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25 aprile

La riforma e il neofeudalesimo

(Antonio Esposito per Il Fatto Quotidiano)

Eugenio Scalfari, nel suo editoriale su la Repubblica di domenica scorsa dal titolo “Zagrebelsky è un amico ma il match con Renzi l’ha perduto”, sostiene due tesi: la prima è che il dibattito su La7 tra Renzi e Zagrebelsky sulla riforma costituzionale si è concluso con un 2-0 per di Renzi; la seconda è che Zagrebelsky ritiene erroneamente che la “politica renziana tende all’oligarchia” e che l’errore è dovuto al fatto che il costituzionalista “forse non sa bene che cosa significhi oligarchia”.

Entrambe le tesi sono profondamente errate.

Quanto alla prima, è vero esattamente il contrario: alla competenza con cui il Presidente emerito della Consulta ha spiegato e dimostrato, con tono pacato e dialogante e con ineccepibili argomentazioni, i gravi errori della legge di riforma e i pericoli che corre la democrazia parlamentare ove la legge venisse approvata con il referendum, si è contrapposta la “spocchia”, l’arroganza e l’improvvisazione dell’istrione Renzi che ha eluso le domande, ha fatto la solita demogagia sui costi della politica, ha cercato – (egli che è il campione del trasformismo) – di trovare inesistenti contraddizioni nei ragionamenti lineari e coerenti dell’altro, lo ha irriso ripetendo beffardamente “io ho studiato sui suoi libri”, sicché quanto mai appropriato è l’invito a lui rivolto su questo giornale da Antonio Padellaro nell’articolo di domenica scorsa “La ‘coglionella’ del mellifluo rottamatore costituzionale”: “Se davvero qualcosa ha letto (e imparato) da Zagrebelsky cominci a esibire il suo libretto universitario e ci dia la possibilità di consultare la sua tesi di laurea. Con rispetto parlando”.

Quanto alla seconda tesi, Scalfari ci ha impartito una lezione su “che cosa significhi oligarchia”. È partito da Platone per passare a Pericle, alle Repubbliche Marinare e ai Comuni per arrivare nel “passato prossimo” alla Dc e al Pci fino a concludere che “oligarchia e democrazia sono la stessa cosa” e che “Renzi non è oligarchico, magari lo fosse ma ancora non lo è. Sta ancora nel cerchio magico dei suoi più stretti collaboratori. Credo e spero che alla fine senta la necessità di avere intorno a sé una classe dirigente che discute e a volte contrasti le sue decisioni e poi cercare la necessaria unità d’azione. Ci vuole appunto una oligarchia”.

Per anni è stato insegnato che l’oligarchia – e, cioè, “il comando di pochi” (“olìgoi” e “arché”), quel tipo di governo i cui poteri sono accentrati nelle mani di pochi – è qualcosa di molto diverso dalla democrazia, il “governo del popolo” (“dèmos” e “Kràtos”) che si esercita, negli Stati moderni, attraverso la rappresentanza parlamentare. Dall’Antichità al Medioevo, l’oligarchia è stata considerata dal pensiero politico (in primis Aristotele) una forma di governo “cattiva”. Parimenti, nell’età moderna e contemporanea si è rafforzata la tesi che un governo di pochi è un “cattivo” governo. Il sistema oligarchico è in antitesi a quello democratico.

Orbene, non vi è dubbio che nel nostro Paese il Parlamento sia stato, di fatto, esautorato dall’esecutivo che – legato a ben individuati “poteri forti” che hanno chiesto ed ottenuto norme riduttive dei diritti dei lavoratori – ha esteso sempre più la sua sfera di influenza sulla informazione, sui vertici della Pa, delle forze di sicurezza, e delle aziende pubbliche e pone sistematicamente in atto una campagna, da un lato, di disinformazione e, dall’altro, di propaganda ingannevole.

