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Il Pd ha vinto le amministrative, ma non può pensare di restare appiattito sul governo Draghi

Il centrosinistra vince dicono dalle parti del Partito Democratico e hanno ragione ad esserne soddisfatti. Fino a qualche mese fa la cavalcata di Salvini e Meloni, con Berlusconi al traino, sembrava essere inarrestabile e nemmeno il più incauto degli ottimisti avrebbe potuto pensare che in queste elezioni amministrative il PD potesse festeggiare un risultato che immediatamente lo proietta come riabilitato alla corsa e punto centrale della possibile prossima coalizione.

L’avvento del governo Draghi e le mosse tutte sbagliate in casa Lega (non ultimo l’affare Morisi) ha determinato la possibilità di nuovi equilibri prima inimmaginabili e anche lo sgonfiamento del Movimento 5 Stelle (questo sì assolutamente atteso, sarebbe bastato non esserne ciechi tifosi) pone Letta in posizione di assoluta superiorità.

Il centrosinistra ha vinto le amministrative (nonostante Giorgia Meloni veda un “pareggio”, beata lei) ma il futuro del centrosinistra continua a essere piuttosto nebuloso e conoscendo bene le attitudini da quelle parti non viene difficile immaginare che la tattica del “lasciare tutto così” sia molto popolare tra qualche dirigente del partito.

Negli ultimi anni è accaduto spesso che la strategia ritenuta vincente fosse quella di non toccare niente, di non spostare niente, di non dire niente pensando (male) che la politica sia una zattera inerme che deve solo farsi trascinare alle prossime elezioni.

Eppure se c’è una condotta suicidaria in questo momento è proprio quella di appiattirsi sul governo Draghi facendosi notare il meno possibile, chiamando l’immobilismo senso di responsabilità e limitandosi a ratificare decisioni che l’idolatria diffusa continua (e continuerà) a mettere in capo a Draghi. Fare i camerieri, semplicemente, non porterà lontano, no.

Il Partito Democratico in questi ultimi mesi si è intestato le battaglia di diritti individuali (a partire dal Ddl Zan) che a fatica troveranno luce ma non può pensare di prendere voti senza prendere una posizione decisa (che non si limiti solo a qualche timido tweet) sui diritti dei lavoratori (schiacciati da una certa narrazione imperante, dalla congiuntura postpandemica e dall’enorme peso che Confindustria esercita su questo governo), sulla transizione ecologica (che no, che non può essere un burocratico impegno da espletare senza coglierne le opportunità), e dalla costruzione e manutenzione di uno stato sociale evidentemente sotto attacco (le guerra ai sussidi sta vivendo un’epoca fiorente e diffusa).

Il Partito Democratico non può permettersi di subire battaglia lontane dal suo ruolo e dalla sua natura che per di più sono già nel paniere di un centro liberale che si sta formando in questi ultimi mesi.

Insomma, il PD potrebbe cogliere l’occasione per fare il PD, senza paura. Perché il serbatoio di voti va coltivato e perché anche queste amministrative hanno dimostrato che, nonostante il bombardamento di certi leader e di certi media, questo è un Paese che ci tiene eccome ai diritti e all’uguaglianza. Se non ora, quando?

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Essere Marcucci

Se qualcuno vuole toccare con mano cosa sia stato per Zingaretti guidare il Partito democratico può comodamente assistere alla sceneggiata che si consuma in queste ore con il capogruppo al Senato Andrea Marcucci.

Un attimo, faccio un passo indietro: ci si dimentica spesso quando ci si ritrova a discutere del Pd che i parlamentari che siedono in Parlamento sono figli delle liste approntate da Matteo Renzi, uno che in termini di premiazione della fedeltà come immancabile qualità politica dei suoi è praticamente insuperabile. Quando si parla di Pd, di come il Pd è cambiato in questi ultimi anni, non si può non tenere conto che la squadra parlamentare è sempre quella, figlia di quell’esperienza, figlia di quel momento.

Andrea Marcucci è stato un renzianissimo: a 27 anni era già deputato nel Partito liberale italiano (non propriamente un erede di Berlinguer, diciamo), ha amato il Pd di Renzi che guardava a destra (ma va?), odia da sempre il M5s (basta andare indietro nelle sue dichiarazioni per accorgersene) e quando Renzi decise di andarsene per fondare Italia viva pianse. Però rimase nel Pd. Ieri Fiano durante l’assemblea dei senatori Pd ha sottolineato che nel Pd “non ci sono ex renziani”. Apprezziamo lo sforzo, ce lo auguriamo tutti ma che qualcuno abbia indossato le vesti del “sabotatore interno” è una sensazione che è emersa più di una volta.

