si muovono gli altri imputati che all’interno della complessa organizzazione aziendale si cooperano, interagiscono con la figura di vertice, aderiscono alle scelte strategiche, le supportano con le loro competenze tecniche e nell’esercizio dei poteri gestionali”.  Se l’ex ad è “il massimo responsabile delle scelte strategiche” sulla gestione dello stabilimento di Torino che nel 2007 era in via di dismissione e non venne fatto alcun investimento in sicurezza nonostante i numerosi motivi di allarme, gli altri manager sono anche loro colpevoli di omicidio colposo plurimo quali “informati e adesivi di tali scelte”.

Per gli ermellini “la colpa in capo al direttore dello stabilimento di Torino, Raffaele Salerno, e al responsabile della prevenzione e della protezione del lavoro, Cosimo Cafueri, si era manifestata ai massimo livelli ipotizzabili, avendo gli stessi avutodiretta percezione e consapevolezza sul campo, a fronte delle plurime segnalazioni ricevute dalle squadre antincendio, dalle problematiche connesse alle garanzie assicurative, alla mobilità dei lavoratori, alla condizione di degrado dello stabilimento, dal progressivo peggioramento delle condizioni di sicurezza”. Nonostante ciò erano stati approvati “documenti per la valutazione del rischio dal contenuto ampiamente riduttivo se non dissimulatorio”. Con una “prospettiva autarchica e autogestionale del rischio di incendio, mobilitando le squadre di emergenza soltanto in seconda battuta, investendo di responsabilità i capiturno addetti alla produzione e praticamente limitando a ipotesi eccezionali l’intervento dei Vigili del Fuoco”.

Il tentativo di influenzare i testi
Dopo il rogo, il capo dello stabilimento e il responsabile della sicurezza, Salerno e Cafueri, hanno messo in campo “una condotta processuale caratterizzata da modifica dello stato dei luoghi, zelo ingiustificato, e intento di avvicinare e influenzare il testimoniale” spiegano i giudici riferendosi alle “manovre inquinatorie” commesse da questi due imputati ai quali, anche per questi depistaggi, sono state negate le attenuanti generiche. Una scelta “del tutto condivisibile” considerando che Salerno organizzò una cena con i dipendenti dell’acciaieria alla bocciofila di Settimo Torinese “nella imminenza della audizione dei testimoni”, iniziativa che “se collegata agli improvvidi tentativi del Cafueri di avvicinare e di disciplinare la testimonianza di alcuni di essi, costituiva ulteriore manifestazione di totale indifferenza al conflitto di interessi in essere con la posizione dei dipendenti citati a deporre sui fatti ascritti ai loro dirigenti”.

(fonte)

Le parole sono importanti, come diceva quel tale.

Ha scritto l’Ansa ieri, parlando del doppio attentato in Nigeria presso il mercato di Naiduguri: “due baby kamikaze esplodono al mercato”. I “kamikaze”, dicono le agenzie di stampa, avevano sette e otto anni. Un bambino e una bambina di sette e otto anni: difficile credere che abbiano voluto o scelto di farsi esplodere, probabile forse che non sapessero nemmeno cosa stavano facendo. Due bambini imbottiti di esplosivo, insomma. Forse è qualcosa di diverso di baby kamikaze, forse.

Titola Repubblica Roma: “cinese morta a Roma, ricordo a Tor Sapienza”. Zhang Yao era una ragazza ventenne, studentessa dell’Accademia delle Belle Arti, di ottima famiglia, appena uscita dall’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma con il rinnovo del suo permesso di soggiorno per motivi di studio, scippata in un quartiere dimenticato dalla politica e con la voglia di non accettare il sopruso. È vero che i titoli hanno d’essere brevi ma “cinese” come parola contenitore di tutto questo, beh, no. Davvero. Bastava aggiungerci “studentessa”, ad esempio, come hanno fatto tutti gli altri. Sarebbe bastato poco.