Il Fatto Quotidiano, nel febbraio di quest’anno (“Le Ragioni del no”, 9/2), denunciò che la riforma costituzionale e la nuova legge elettorale – le quali, nel loro perverso, inestricabile intreccio, riducono il ruolo dei contrappesi, azzerano la rappresentatività del Senato, sottraggono poteri alle Regioni, consentono ad una minoranza di elettori di conquistare la maggioranza della Camera, unica rilevante (anche per la fiducia al Governo) di fronte ad un Senato delegittimato e composto della peggiore classe politica oggi esistente – avrebbero contribuito a portare a compimento un disegno autoritario diretto a concentrare tutto il potere nelle mani dell’esecutivo e, segnatamente, nel capo del Governo, (che da tempo è anche segretario del partito di maggioranza, e la doppia carica preoccupa), e di un gruppo di oligarchi da lui designati. Basti pensare a quei personaggi, ben noti, che lo stesso Scalfari inserisce nel c.d. “cerchio magico” di Renzi e che però, definisce, eufemisticamente, “i suoi più stretti collaboratori”.

Questo spiega la impropria discesa in campo degli oligarchi e del loro capo – (che si sarebbero dovuti astenere dal partecipare alla campagna referendaria) – ed il loro attivismo, (anche all’estero), ogni giorno sempre più frenetico, ossessivo, invasivo con la promessa – da veri imbonitori – di stabilità e benessere se vincerà il SÌ e con il prospettare catastrofi e caos nel caso opposto.

Solo votando NO sarà possibile evitare la deriva autoritaria.

Il 25 aprile? «Manifestazione non autorizzata»

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Notizie da un Paese con la memoria corta:

«Ieri pomeriggio, in occasione della Festa della Liberazione, alcuni “movimenti antagonisti” hanno organizzato una manifestazione “non autorizzata” nel centro storico di Potenza: al termine, la Digos ha individuato e denunciato l’organizzatore. In un comunicato della Questura è sottolineato che la manifestazione “non era stata preannunciata all’Autorità di pubblica sicurezza che, al fine di evitare problematiche sul piano dell’ordine e della sicurezza pubblica, ha comunque permesso che la stessa si svolgesse regolarmente”.

Al termine, la Polizia “ha individuato l’organizzatore che, non nuovo a queste iniziative e circondato dai partecipanti – è specificato nella nota – ha rifiutato ogni interlocuzione con gli agenti che lo hanno comunque deferito all’Autorità giudiziaria per il mancato preavviso di manifestazione pubblica e resistenza a pubblico ufficiale”.»

(fonte)

Siamo ancora pieni di cose a cui resistere

“Il fascismo, il regime fascista, non è stato altro, in conclusione, che un gruppo di criminali al potere. E questo gruppo di criminali al potere non ha potuto, in realtà, fare niente. Non è riuscito a incidere, nemmeno a scalfire lontanamente, la realtà dell’Italia – realtà che il fascismo ha dominato tirannicamente ma che non è riuscito a scalfire. Ora invece succede il contrario: il regime è un regime democratico eccetera eccetera, però quella acculturazione, quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottenere, il potere di oggi, cioè il potere della civiltà dei consumi, invece riesce a ottenere perfettamente; distruggendo le varie realtà particolari, togliendo realtà ai vari modi di essere uomini che l’Italia ha prodotto in modo storicamente molto differenziato. E allora questa acculturazione sta distruggendo in realtà l’Italia, e io posso dire senz’altro che il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi. E questa cosa è accaduta tanto rapidamente che forse non ce ne siamo resi conto: è avvenuto tutto in questi ultimi cinque, sei, sette, dieci anni; è stato una specie di incubo in cui abbiamo visto l’Italia intorno a noi distruggersi e sparire. E adesso, guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da fare.”

(Pier Paolo Pasolini, 1974)

Resistenza

Perché non rimangano solo i buchi

In tempi di fascismo strisciante e razzismo edulcorato il 25 aprile non è solo memoria, è un comandamento.

Un particolare di un palazzo all'angolo tra via Rasella e via Boccaccio a Roma, teatro dell'attentato gappista del 23 marzo 1944  in un'immagine del 20 aprile 2015. Ancora visibili i segni delle bombe e dei colpi di mitraglia esplosi dai nazisti. ANSA/MARTINO IANNONE

Un particolare di un palazzo all’angolo tra via Rasella e via Boccaccio a Roma, teatro dell’attentato gappista del 23 marzo 1944 in un’immagine del 20 aprile 2015. Ancora visibili i segni delle bombe e dei colpi di mitraglia esplosi dai nazisti. ANSA/MARTINO IANNONE

Vittoria contro noi stessi: aver ritrovato dentro noi stessi la dignità dell’uomo.

