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41 bis

Le bugie sul nuovo 41 bis (di Nando Dalla Chiesa)

(di Nando Dalla Chiesa, da il Fatto Quotidiano, 13 Ottobre 2017)

Ho stima e considerazione del ministro Orlando, con il quale ho anche collaborato sulle mafie al Nord. Ma la libertà di giudizio è irrinunciabile. Specie nei tornanti in cui il vento è a sfavore. La vicenda della “riforma” del 41-bis è una di queste. Alla mafia il carcere non è mai piaciuto, se non come residenza temporanea in cui accumulare potere e prestigio; luogo da cui dare ordini di morte, per brindare poi al loro successo. Figurarsi se poteva piacerle il carcere speciale.

E infatti per 25 anni non ha fatto altro che lavorare ai fianchi questa “eresia”. Basta ricordare le centinaia di 41-bis revocati dal ministro della Giustizia Giovanni Conso nel 1993. E poi l’ abolizione delle carceri speciali di Pianosa e dell’ Asinara con il governo dell’ Ulivo. Di cui i mafiosi detenuti in regime di isolamento furono informati prima ancora del parlamento. E poi le minacce ai parlamentari-avvocati inadempienti verso Cosa Nostra.

Finché nei primi anni duemila Ilda Boccassini notò che di fatto il 41-bis non esisteva più, tanto era stato annacquato. Sapemmo più di recente che nell’ ora d’ aria i capimafia al 41-bis riuscivano addirittura a tenere veri e propri summit: boss di camorra, ‘ndrangheta e Cosa nostra a consesso, a discutere di strategie di affari e di organizzazione.

Ricordo bene quando la Camera approvò la legge. Ricordo il ministro della Giustizia Claudio Martelli entrare in aula ancora terreo per le stragi delle settimane precedenti. E alcuni parlamentari spendere come certa l’ opposizione di Magistratura democratica. Vinse la rivolta morale di chi pensava che se qualcosa si doveva a Paolo Borsellino, il minimo era votare la legge che lui aveva voluto. Non per suo tic personale, ma perché, diversamente da tanti giuristi che ne discettano, lui conosceva bene la mafia, e il suo rapporto con il carcere.

I boss non dovevano più comandare, non dovevano più essere in condizione di comunicare con l’ esterno. Fu un trauma, che per altro produsse una eccezionale fioritura di collaboratori di giustizia. Uomini d’ onore ma non partigiani.

Ebbene, il destino sa apparecchiare i suoi scherzi. Così proprio nel venticinquesimo anniversario della morte di Falcone e Borsellino, quella legge viene irrisa, smontata. Senza particolari sensi di colpa. È la commemorazione senza memoria. Solo che gli eroi dell’ antimafia non sono morti per ricevere medaglie e commemorazioni; sono morti per cambiare questo Paese.

Che invece li commemora e poi torna indietro, come un pendolo implacabile. Obbedendo alle celebri convergenze di interessi, le stesse teorizzate nel maxi-processo istruito dai due giudici. Interessi nobili e ignobili, ignoranze e consapevolezze, suggeritori sopraffini e assassini impazienti; tutti all’opera mentre per mesi si giura che non si sta toccando niente. Ha ben ragione Luigi Manconi, che (illudendosi) rivendica a sé questo risultato, a ricordare che il 41-bis non prevede un di più di afflizione ma un di più (il massimo, vorrei dire) di sorveglianza.

Un carcere non duro, ma speciale. Non afflittivo gratuitamente, ma capace di evitare i collegamenti con l’ esterno. Sicché non ha senso limitare i giornali. Ma ha molto senso non concedere, come si era incredibilmente arrivati a ipotizzare, i collegamenti Skype. E avrebbe, ha molto senso, non concedere liberi contatti con folle di personaggi di nomina politica. O i contatti fisici tra i detenuti e i loro familiari. La proposta di abolire i vetri divisori, almeno con coniuge e figli, era già stata avanzata durante la legislatura 2001-2006. E mi aveva persuaso, per puro istinto umanitario. Giuseppe Ayala, che era con me in commissione Giustizia, ci mise un minuto a gelarmi. E i mafiosi che danno ordini di morte non solo alla moglie ma anche al figlio bambino, sussurrandogli in un orecchio il messaggio che lo zio decodificherà al volo? Ci pensi? Combattere la mafia senza conoscere la mafia, appunto.