Titola Libero di ieri su un articolo di Paolo Becchi (beh, direte voi, Libero più Becchi è miscela esplosiva, del resto): “la Raggi difende il marocchino ma scorda il disabile italiano”. Il marocchino in realtà non esiste: si tratta della famiglia che ha diritto a un alloggio (famiglia con figli piccoli) di cui non ha potuto usufruire perché illegalmente occupato da altri. Legalità contro illegalità, se volessimo banalizzare. E il disabile è solo uno specchietto per le allodole: nel pezzo si parla genericamente di cittadini “mandati via” tra cui, si dice, “un disabile con un figlio”. Razza contro razza, insomma. Anche qui. Come se “il marocchino” avesse cacciato “il disabile”: non hanno avuto il coraggio ma avrebbero voluto scriverlo così, c’è da giurarci.

Ci sono due macrocategorie di titoli brutti: quelli figli di un retro pensiero e quelli figli di incuria. Entrambi ottengono il risultato di nutrire gli istinti bassi; e questo non è un pezzo moralizzatore ma un invito a provare a prestare più attenzione, a prendersi cura delle parole per non diventare buoni alleati di quelli che combattiamo. Io per primo.

(il mio buongiorno per Left)

Sacra Corona Unita, operazione Omega: i fatti, le facce e i nomi

I Carabinieri di Brindisi hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere chiesta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce nei confronti di 58 indagati ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, concorso in omicidio, con l’aggravante del metodo mafioso, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, porto e detenzione illegali di arma da fuoco, nonché spaccio di sostanze stupefacenti. Gli arrestati risiedono nel territorio dell’intera provincia e in quello della limitrofa Lecce. L’inchiesta è stata chiamata Omega, 14 le ordinanze notificate in carcere a indagati ritenuti affiliati a due gruppi: da un lato quello di San Donaci, dall’altro quello di Cellino San Marco.

Nel corso delle indagini sono state intercettate frasi collegate al rituale di affiliazione alla Sacra corona unita. Al centro dell’operazione c’é l’omicidio del 29enne Antonio Presta a San Donaci, figlio dell’ex collaboratore di giustizia Gianfranco Presta. Il giovane fu ammazzato a colpi di pistola e fucile la sera del 5 settembre del 2012, mentre era nei pressi di un circolo ricreativo.

Dopo l’omicidio a San Donaci, nel corso di perquisizioni e attività dei carabinieri, sono stati trovati ingenti quantitativi di droga e tre mesi dopo un ordigno fu fatto esplodere davanti al portoncino di ingresso della casa in costruzione del maresciallo dei carabinieri. Tutti fatti, questi, che potrebbero essere collegati. I dettagli dell’operazione saranno resi noti nel corso della conferenza stampa che il Procuratore della Repubblica di Lecce, Cataldo Motta, terrà alle 10 di oggi, lunedì 12 dicembre, presso il comando provinciale carabinieri di Brindisi.

Cominciano a filtrare i primi nomi delle persone colpite dalle ordinanze di custodia cautelare: Daniela Presta e Giuseppe Chiriatti; Daniele D’Amato, Vincenzo Maiorano, Marco Ferulli, Nicola Taurino. Ferulli stava già scontando ai domiciliari una condanna per furto. Chiriatti e Taurino, entrambi di Cellino San Marco, sono finiti sotto procresso nell’ottobre scorso assieme ad altri elementi della malavita della zona, per reati connessi allo spaccio di marijuana.

Omicidio Presta– Sei anni di indagini per arrivare ad avere il nome di un uomo, un brindisino, ritenuto l’autore materiale dell’omicidio di Antonio Presta, avvenuto nei pressi del club le Massé di San Donaci: Carlo Solazzo, alias Cacafave, il cui nome sarebbe stato consegnato anche da alcuni pentiti della Scu, che di quel fatto di sangue hanno parlato nei verbali resi ai pm dell’Antimafia ricostruendo le dinamiche per la gestione dell’attività di spaccio di droga nella zona a Sud di Brindisi, fra San Donaci e Cellino San Marco.

Avrebbe agito per vendetta assieme a un’altra persona che, al momento, resta senza nome. Stando a quanto è evidenziato nel provvedimento di arresto, “Antonio Presta, unitamente alla sorella Daniela e  con l’avallo del convivente di quest’ultima, Pietro Solazzo, in quel periodo detenuto, stavano assumendo un ruolo di primo piano  tentando di scalzare Carlo Solazzo, fratello di Pietro”, quest’ultimo considerato a “capo di una compagine criminale dedita allo spaccio a Cellino”. Il 15 agosto 2012 “Antonio Presta assieme a Daniela, incendiarono un’abitazione di Carlo Solazzo, approfittando dell’assenza della famiglia. In un contesto simile è maturata la volontà di uccidere.