di Pietro Calamandrei

[..] Ma fino da allora cominciò la Resistenza: contro l’oppressione fascista che voleva ridurre l’uomo a cosa, l’antifascismo significò la Resistenza della persona umana che si rifiutava di diventare cosa e voleva restare persona: e voleva che tutti gli uomini restassero persone: e sentiva che bastava offendere in un uomo questa dignità della persona, perché nello stesso tempo in tutti gli altri uomini questa stessa dignità rimanesse umiliata e ferita. Cominciò così, quando il fascismo si fu impadronito dello Stato, la Resistenza che durò venti anni. Il ventennio fascista non fu, come oggi qualche sciagurato immemore figura di credere, un ventennio di ordine e di grandezza nazionale: fu un ventennio di sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di soffocazione quotidiana, di sorda e sotterranea disgregazione civile. Non si combatteva più sulle piazze, dove gli squadristi avevano ormai bruciato ogni simbolo di libertà, ma si resisteva in segreto, nelle tipografie clandestine dalle quali fino dal 1925 cominciarono ad uscire i primi foglietti alla macchia, nelle guardine della polizia, nell’aula del Tribunale speciale, nelle prigioni, tra i confinati, tra i reclusi, tra i fuorusciti. E ogni tanto in quella lotta sorda c’era un caduto, il cui nome risuonava in quella silenziosa oppressione come una voce fraterna, che nel dire addio rincuorava i superstiti a continuare: Matteotti, Amendola, don Minzoni, Gobetti, Rosselli, Gramsci, Trentin. Venti anni di resistenza sorda: ma era resistenza anche quella: e forse la più difficile, la più dura e la più sconsolata.

Vent’anni: e alla fine la guerra partigiana scoppiò come una miracolosa esplosione. Lo storico che fra cento anni studierà a distanza le vicende di questo periodo, narrerà la guerra di liberazione come una guerra che durò venticinque anni, dal 1920 al 1945, e ricorderà che la sfida lanciata dagli squadristi del 1920 fu raccolta e definitivamente stroncata dai partigiani del 1945. E il 25 aprile finalmente i vecchi conti col fascismo furono saldati: e la partita conclusa per sempre.
Non bisogna credere, come qualche pietoso oggi vorrebbe per carità di patria, che gli orrori degli ultimi due anni siano stati così spaventosi solo perché il nemico era mutato: perché gli oppressori non erano più soltanto i fascisti nostrani, ma erano gli invasori tedeschi, gli Unni calati dai paesi della barbarie.
E’ vero sì, che gli ultimi due anni portano il nome di Kesselring; ma Kesselring fu l’ultimo dono che Mussolini fece all’Italia; fu l’ultimo volto di una follia che da venti anni preparava l’Italia a quell’epilogo spaventoso. Su su, regione per regione, borgo per borgo, porta per porta, la furia barbarica, chiamata in casa nostra dal dittatore impazzito, passava e livellava come una falce. […]

La Resistenza alla fine li spazzò via; ma non bisogna oggi considerar quell’epilogo soltanto come la cacciata dello straniero. Quella vittoria non fu soltanto vittoria contro gli invasori di fuori: fu vittoria contro gli oppressori, contro gli invasori di dentro. Perché, sì, veramente, il fascismo fu un’invasione che veniva dal di dentro, un prevalere temporaneo di qualche cosa di bestiale che si era annidato o si era ridestato dentro di noi: e la Liberazione fu veramente come la crisi acuta di un morbo che finalmente si spezzava dentro il nostro petto, come lo strappo risoluto con cui il popolo italiano riuscì con le sue stesse mani a svellere dal suo cuore un groviglio di serpi, che per venti anni l’aveva soffocato.

Vittoria contro noi stessi: aver ritrovato dentro noi stessi la dignità dell’uomo. Questo fu il significato morale della Resistenza: questa fu la fiamma miracolosa della Resistenza.
Aver riscoperto la dignità dell’uomo, e la universale indivisibilità di essa: questa scoperta della indivisibilità della libertà e della pace, per cui la lotta di un popolo per la sua liberazione è insieme lotta per la liberazione di tutti i popoli dalla schiavitù del denaro e del terrore, questo sentimento della uguaglianza morale di ogni creatura umana, qualunque sia la sua nazione o la sua religione o il colore della sua pelle, questo è l’apporto più prezioso e più fecondo di cui ci ha arricchito la Resistenza.