Nella richiesta di custodia cautelare nei confronti di Giusy Vitale (era il 1998) la Procura di Palermo rimarcò come il fratello Vito Vitale, profittando della possibilità concessagli di abbracciare i figli minori in carcere, “non ha esitato a sfruttarla a fondo, passando, oralmente, al figlio poco più che decenne, messaggi di fondamentale importanza per l’ associazione mafiosa”. Strategie, estorsioni, soldi. Basta rileggersi quell’ atto per capire che Borsellino non aveva i tic. E che se non siamo un Paese di Pulcinella la circolare della “riforma” dovrebbe essere ritirata con pudore.

Chi può intervenire intervenga. E magari commissioni un bel monitoraggio sulle incredibili perizie mediche e psichiatriche che tengono lontano dal carcere decine di boss mafiosi. Un bel bagno di realtà, occorrerebbe. Tipo quello che è toccato fare alle vittime e a chi se le è piante. Mentre i boss brindavano in carcere a champagne.

 

Onorano Falcone e Borsellino e intanto sbriciolano il 41 bis

Ne scrive Lirio Abbate:

Racconto su L’Espresso in edicola oggi, una serie di episodi che sono accaduti negli ultimi anni in cui il 41 bis viene aggirato, stravolto, e a nulla valgono le regole imposte dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dai direttori delle carceri.
E così i capimafia detenuti in base alla speciale norma penitenziaria del 41 bis, dal 2009 ad oggi vengono sempre più spesso accompagnati a casa. In questo modo possono riabbracciare parenti e familiari, grazie ad uno speciale permesso che viene accordato dal magistrato di Sorveglianza il quale accoglie le richieste del detenuto. Non ci sono vetri divisori o stanze isolate come previsto dal 41 bis. Il boss lascia per alcune ore il carcere di massima sicurezza per andare a casa. E qui inizia il viavai. Come in una processione.

Non basta la nutrita scorta della polizia penitenziaria per tenere lontani curiosi e compari, il boss è a casa sua, e qui è il padrone. E da padrone si comporta. Il segnale è stato lanciato, il padrino per la gente del suo paese è tornato. E quello che dopo le stragi si voleva tentare di contrastare, oggi sembra restare forte solo sulla carta.

Perché i mafiosi a forza di carte bollate e istanze ben motivate possono ottenere lo stravolgimento del 41 bis, il regime carcerario da sempre contrastato dalle mafie – perché ne hanno paura – diventato per legge molto rigido nel 2009. E così a venticinque anni dalle stragi tornano le commemorazioni, gli omaggi, i riti laici e religiosi.

L’insegnamento di Falcone e Borsellino nella lotta alla mafia viene sempre più disatteso e tradito a colpi di carte bollate e timbri, ma solo in pochi sembrano accorgersene. Gli altri guardano alla luna.

(fonte)

Eccoli, gli svuota41bis (con aggiornamento e intervista a Gennaro Migliore)

Succede quando una posizione politica viene regalata come risarcimento. Così Gennaro Migliore (ex SEL diventato renziano con l’aspirazione di candidarsi sindaco di Napoli) finisce sottosegretario alla giustizia (a proposito di meritocrazia) e durante un’intervista gli viene la bella idea di proporre Skype per i detenuti al 41 bis. Il che, attenzione, non è un problema se fosse il risultato di un ragionamento o di un confronto di analisi e di idee ma buttato lì come se fosse un tweet ovviamente fa rizzare le antenne a molti (magistrati antimafia compresi). La politica non è un gioco e non è nemmeno un’allegra brigata di compagnucci: è una cosa seria, la politica e (fortunatamente) i limiti alla fine emergono. Meglio così, forse.

*aggiornamento 2/7/2016 11.06

mi dicono che Migliore smentisce. Peccato che la notizia l’abbia data lui stesso. Ecco la sua pagina fb:

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*aggiornamento  2/7/2016 17.06

Ho sentito Gennaro Migliore. La sua versione è molto diversa. Pur non condividendo le sue scelte politiche (e la sua conversione pro Renzi) credo che vada letta anche perché sul tema ha le idee molto chiare. L’articolo è qui.