Marcucci comunque diventa capogruppo al Senato e quando il nuovo segretario Letta chiede che siano due donne a guidare le compagini parlamentari, mentre Delrio alla Camera accetta di fare un passo indietro l’inossidabile Marcucci si aggrappa alla poltrona. Irresistibili le sue giustificazioni delle ultime ore: «Decidiamo insieme ma no a imposizioni», dice, come se la decisione di Letta non sia figlia di un organo dirigente e puntando un po’ a fare la vittima, poi aggiunge «crediamo che la questione dell’alternanza di genere sia fondamentale per il nostro partito – si legge nella lettera di Marcucci a Letta – Crediamo anche che oltre gli atti simbolici, che pur a volte sono necessari, serva allargare il campo alle prossime elezioni amministrative, si vota in 8 importanti città, ai tanti luoghi dove un Pd declinato troppo al maschile, esercita funzioni di governo, e non ultimo nella cariche apicali del partito, dove per troppi anni le donne non sono state protagoniste», proponendo in sostanza di trovare donne per sostituire altri uomini ma non lui e infine ha rivendicato “l’autonomia dei gruppi parlamentari”, sempre per quella vecchia storia di riuscire a mostrare sempre e ovunque disunità nel partito. Ora, com’è nelle sue corde, Marcucci ha convocato l’assemblea dei senatori per giovedì. Insomma, non ce la fa, è la sua natura.

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

L’intergruppo Pd-M5S-Leu: tra la lotta alle destre e la nostalgia di Conte

Mentre si insedia il governo Draghi al Senato la notizia che prova a incidere sulla geografia del Parlamento è la decisione della costituzione di un gruppo interparlamentare tra Pd, M5S e Leu che, “a partire dall’esperienza positiva del Governo Conte II, promuova iniziative comuni sulle grandi sfide del Paese, dalla emergenza sanitaria, economica e sociale fino alla transizione ecologica ed alla innovazione digitale”.

La notizia divide la platea degli elettori e dei commentatori, com’è normale che sia, ma segna una prima evoluzione del quadro politico nel centrosinistra. O un’involuzione, è da vedere. Da una parte che i tre partiti abbiano deciso di farsi “blocco unico” nella gestione delle proposte e dell’atteggiamento parlamentare rivendica l’azione di governo del Conte bis, che nessuno dei tre partiti ha mai rinnegato, per opporsi alla narrazione dell’esperienza fallimentare e dannosa.

È una questione di identità politica e di consapevolezza che facilita anche la composizione di alleanze sui territori in previsioni delle prossime elezioni amministrative e regionali e indica un preciso campo politico che continua ad aspirare a essere maggioranza di governo nell’ottica di future elezioni.

L’intergruppo (se funzionerà e se riuscirà a essere compatto) sarà l’interlocutore più importante per Draghi in termini di peso di governo e di parlamentari ed è un ottimo modo per arginare gli avversari politici. Potrà portare un contributo decisivo sui temi che il centrodestra ha interessa ad affievolire e può far pendere il governo verso se stesso. Ci sono anche i contro, non sono pochi: l’appiattimento sulla coalizione può costare molto in termini di consensi soprattutto al Partito Democratico che ha nel suo elettorato voci molto critiche su questa operazione che metterebbe a rischio l’identità del partito.

All’interno del partito poi anche alcuni tra i parlamentari (molti dei residui renziani) non condividono questa scelta preferendo guardare al centro (se non addirittura a destra) rispetto all’esperienza del governo Conte. Anche all’interno del Movimento 5 Stelle alcuni vorrebbero tornare all’intransigenza promesse alle origini senza sporcarsi in alleanze così impegnative.

Intanto anche a destra Giorgia Meloni lancia la stessa iniziativa: Salvini le risponde senza rispondere dicendo “l’avevo detto prima io” e Berlusconi per ora tace. Certo i campi opposti, nonostante il governo così largo, si stanno già posizionando. Sarà da vedere quanto in questi movimenti saranno leali comunque al governo.