(Passato e avvenire della Resistenza, discorso tenuto da Piero Calamandrei il 28 febbraio 1954 al Teatro Lirico di Milano)

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Bella ciao, brutto prefetto

Non mi stupisce l’ennesimo caso di anti-antifascismo, no: ormai paragonare fascisti e resistenti mettendoli sullo stesso piano è un esercizio vanaglorioso di neofascisti senza storia. Ma non per questo mi adeguo: sono per la Resistenza, sono per l’antifascismo come dovere costituzionale prima che come valore e mi ingegno per inorridirmi abbastanza ogni volta, tutte le volte.

La vicenda del Prefetto di Pordenone però non è solamente l’ennesimo caso di “leggerezza istituzionale” sui temi antifascisti ma è soprattutto una figuraccia istituzionale della figura prefettizia. Provate ad immaginare: a Pordenone il Prefetto convoca una riunione del Comitato di Sicurezza con Questore, Comandante dei Carabinieri e Comandante della Guardia della Finanza per arginare qualche sparuto gruppo di “anarchici” (hanno detto così eppure gli “anarchici” in questo caso mi sembrano un altro eufemismo) che potrebbe disturbare la parata del 25 aprile e cosa decidono per l’ordine pubblico? Di controllare e identificare gli eventuali “molestatori”? No, grazie. Di controllare eventuali “infiltrazioni” e modalità dei disordini passati? Figurati. Di evitare le provocazioni? Sì, forse. E quali potrebbero essere le provocazioni? Cantare “Bella ciao”. Non è una barzelletta.

Ora è vero che il Prefetto è tornato sui suoi passi (si è preso i rimproveri di mezza Italia, oltre alle risate) ma che un rappresentante del Governo (che dovrebbe, per figura, essere “super partes”) possa considerare l’antifascismo in tutte le sue forme (anzi: nella sua forma canora e corale) una provocazione la dice lunga sull’ignoranza storica. E questo basta per farne un cattivo prefetto. Che poi il sindaco di Pordenone Claudio Pedrotti abbia avvallato la scelta prefettizia nonostante sia del PD può stupire solo chi non ha ancora capito che essere antifascisti oggi in Italia significa essere brigatisti culturali, per resistere in questo marcio.

Buon 25 aprile

Signor Presidente [Luigi Einaudi], Lei che tanto bene conosce la storia del Piemonte, ricorderà la fiera risposta data da Vittorio Amedeo II agli emissari di Luigi XIV i quali gli spiegavano come le condizioni del suo esercito gli togliessero ogni possibilità di resistere alle potenti armate d’oltralpe: «Batterò col piede la terra, e n’usciran soldati d’ogni banda». Ebbene, l’8 settembre, e in seguito, a Cuneo e intorno a Cuneo avvenne proprio così: i soldati, cioè i partigiani uscivano da ogni parte, perché qualcuno aveva battuto col piede la terra; ma non era stato un sovrano, re o principe che fosse, bensì una forza più alta e maestosa, quella che si chiama la coscienza civile, la vocazione nazionale, il senso dei valori supremi, quella essenziale virtù insomma, che, magari sotterranea ed invisibile per lungo volgere di anni, erompe nei momenti decisivi, e spinge un popolo a non mancare nell’ora del dovere storico. (Dante Livio Bianco)

Lo sapete che si sparava?

Il 25 aprile in orario di cena tarda ero appena giù dal palco a tavola con la scia del sipario chiuso e un partigiano di lunga data. Lui era con gli occhi vivi, lo sguardo veloce e il karaoke che gli rimbalzava nelle orecchie. Si parlava di 25 aprile dimenticandosi di avere a tavola qualcuno che li ha visti tutti.

Poi Frà Diavolo (il suo nome di battaglia) si è inserito nel discorso raccontando del suo allontanamento forzato dalla sua Lerici. – perchè se ci prendevano – dice – ci avrebbero sparato. Lo sapete che si sparava? –

In quella domanda c’è tutto il niente del 25 aprile di marketing “neo democratico”, del revisionismo prepotente e c’è il sospetto sessant’anni dopo che loro pensino che noi non si sia capito nulla.

In mezzo al tavolo c’era un vassoio di fritto scaldato male.