Le indagini hanno portato a galla due gruppi inseriti in contesti di stampo mafioso, riconducibili a Pietro Soleti di San Donaci e ai fratelli Carlo e Pietro Solazzo di Cellino, alias cacafave. La situazione ha iniziato a cambiare in seguito alla scarcerazione di Pietro Solazzo, nel febbraio 2013, con screzi tra fratelli, messi a tacere per non far saltare gli equilibri. Stessa strategia è stata adottata guardando all’altro gruppo, quello dei sandonacesi, sino ad arrivare al mutuo soccorso che avrebbe garantito a entrambi la sopravvivenza al riparo dalle azioni degli uomini delle forze dell’ordine, considerati nemici comuni.

Tra gli atti intimidatori ricostruiti in ordinanza, c’è quello ai danni dell’abitazione del comandante della stazione dei carabinieri di San Donaci, posto in essere da Benito Clemente e Antonio Saracino. Nel gruppo dei sandonacesi sarebbe stato attivo anche Floriano Chirivì. La droga sarebbe stata gestita attraverso il club Le Massè di San Donaci, dove avvenivano gli incontri e dove è avvenuto l’omicidio Presta.

Le armi. Il gruppo aveva anche la disponibilità di armi, “reperite tramite un cittadino di origine slava, Gennaro Hajdari, alias Tony Montenegro, che le faceva giungere dall’Est Europa”. Quanto all’altro gruppo, quelli dei cellinesi, “si avvaleva dell’operato dei luogotenenti Marco Pecoraro e Saveria Elia, nonché di una capillare rete di spacciatori soprattutto di cocaina” venduta “nel paese, presso la sala giochi e altri esercizi pubblici” e nei paesi limitrofi, tra i quali Guagnano. La sostanza stupefacente arrivava da Oria, Brindisi, Lecce e soprattutto da Torchiarolo.

Le affiliazioni. Le indagini, inoltre, hanno permesso di accertare che se da un lato i gruppi sceglievano la “pax” , dall’altro restavano comunque ancorati ai rituali di affiliazione con formule da imparare a memoria, definite “condanna buona”. Buona perché era quella del gruppo, del sodalizio di stampo mafioso, diametralmente opposta a quella “cattiva”, la condanna delle sentenze.

I nomi di tutte le persone arrestate: Vincenzo Maiorano, 42 anni, Gionatan Manchisi, 35 anni, Pietro Mastrovito, 55 anni, Cosimo Mazzotta, 53 anni, Matteo Moriero, 23 anni, Umberto Nicoletti, 39 anni, Massimiliano Pagliara, 39 anni, Cosimo Perrone, 33 anni, Giuseppe Perrone detto “Barabba”, 44 anni,  Daniele Presta, 39 anni, Daniele Rizzo, 39 anni, Saverio Rizzo, 50 anni, Giuseppe Saponaro, 34 anni, Antonio Saracino, 40 anni, Valtere Scalinci, 41 anni, Carlo Solazzo, 40 anni, Pietro Solazzo, 37 anni, Pietro Soleti 52 anni, Nicola Taurino, 24 anni, Andrea Vacca, 41 anni, Annunciato Cristian Vedruccio, 28 nni, Cosimo Vitale, 47 anni, Salvatore Arseni, 42 anni, Claudio Bagordo, 44 anni, Vito Braccio, 35 anni, Cristian Cagnazzo, 30 anni, di Copertino.