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Milano e quelle brutte scritte: la memoria di via Palestro sia ancora più forte

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Chissà se l’esercito milanese di detersivo e spugnette è pronto per scendere in piazza contro un’offesa ben più grave alla città e alle sue memorie più drammatiche. Intanto vale la pena leggere l’articolo di Aaron Pettinari:

“No 41 bis”, “41 bis= Tortura”. Eccole, alla vigilia delle commemorazioni per la strage di via Palestro, apparire sui muri delle vie di Milano (piazza Leonardo Da Vinci, piazzale Maciachini, uno dei viadotti in zona Mac Mahon, viale Monza all’altezza di Precotto, Villa San Giovanni, viale Monteceneri, alcuni dei luoghi dove sono state rinvenute, ndr) le scritte contro il regime del carcere duro che viene applicato ai condannati soprattutto per mafia e terrorismo ma anche a sequestro di persona e sfruttamento della prostituzione minorile.
Chi ha scritto quel terribile messaggio alla vigilia di una delle stragi del 1993? Certo è che appare impossibile pensare ad una coincidenza se si considera che proprio gli attentati di quell’anno a Firenze (provocando l’uccisione di 5 persone), in via dei Georgofili nella notte fra il 26 e il 27 maggio, Milano (in via Palestro causando altre 5 morti) e Roma, con danneggiamenti alle chiese di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano, erano ritenute un chiaro messaggio di Cosa nostra proprio contro il regime del 41 bis introdotto dalla Legge Gozzini nel 1992.

Lo scriveva chiaramente la Dia, in una nota firmata da Gianni De Gennaro inviata al Ministro dell’Interno Mancino il 10 agosto 1993, analizzando l’excursus di stragi avvenute prima in Sicilia (Capaci e via d’Amelio) e poi in continente.
“La strage di Capaci e l’omicidio di Salvo Lima sono da interpretare come due momenti significativi di una strategia a difesa di Cosa Nostra – si legge nella relazione – dopo la strage di via d’Amelio, Cosa Nostra è divenuta compartecipe di un progetto designato e gestito insieme ad un potere criminale diverso e più articolato”. Quindi viene fatto un chiaro riferimento alle bombe piazzate a Roma, Firenze e Milano. “La scelta dei tempi di esecuzione (delle stragi di Roma, Firenze e Milano) appare legata ad una concreta possibilità per i mass media, e in particola per le reti televisive, di intervenire con assoluta tempestività amplificando e drammatizzando gli effetti delle esplosioni con le riprese in diretta”. Una strategia per “insinuare nell’opinione pubblica il convincimento che in fondo potrebbe essere più conveniente una linea eccessivamente dura per cercare soluzioni che conducano ugualmente alla resa di Cosa Nostra a condizioni in qualche moto più accettabili per Cosa Nostra. La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”.
E’ in questo documento che il termine trattativa compare per la prima volta. Che il 41 bis fosse al centro del dibattito lo ha persino dichiarato nella sua deposizione al processo trattativa Stato-mafia l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (Le stragi mafiose del ’93 si susseguirono secondo una logica unica e incalzante per mettere i pubblici poteri di fronte a degli aut aut, perché potessero avere per sbocco una richiesta di alleggerimento delle misure di custodia in carcere dei mafiosi”), segno che in ambito istituzionale si aveva questa percezione. Un dato poi confermato proprio dalle note della Dia e dello Sco a firma di Manganelli. “Verosimilmente – continua la nota di De Gennaro – la situazione di sofferenza in cui versa Cosa Nostra e la sua disperata ricerca di una sorta di soluzione politica potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle istituzioni, ed aver dato vita ad un pactum sceleris attraverso l’elaborazione di un progetto che tende a intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme d’impunità ovvero innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro paese per condizionarlo. È chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis, potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”.
Un consiglio, quest’ultimo, che evidentemente non venne considerato dal Ministro della Giustizia Giovanni Conso che nel novembre dello stesso anno lascerà scadere il regime di 41 bis per 373 detenuti mafiosi dando luogo proprio a quel primo segnale di cedimento.