Leggi anche: 1. Il Pd e il “mistero” dell’intergruppo parlamentare: Zingaretti non ne sapeva nulla / 2. Qui Radio Colle: Draghi sui sottosegretari dovrà decidere da solo. Niente “aiutini” da Mattarella

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Elly Schlein a TPI: “Io segretario Pd? Sto bene dove sto. Sui migranti troppe ambiguità, ci vuole più coraggio”

Vicepresidente della Regione Emilia Romagna ed ex europarlamentare, Elly Schlein fondato le liste “Coraggiosa” hanno corso alle ultime elezioni amministrative con buoni risultati. TPI l’ha intervistata su Ue, politiche migratorie e futuro del governo.
L’Europa dice “superiamo gli accordi di Dublino” e poi esce con questa solidarietà invertita tra stati del Migration Pact. Che ne pensi?
È un errore strategico perché, al di là della dichiarazione del volere abolire il regolamento di Dublino, non risolve il nodo fondamentale che solo la riforma approvata dal parlamento nel 2017 risolveva: cioè un ricollocamento automatico per condividere equamente tra gli stati la responsabilità sull’esame delle richieste di asilo, valorizzando i legami delle persone. Quello è il tema. Mi sembra un piano deludente perché in questo modo mette da parte il lavoro fatto dal parlamento e approvato dalla maggioranza e che poteva essere utilizzato anche per convincere i governi dentro al consiglio a votare, anche a maggioranza qualificata. E invece ripropone l’idea molto vecchia della solidarietà flessibile. Un’operazione culturalmente molto pericolosa è mettere sullo stesso piano i ricollocamenti (e quindi la condivisione dell’accoglienza) e la sponsorizzazione dei rimpatri. Mi sembra che lasci le mani libere a quei governi che si sono dimostrati molto interessati alla solidarietà europea quando vuol dire fondi strutturali e assolutamente indisponibili quando si tratta di un’altra forma di responsabilità europea che è quella che già i trattati chiedono sull’asilo e sull’accoglienza. Mi sembra anche un errore strategico perché anziché farsi forte di una posizione già approvata dal parlamento si riparte da zero con una proposta che non risolve il tema della solidarietà obbligatoria.

L’Europa dice che è solidarietà obbligatoria perché comunque devi dare un contributo…
Cosa sceglieranno i paesi del blocco di Visegrad tra i ricollocamenti e tra il dare un po’ di soldi per fare i rimpatri o dare altro supporto operativo? C’è poi un’altra preoccupazione che sono le procedure accelerate alle frontiere che sembrerebbero aumentare il carico di lavoro ai paesi di confine come l’Italia e soprattutto non si capisce basate su cosa. La convenzione di Ginevra chiede un pieno esame individuale delle domande d’asilo e se tu fai una procedura accelerata – magari basata sul concetto molto discrezionale di paese terzo sicuro – rischi di costituire un filtro d’ingresso che nega il permesso di asilo a seconda del paese da cui provieni. Non mi sembra un passo avanti. Mi sembra un passo indietro. Perfino la commissione Junker, anche se con soglie altissime, faceva scattare un obbligo di ricollocamento per tutti i paesi europei. Al governo italiano spetta un difficile negoziato in cui trovare alleati sui ricollocamenti obbligatori.

In Italia qualche giorno fa hanno bloccato la Mare Jonio ed è la sesta nave ferma in porto per questioni burocratiche anche piuttosto discutibili. I decreti sicurezza rimangono sempre lì e Lamorgese ha parlato di possibili profili penali per le Ong. Come siamo messi qui da noi a criminalizzazione della solidarietà?
Evidentemente male. Mi sembra che ci sia ancora troppa ambiguità in relazione all’obbligo di ricerca e soccorso in mare e non mi sembra che si sia risolto il tema facendo la guerra a coloro che cercano di sopperire alle mancanze istituzionali. Non si sta discutendo di rimettere in mare un’operazione di ricerca e soccorso istituzionale come è stata Mare Nostrum, no, e a fronte di questo a maggior ragione è sbagliato criminalizzare chi si sta occupando di salvare vite in mare che è un obbligo giuridico e morale. Male.