Giuseppe Chiriatti, 37 anni, Oronzo Chiriatti, 29 anni, Floriano Chirivì, 35 anni, Benito Clemente, 37 anni, Vito Conversano, 45 anni, Antonio Corbascio, 43 anni, Onofrio Corbascio, 48 anni, Giuseppe Cortese, 27 anni, Gabriele Cucci, 26 anni, Giuseppe D’Errico, 34 anni, Daniele D’Amato detto “Cacanachi”, 38 anni, Giuseppe D’errico, 34 anni, Antonio Francesco De Luca detto “Ticitone”, 25 anni, Sergio dell’Anna, 39 anni,  Saverio Elia, 38 anni, Marco Ferrulli, 43 anni, Francesco Francavilla, 36 anni, Cosimo Fullone, 39 anni, Cristian Gennari, 29 anni, Francesco Giannotti, 29 anni, Giuseppe Giordano, 45 anni, Davide Goffredo, 35 anni, Luca Goffredo, 37 anni, Paolo Golia,33 anni, Gennaro Hajdari,33 anni, Gabriele Ingusci,36 anni,  Fausto Lamberti , 37 anni, Gabriele Leuzzi, 37 anni, Antonio Lutrino, 28 anni,  Gianluca Re, 28 anni, Raffaele Renna detto “Puffo”, 37 anni,

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Gli stipendi più bassi d’Europa occidentale? In Italia.

Se la ripresa non decolla la colpa è anche degli stipendi che in Italia restano i più bassi dell’Europa occidentale. Peggio fanno solo Spagna e Portogallo che però si possono consolare con un maggior potere d’acquisto. A mettere i numeri nero su bianco è Eurostat, l’istituto di statistica dell’Unione europea, che in un recente report ha fatto il punto sulle retribuzione del Vecchio continente. La paga media oraria in Italia si ferma a 12,5 euro con un potere d’acquisto pari a 12,3 euro: all’interno dell’Unione europea la media si attesa a 13,2 euro l’ora, ma il dato è condizionato dai bassi salari dei Paesi dell’est entrati nella Ue dopo il 2004. Basti pensare, per esempio, che in Bulgaria il salario orario si ferma a 1,7 euro e in Romania arriva a 2 euro: in entrambi i Paesi, però, il potere d’acquisto è più alto.

Insomma l’Italia resta il fanalino di coda del Vecchio continente condannata a guardare da lontana la ricca Germania, i paesi scandinavi e persino la vicina Francia dove gli stipendi medi arrivano a 14,9 euro. E’ quindi solo una magra consolazione il fatto che lungo la Penisola gli stipendi bassi non siano così tanti rispetto alla media. Sempre secondo Eurostat i lavoratori italiani a basso reddito sono “solo” il 9,4%: si tratta dei dipendenti con un salario orario inferiore ai due terzi della paga oraria. La percentuale italiana è la più bassa della zona euro dopo Francia (8,8%), Finlandia (5,3%) e Belgio (3,8%), mentre la media continentale è al 17,2%.
Il semplice dato può anche sembrare positivo lasciando intendere che in Italia non ci siano troppe disuguaglianze sul fronte degli stipendi. Il problema, tuttavia, c’è ed è evidente: la soglia del basso reddito lungo la Penisola è inferiore a tutte le altre economie comparabili: siamo a 8,3 euro all’ora in Italia, 10 euro in Francia, 10,5 euro in Germania, 13,4 in Irlanda, 9,9 nel Regno Unito, 10,7 in Olanda e 17 in Danimarca. Si scende a 6,6 euro in Spagna, poi è bassissima in Bulgaria (1,1) euro, Romania (1,4 euro), Portogallo (3,4), Slovacchia (2,9), Lettonia e Lituania (2,2), ma sono tutti Paesi che vantano un più alto potere d’acquisto.

A livello assoluto, invece, rimangono pronfonde differenze: il 21,1% delle donne è a basso reddito, contro il 13,5% degli uomini. Inoltre, quasi un uno su tre (30,1%) degli under-30 rientra nella categoria, mentre tra 30 e 59 anni vi ricadono solo quattordici dipendenti su cento.

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“Una stampa che frequenta troppo i palazzi e poco il popolo”: parla De Bortoli

(intervista di Silvia Truzzi per Il Fatto Quotidiano)

A Milano, la città del Sì, parliamo della vittoria del No con Ferruccio de Bortoli, che alla riforma si era pubblicamente opposto. È il giorno dell’incarico a Gentiloni: “È stato un buon ministro degli Esteri”, spiega l’ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore. “Dovrà però dimostrare di essere autonomo da Renzi, il leader che lo ‘tolse dal frigorifero’ mandandolo alla Farnesina. Da lui ci si aspetta subito qualche gesto di discontinuità, anche nella composizione del governo, che rafforzi il suo profilo istituzionale, la sua credibilità anche all’estero. Vedremo, per esempio, se Luca Lotti resterà sottosegretario”.