Striscione contro il 41 bis
Quella contro il 41 bis è una battaglia storica dei parenti dei detenuti che vi sono sottoposti. E’ uno dei punti del famigerato papello di Riina (il documento con le richieste di Cosa nostra, tra cui anche la “dissociazione” consegnato lnel 2009 da Massimo Ciancimino ai pm di Palermo) di cui parlò il pentito Giovanni Brusca e secondo l’accusa dei pm del processo trattativa è stato uno dei cardini di quel dialogo tra Stato e mafia che veniva condotto a colpi di bombe. Non solo. Fece scalpore nel 2002 la comparsa allo stadio di Palermo di uno striscione contro il 41 bis durante la partita Palermo-Ascoli del 22 dicembre. Ed è chiaro che oggi, con questi nuovi murales che hanno invaso la città di Milano, si vive una sorta di flash back. “Stanno comparendo diverse scritte in tutta Milano contro il 41 bis”, ha lanciato l’allarme nei giorni scorsi David Gentili, presidente della commissione antimafia del comune di Milano. “Scritte particolari – ha spiegato – bianche, a caratteri grandi, grafia incerta, ma ben studiate. L’assessore Rozza ha già dato indicazione per cancellarne tre. Segnalazioni sono giunte per Piazza Sire Raul, Piazza Maciachini e una, non specificata in zona San Siro”. Poi, l’invito ai cittadini a non far finta di non vedere. “Se ne individuate qualcuna – ha scritto Gentili – inviate a me o al Presidente di Zona, oppure all’assessore le indicazioni. Le faremo cancellare immediatamente. Per la commemorazione della Strage di Palestro, ci piacerebbe coinvolgere i cittadini stessi nel censurare con nettezza una campagna aggressiva, anonima, di sostegno ai mafiosi, che ci preoccupa. Vi prego di condividere il messaggio”.
Per la strage che causò la morte dei Vigili del Fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l’Agente di Polizia Municipale Alessandro Ferrari e Moussafir Driss, immigrato marocchino che dormiva su una panchina vennero condannati Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonio Scarano, Antonino Mangano e Salvatore Grigoli vennero riconosciuti come esecutori materiali.
Nel 2002, in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Carra e Scarano, la Procura di Firenze dispose l’arresto dei fratelli Tommaso e Giovanni Formoso (“uomini d’onore” di Misilmeri), identificati dalle indagini come coloro che aiutarono Lo Nigro nello scarico dell’esplosivo ad Arluno e che compirono materialmente la strage. Nel 2003 la Corte d’Assise di Milano condannò i fratelli Formoso all’ergastolo e tale condanna venne confermata nei due successivi gradi di giudizio.
A riaprire lo scenario della strage è stato poi il pentimento dell’ex boss di Brancaccio Gaspare Spatuzza. In particolare, Spatuzza riferì che lui, Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano, Giovanni Formoso e i fratelli Vittorio e Marcello Tutino (mafiosi di Brancaccio) parteciparono ad una riunione in cui vennero decisi i gruppi che dovevano operare su Roma o Milano per compiere gli attentati. Secondo Spatuzza, Formoso e i fratelli Tutino operarono su Milano e in un primo momento lui, Lo Nigro e Giuliano li raggiunsero per aiutarli nello scarico dell’esplosivo e nel furto della Fiat Uno utilizzata nell’attentato, per poi tornare a Roma al fine di compiere gli attentati alle chiese. Spatuzza scagionò Tommaso Formoso, dichiarando che all’attentato partecipò soltanto il fratello Giovanni, che da Tommaso si era fatto prestare con una scusa la villetta di Arluno dove venne scaricato l’esplosivo ma questo non fu sufficiente per la Corte d’Assise di Brescia che rigettò la richiesta di revisione del processo allo stesso Formoso.
Lo scorso 27 giugno si è poi concluso il processo nei confronti di Marcello Tutino, che era stato accusato di essere il “basista” della strage. La Corte d’Assise ha decretato l’assoluzione “per non aver commesso il fatto” ai sensi del secondo comma dell’art.530 del codice di procedura penale (ovvero la vecchia insufficienza di prove, pre riforma).