Troppe ambiguità anche da parte di questa maggioranza. Spero possa risolverla in modo diverso anche con la modifica di questi decreti sicurezza che davvero stiamo aspettando da troppo tempo. Era il primo segnale necessario di discontinuità del governo Conte e ne stiamo parlando ancora dopo un anno. È importante che arrivi in fretta e che corregga non solo la criminalizzazione delle Ong ma anche gli altri profili gravissimi come quello che tendeva a smantellare l’unico sistema di buona accoglienza che è quello diffuso, che rifiuta la grande concentrazione di persone dove spariscono i diritti e spesso si infila l’ interesse economico, quello che privilegia le piccole soluzioni abitative distribuite sul territorio con adeguati servizi di inserimento nella società e con adeguati controlli da parte delle amministrazioni locali e con trasparenza sull’utilizzo dei fondi. Chi ha scritto i decreti sicurezza privilegiando le grandi concentrazioni rispetto all’accoglienza diffusa è proprio chi vorrebbe fare dell’accoglienza un business, calpestando i diritti. Con un po’ di coraggio in più questa maggioranza dovrebbe riscrivere complessivamente le leggi sull’immigrazione rimediando ai disastri delle destre che hanno prodotto irregolarità e ingiustizia, non certo inclusione e sicurezza per le comunità.

Molti ti vorrebbero segretaria del Pd ma le tue liste “Coraggiosa” hanno corso alle amministrative ottenendo ottimi risultati. Hai intenzione di continuare su questa linea o pensi che si possa pensare a un partito di centrosinistra che tenga insieme tutto?
Noi stiamo bene dove stiamo. Anzi, in una tornata che ha segnato dei risultati importanti ma non brillanti per le forze progressiste e la sinistra siamo rimasti positivamente sorpresi che le liste di coraggiosa abbiano avuto una crescita significativa. a Faenza abbiamo fatto il 7,22 per cento, a Vignola abbiamo avuto una crescita del 145 per cento rispetto alle regionali di 8 mesi fa. A Imola è andata bene, siamo cresciuti al 5 per cento. Quindi in una tornata in cui il centrosinistra si è difeso bene ma non c’è stata una crescita in valori assoluti, “Coraggiosa” è in controtendenza forse perché stiamo provando a dare una chiarezza di visione che in questo momento a livello nazionale manca. Stiamo cercando, dentro le coalizioni, di contribuire a fermare la destra ma qualificando la nostra proposta sui temi della lotta alle disuguaglianze e alla transizione ecologica, due temi su cui chi si sta mobilitando anche fuori dalla politica è stufo di titubanze e di ambiguità. Questo può essere anche uno spunto importante per le forze che formano questa maggioranza. Sui temi del clima, dell’immigrazione e del lavoro di qualità bisogna che si sblocchi questo governo. Su giustizia sociale e transizione ecologica questo governo può fare fronte comune e fare un balzo in avanti. “Coraggiosa” non ha mai avuto l’ambizione di essere un nuovo partito o una sigla in più, ha sempre avuto l’ambizione di scuotere l’intero campo delle forze ecologiste e progressiste pretendendo chiarezza nella visione condivisa di futuro. Unità sì ma non ha senso se non è accompagnata dalla coerenza di un progetto condiviso. Quindi per ora noi continuiamo a stare dove stiamo e continueremo su questa strada.

Come vedi il futuro del governo?
I risultati elettorali danno un respiro ampio ma non per stare fermi, guai a sedersi sui risultati. Quei risultati consegnano la responsabilità alle forze di governo di rilanciare in avanti. Abbiamo un’occasione straordinaria, le risorse in arrivo vanno utilizzate coinvolgendo i territori e le parti sociali, non è un sfida di governo, è una sfida che riguarda il paese. Quelle risorse ci danno l’occasione di ricostruire il paese su basi nuove, possiamo risolvere alcuni ritardi accumulati nei decenni.
Quali sono le priorità?
Transizione ecologica, su cui bisogna investire il 37 per cento delle risorse del Recovery Fund, la trasformazione digitale, su cui bisogna investire il 20 per cento e la coesione sociale. Le priorità indicate dalla commissione europea centrano proprio la congiunzione tra lotta alle diseguaglianze e transizione ecologica che sono i temi su cui insistiamo da tempo. Se il governo avrà la capacità di progettare il nuovo e non semplicemente aprire cassetti polverosi per accontentare qualcuno, si potranno spendere bene. Nei vecchi cassetti ci sono progetti scritti troppi anni fa per riuscire a interpretare i cambiamenti che servono. Io credo che la tenuta di questo governo si misurerà se le forze che lo compongono, piuttosto che continuare a distinguersi, proveranno a lavorare concretamente sui temi che li uniscono. E questi sono i temi su cui possono provare a fare un passo avanti insieme.