Perché è così importante se resta o no?
Ai renziani preme molto gestire la prossima tornata di nomine delle imprese pubbliche. Accelerarono la caduta di Letta, nel 2014, anche per questa ragione. Due piani paralleli di governo, con quello ombra gestito dal segretario del Pd, sarebbero dannosi per il Paese. Avremmo il cerchio magico con il suo potere intatto e il governo ridotto a un cerchio inutile. Ma penso che Gentiloni ci stupirà in positivo. E Mattarella gli darà sicuramente una mano preziosa.

Veniamo al referendum. Come legge l’esito del voto?
Dalle urne esce un solo perdente. E nessun vincitore. Il centrodestra ha ricevuto un balsamo che gli consentirà di lenire i propri mali e che coprirà per un certo periodo l’assoluta inconcludenza di idee e programmi. Il vero perdente è Renzi che ha voluto caricare questa consultazione di significati impropri, trasformando il referendum in un voto politico. L’alta affluenza ci dice che questo Paese tiene molto alla partecipazione democratica: è stata una grande lezione civica. Il 40% non appartiene a Renzi come il 60 non appartiene all’opposizione”.

Così non sembra pensare il segretario del Pd.
Questo dimostra che il referendum, nel suo modo di pensare, aveva valenze che andavano al di là del merito. Era uno strumento per affermare il proprio potere, ottenere un viatico popolare, fare un bottino pieno e poi andare a incassare il premio alle elezioni. Renzi ha sbagliato la campagna elettorale, piegando la legge di bilancio a una serie di consensi da comprare per categorie. Chi votava No era contro la stabilità perché avrebbe esposto il Paese a conseguenze sui mercati che non ci sono state. Chi votava No era per l’immobilismo e rifiutava le riforme: possiamo dire che il 60 per cento di coloro che hanno votato – 33 milioni di italiani – rifiuta le riforme? No, possiamo dire che vuole riforme diverse da questa. Perché, bisogna dirlo, era scritta e pensata male. La grande partecipazione è anche il grido di un’Italia che vuole scegliere i propri rappresentanti e crede nella democrazia.

Renzi ha fatto, da premier, una campagna tutta incentrata sull’antipolitica: una clamorosa contraddizione.
Non si è reso conto che dopo quasi tre anni di governo era lui il potere: non doveva usare i toni anticasta di Beppe Grillo. Così come ora non si può mettere nella stessa posizione del Movimento Cinque stelle e dire “si vada al voto subito”. È una dimostrazione di scarsa responsabilità istituzionale. Ha pagato l’abbraccio soffocante dell’establishment che trasmetteva agli altri – in particolare agli esclusi – l’idea che questa fosse l’ultima spiaggia e che con la vittoria del No saremmo scivolati nel Medioevo. Si è sottovalutato il fatto che la democrazia è cara agli italiani e la riforma, con l’Italicum, indeboliva la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Sono favorevole a una democrazia decidente, ma i contrappesi nella riforma erano soltanto promessi. È stato un errore non approvare prima la riforma dell’articolo 49 della Costituzione. Il messaggio sarebbe stato: il partito che chiede agli elettori di cambiare le regole che li riguardano prima cambia le proprie, diventando più democratico e trasparente.