Isolare Riina

Nella confusione su Riina e Di Matteo una domanda che è una proposta di Lirio Abbate che, lucido come sempre, invita a trovare soluzioni oltre alle “dimostrazioni”:

Ben venga tutto ciò. Ma se accanto a queste azioni pubbliche e mediatiche si operasse per neutralizzare (il termine va inteso come detenuto da isolare) Totò Riina, forse qualcosa in più si potrebbe ottenere. O evitare. Si sarebbe potuto iniziare, e questo va rivolto al Dap – e Alfano, Bindi e Cancellieri potrebbero sollecitarlo – applicando norme e regolamenti interni al carcere che avrebbero portato a rendere inerme il vecchio padrino di Corleone.

Sarebbe bastato che il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, viste che le parole del boss possono aver provocato problemi interni al carcere, e non solo, a Riina si sarebbe potuto applicare un decreto in base all’articolo “14 bis” dell’ordinamento penitenziario che restringe ancor di più il carcere duro al quale è sottoposto in base al 41 bis.

Basta questo per mettere in isolamento il capo dei capi per sei mesi. La procura di Palermo l’ha proposto ma per il Dap, in base agli elementi che la direzione del dipartimento dice di aver raccolto, non può essere applicato a Riina.

Ma come, il padrino dal carcere pensa ad una strage, la comunica a un detenuto, che dovrebbe farla arrivare all’esterno, qui i comitati per l’ordine e la sicurezza pubblica fanno alzare il massimo livello di allerta e di protezione perché dicono che il pericolo è imminente tanto da proporre al pm Di Matteo di viaggiare su un carro blindato, e invece i magistrati in servizio al Dap stanno tranquilli, dicono che il 14 bis non si può applicare a chi vuole provocare – dal carcere – questo pericolo per l’ordine pubblico?

In passato il 14 bis è stato applicato a Leoluca Bagarella (dopo che ha minacciato l’autore di questo articolo durante un’udienza di un processo in cui il boss era imputato) e a Bernardo Provenzano. Isolamento per sei mesi, niente tv e giornali. Quando i difensori di Bagarella impugnarono il decreto davanti ai giudici del tribunale di sorveglianza di Bologna, questi lo hanno rigettarono sottolinenando che: «Data la particolare situazione di apparente movimento ai vertici di Cosa nostra e di cui Bagarella potrebbe ancor far parte, non appare irragionevole la scelta del Dap».

La Lombardia degli -oni

maroni_e_formigoniFormigoni e Maroni, che non finiscono solo allo stesso modo per il cognome ma si assomigliano molto di più di quanto il Roberto leghista si stia impegnando di nascondere. Un’inchiesta sulla sanità come quella di oggi (“una ramificata rete di complicità nel mondo sanitario e istituzionale” si legge nelle carte) che coinvolge il leghista Boriani, ex direttore de La Padania, e i soliti noti amici del Formigoni.

Un’inchiesta che inizia con un suicidio nell’ospedale (San Paolo di Milano) dove (sarà un caso?) stanno ricoverati i boss del 41 bis (sarà un caso?). Una sanità che sorprende (ma non troppo) per la vicinanza con ambienti corrotti, corruttivi, corrutibili e criminali. Come reagisce Maroni? Con gli slogan, i soliti che, mio Dio, qui in Lombardia funzionano per vincere le elezioni.

Maroni di quella Lega che ha appoggiato Formigoni in questi ultimi anni.

Maroni di quella Lega che è alleata con quei parlamentari brutti ceffi che manifestano oggi in Procua a Milano come chiassosi alunni in gita alcolica.

Maroni che parla di cambiamento e promette la sanità al PDL (ancora) passando per un cambiamento che non cambia niente e nessuno.

Sarà una lunga notte per la Lombardia.

I nomi degli arrestati. In manette sono finiti Massimo Guarischi, 49 anni, ex consigliere regionale di Forza Italia vicino a Formigoni, già condannato a titolo definitivo nel 2009 per corruzione negli appalti per il dopo alluvione; Leonardo Boriani, 66, giornalista, ex direttore della Padania e ora della testata online www.ilvostro.it; tre imprenditori della famiglia Lo Presti di Cinisello Balsamo, titolari della società Xermex Italia (Giuseppe Lopresti, 65 anni, e i figli Salvo Massimiliano, 43, e Gianluca, 39); Luigi Gianola, 65, direttore generale dell’Azienda ospedaliera di Sondrio, e Pierluigi Sbardolini, 61, direttore amministrativo dell’ospedale Mellino Mellini di Chiari nonché ex direttore del San Paolo di Milano. L’operazione, denominata ‘La Cueva’, è stata coordinata dal colonnello Alfonso Di Vito (Dia). Fra gli indagati ci sono, oltre al direttore generale della Sanità lombarda, Carlo Lucchina, alter ego di Formigoni, numerosi altri manager pubblici degli ospedali di Chiari, di Cremona, di Valtellina e Valchiavenna (Sondrio) e dell’Istituto nazionale tumori. Perquisito anche uno svizzero, Giovanni Lavelli, titolare di una finanziaria a Lugano e accusato di aver costituito la provvista con cui pagare le tangenti.

Gli appalti nel mirino. Le mazzette, nella ricostruzione dei pm Claudio Gittardi e Antonio D’Alessio, erano pagate per ottenere l’appalto per la manutenzione di apparecchi elettromedicali al San Paolo, per i servizi di radiologia all’Azienda ospedaliera della Valchiavenna di Sondrio e per l’installazione di sofisticati macchinari per la diagnostica tumorale all’Istituto milanese dei tumori (che “si dichiara del tutto estraneo ai fatti”) e all’Azienda ospedaliera di Cremona. L’appalto valtellinese, per esempio, valeva 9 milioni di euro e il direttore generale avrebbe accettato la promessa di 500mila euro per assicurare un trattamento di favore all’azienda dei Lo Presti. Parte dei pagamenti è documentata con intercettazioni e pedinamenti degli investigatori della Dia, i quali sono partiti dalle indagini che nel 2010 avevano portato in carcere un ex direttore dell’Asl di Pavia, Carlo Antonino Ciriaco, e Giuseppe Neri, capo della ‘locale’ della ‘ndrangheta pavese. Ci fu anche un suicidio ad attirare l’attenzione della Direzione investigativa antimafia: quello di Pasquale Libri, dirigente del San Paolo, sfiorato dall’inchiesta su Ciriaco. 

Gli indagati eccellenti. Fra gli indagati spiccano i nomi di Danilo Gariboldi, direttore generale del Mellino Mellini di Chiari; Simona Mariani, direttore generale dell’ospedale di Cremona; Gerolamo Corno, direttore generale dell’Istituto tumori di Milano; Pierguido Conti e Vincenzo Girgenti (General elettric medical systems Italia di Milano); Alessandro Pedrini, già dipendente della Regione Lombardia;Massimo Streva (Fratelli Scotti, impresa edile di Cinisello Balsamo); Battista Scalmani (BS Biotecnologie di Bergamo); Carlo Barbieri (Brainlab Tecnologie di Milano); Giuseppe Barteselli (dirigente dell’ospedale San Gerardo di Monza) e Bruno Mancini (Biemme Rappresentanze di Roma). L’operazione ha portato anche a una cinquantina di perquisizioni.

Mafie: i segnali (e le parole) sono importanti

Niente è per caso o forse è una sinistra catena di coincidenze. Qualche giorno fa esce una nota di Palazzo Chigi (in una settimana di pochissime parole dal Governo) che lascia intendere un affievolimento del regime 41 bis. Si alza un coro di proteste e una nuova nota di Palazzo Chigi corregge il tiro. Ieri la famiglia di un boss deceduto in regime carcerario 41 bis al carcere di Opera presenta un esposto lamentando la mancanza di cure. E si ricomincia a parlare della “bestialità” del carcere duro. Intanto gli avvocati dei collaboratori di giustizia raccontano di come il Governo abbia abbandonato i pentiti e i loro legali. Chissà cosa avrebbe pensato Paolo Borsellino.