Nel 2006 abbiamo votato una riforma costituzionale che in comune con questa aveva molti tratti ed è stata sonoramente bocciata. Perché a distanza di dieci anni si è voluto ignorare quel risultato? Smetteranno di usare la Carta come grimaldello?
Bisogna sempre parlare della qualità delle riforme, chiedersi se rispondono a un progetto coerente ed equilibrato. Quel che non si può fare è piegare le regole comuni e le dinamiche istituzionali agli interessi di parte. C’è stata un’eccessiva confusione tra governo e Parlamento. La nostra storia politica dimostra – penso all’atteggiamento dei democristiani durante la Prima Repubblica – che quando si trattava di regole condivise il governo, saggiamente, faceva un passo indietro. Renzi si è impossessato totalmente della proposta di revisione costituzionale: agli occhi degli italiani la riforma è diventata la sua proposta. Perché la maggioranza ha chiesto il referendum, raccogliendo anche le firme? Poteva non farlo. Sarebbe utile che adesso arrivasse un’autocritica su tutti i comportamenti che abbiamo elencato. Invece no: assistiamo ad atteggiamenti indispettiti, “Fatele voi del 60 per cento le riforme”. Ma attenzione: in quel 60 per cento ci sono anche elettori del Pd e certamente elettori di una sinistra più larga. Renzi nella sua bulimia, in quella visione tolemaica del potere per cui tutto ruota attorno a lui, ha preso in ostaggio la riforma che avrebbe dovuto consacrarlo e quindi le istituzioni che doveva servire. E’ stata inferta una ferita inutile al Paese che però si è dimostrato più saggio della propria classe dirigente. Criminalizzare il No come fosse una posizione irresponsabile si è rivelato un autogol. Abbiamo perso tempo, ma non è stato a causa del no.

La logica sembra essere: avete vinto voi, ora sono fatti vostri.
È troppo comodo così… Andiamo con ordine: questa sconfitta può fare bene a Renzi, cui si devono riconoscere delle qualità. È un grande comunicatore, un politico di razza, un innovatore. Gli vanno riconosciuti anche successi: l’attenzione ai diritti civili, il Jobs act, con un dubbio legittimo sui costi, la per ora solo annunciata riforma del terzo settore, le politiche per la povertà. Per Renzi questa è l’occasione di guardarsi allo specchio, riconoscere i propri errori, essere sincero. Può dimostrare di essere – se lo è – uno statista. Può farlo stando in seconda fila, anche favorendo la nascita di un governo che per forza deve avere un mandato pieno e una fiducia non a scadenza. Senza la tentazione di dirigerlo nei fatti, con una playstation dal Nazareno. Nel ’95, dopo l’abbandono di Bossi, Berlusconi favorì il governo tecnico di Lamberto Dini, che era stato il suo ministro del Tesoro, mostrando senso di responsabilità istituzionale. Lo ebbe Berlusconi, perché non dovrebbe averlo Renzi? Deve capire che ora non è al centro della scena: ha guidato un’auto – quella italiana che magari ha le gomme sgonfie, ma non il motore inceppato – ed è uscito di strada. Ora non può dire “me ne vado, è colpa vostra”. La colpa è sua, lui ha fatto sbandare l’auto. Ora si deve dar da fare per rimettere a posto le cose, anche perché è il segretario del Pd. Il nuovo governo dovrà essere sostenuto dal partito, che dovrà essere leale al contrario di ciò che fu fatto ai tempi dell’esecutivo Letta a causa di un disegno completamente personale.

Ha perso anche il Presidente emerito Napolitano?
Napolitano creduto alla promessa fatta da Renzi al momento dell’incarico. Aveva accettato il secondo mandato chiedendo a gran voce che il progetto di riforma procedesse. Negli ultimi tempi credo fosse indispettito dall’atteggiamento di Renzi, soprattutto dalla polemica sterile e costosa nei confronti dell’Europa, quello sventolare veti poche settimane dopo Ventotene. Una sceneggiata estiva.

Perché sterile?
Sui migranti il premier aveva ragione. L’Europa si è dimostrata miope ed egoista. Ma sulla finanza pubblica io credo che invece abbia sbagliato. La flessibilità è stata usata male, guardando al consenso più che alla crescita. Sono scese solo le spese per gli interessi, le altre sono aumentate. La regola del debito è stata dimenticata. Ne parlano gli stranieri, noi la ignoriamo. Lodevoli le scelte sul super ammortamento, su industria 4.0, la riduzione al 24 per cento delle tassazione delle imprese. Ma abbiamo messo in pericolo i conti pubblici per una crescita che, al netto degli aiuti della Bce, è modesta: questa è una verità che bisogna affermare con chiarezza. C’è stato un dibattito opaco e insufficiente sulla funzionalità delle misure economiche prese. Solo nell’ultima legge di bilancio c’è stata attenzione agli investimenti che hanno toccato il minimo storico rispetto al Pil. Il guaio è che gli investimenti, a differenza dei bonus, non danno risultati immediati in termini di consenso perché dispiegano il loro effetto in tempi lunghi.

Renzi ha 42 anni: non è paradossale la sua assenza di prospettiva? Dovrebbe avere uno sguardo lungo e costruttivo proprio in virtù della sua giovinezza.
Qui rileva la visione del potere: quella di Renzi è esclusiva ed escludente, come ha sostenuto Prodi. Di cui vorrei dire, per inciso: il suo Sì è stato il più forte No a Renzi. Giustificato in tal modo da mettere a nudo i limiti di una gestione vecchia del potere. Penso al cerchio magico, ai fedelissimi, a quella che chiamerò “consorteria toscana”, per citare Ernesto Galli Della Loggia. Al premier ho sempre contestato non le idee, ma il modo di gestire il potere a tratti perfino gretto. La vicenda delle banche è emblematica. Prendiamo Mps: arriviamo ora a un intervento di salvataggio dello Stato, che poteva essere fatto mesi fa, escluso solo per ragioni di calcolo politico. La saggezza e il senso delle istituzioni avrebbero dovuto suggerire di agire ben prima. Ora se le banche vengono salvate, giustamente, con soldi pubblici, possiamo chiedere la lista dei loro principali debitori, per esempio del Monte Paschi?

La frattura è anche dentro il Pd: tira un’aria da redde rationem.
L’Italia ha pagato negli anni, non solo in quest’ultima era renziana, un prezzo altissimo prima alla composizione del Pd e poi alle sue numerose fratture. Il Pd è un grande partito di massa, guida il Paese ma deve riscoprire quella responsabilità che i partiti classici avevano. Il partito è stato considerato una struttura ancillare del governo: ora deve recuperare autonomia. C’è un problema di disciplina della minoranza rispetto alla maggioranza, ma c’è anche un problema di rispetto della maggioranza verso la minoranza.

Ma si può invocare la disciplina di partito sulla Costituzione?
Il Pd non può essere un luogo di ostracismi ed esclusione. Sennò andiamo verso una balcanizzazione della società. Continuando a dividere il Paese, come ha fatto Renzi, dopo un po’ si diventa antipatici, specie quando si occupa la televisione in questo modo militare e ossessivo. Una cosa così non si era mai vista, nemmeno con Berlusconi che pure le televisioni le possedeva. Se il Pd si dovesse spaccare sarebbe un danno per l’intero Paese: il Pd ritrovi la virtù di un confronto democratico aperto. Soprattutto il Pd deve essere in grado di trovare un’indipendenza rispetto alla vita dell’esecutivo: Renzi quando conquistò il partito democratico lo fece vivere di una vita propria rispetto al governo Letta, che poi affossò. Si riparta da lì.

L’informazione è rimasta spiazzata dal risultato.
Interroghiamoci sul perché tutti, negli ultimi giorni prima del voto, eravamo convinti che il Sì stesse recuperando posizioni. Forse questo segnala un’eccessiva vicinanza dei media al potere che spaccia – non in modiche quantità – informazioni avariate, spiffera retroscena ad arte, come l’idea che Renzi volesse prendersi un sabbatico e lasciare la politica. Forse non abbiamo più i ricettori giusti, forse chi fa informazione non sa raccontare il Paese perché frequenta troppo i palazzi e poco il popolo. E’ un’autocritica che dobbiamo fare, che devo fare anch’io. Siamo nell’era della post verità, ma sono state abbonate troppe vaghe promesse e troppe bufale. Bisogna riconoscere ciò che di giusto c’è nell’eredità renziana. Ed essere un po’ indulgenti: Renzi ha perso, ma ci si deve augurare che il perdente non ricatti le istituzioni scaricando la propria rabbia e frustrazione su altri. La responsabilità di ricucire il Paese è anche delle forze politiche che hanno votato No. Siamo reduci da una violenta campagna elettorale, è il momento della distensione. Questo Paese si mostra più solido e pacato di molte persone che lo governano. O tentano di governarlo.