Transizione ecologica significa investire su un nuovo modo di spostarsi, una mobilità dolce e sostenibile puntando su ferro, intermodalità e ciclabili, vuol dire creare occupazione di qualità nelle rinnovabili, nell’efficientamento energetico degli edifici e nella prevenzione del dissesto, perché l’unica grande opera che serve al paese è la cura del territorio così colpito dai cambiamenti climatici. E poi investire sulla trasformazione digitale per rimediare i ritardi enormi che abbiamo a partire dalle pubbliche amministrazioni, ma vuol dire riuscire a governare anche processi di innovazione tecnologica per metterli al servizio delle persone, perché non governati hanno prodotto un’enorme concentrazione di ricchezze e saperi. Si dovrà assicurare pari accesso alla rete per chiudere i divari territoriali, e per il privato investire nel digitale vuol dire innovare e contribuire all’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese.

Coesione sociale significa anche fare un enorme investimento sulla scuola, sul capitale umano, sulla formazione a partire dagli asili nido. Investire sui nidi vuol dire rendere più solidi i percorsi educativi contrastando povertà educative e dispersione scolastica, ma significa anche fare politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro indispensabili per colmare il divario occupazionale delle donne, favorendo una migliore distribuzione del carico di cura. Dopo la crisi del 2008, le ricette hanno reso il lavoro più precario, specie per donne e giovani. Oggi dobbiamo evitare quegli errori e ricostruire su basi diverse. Non abbiamo più scuse, le risorse ci sono.

Leggi anche: TPI intervista Elly Schlein, campionessa di preferenze in Emilia-Romagna: “Vi racconto la nuova sinistra che può battere Salvini”

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E se il 18 giugno a sinistra nascesse un’alleanza non solo “di cartello”?

Ogni giorno un cambio di casacca, un mito utile, un nuovo leader straniero da qualche parte del mondo qualsiasi per provare a risvegliare una fascinazione nutrita solo dall’emotività del protagonista. Nel giro di qualche giorno sono stati prima tutti Macron, poi tutti Corbyn e poi di nuovo Macron così come la destra italiana si è appesa nei mesi scorsi a Trump (prima di pentirsene) o alla Le Pen (prima di prenderne le distanze per il pessimo risultato elettorale). Così anche le analisi e gli scenari sembrano più figli di un’emotività corta piuttosto che di ideali o progetti dallo sguardo lungo: siamo passati dal patto del Nazareno tra Pd e Berlusconi (che anche qualcuno dai democratici cominciava a dare per scontato e che ha scatenato le ire addirittura del garbato Romano Prodi) fino a una presunta alleanza (meglio: un tentativo di alleanza) tra il Pd e Giuliano Pisapia.
A sinistra, intanto, l’appuntamento per il 18 giugno (a Roma, teatro Brancaccio, dalle ore 9.30) che nasce dall’appello di Anna Falcone e Tomaso Montanari e sembra avere raccolto l’iniziale disponibilità di un ampio fronte che parte da Rifondazione comunista passando per Sinistra italiana, Possibile, Mdp e diversi comitati civici sparsi sul territorio suggerendo l’inizio di un percorso che, nel caso in cui si realizzasse, sarebbe una buona notizia per la sinistra italiana troppo spesso arroccata e divisa. Se davvero si riuscirà a creare una condivisione di idee e di programmi senza infangarsi su leadership e cattivi propositi di preservazione del ceto politico fallimentare, il 18 giugno potrebbe essere il primo passo di un’alleanza non solo di “cartello”. Del resto le ultime elezioni amministrative hanno dimostrato che quando la sinistra (a sinistra del Pd) riesce a raggiungere un’unità credibile può raggiungere risultati davvero importanti.

Ma come sarà il futuro? Difficile dirlo. Certo Giuliano Pisapia e il suo Campo progressista (che dicono di voler presentare addirittura un simbolo e un programma per la loro convention del primo luglio) dovrà decidere se insistere nel tentare di modificare la natura renziana del Pd (perdendo così contatto con chi, a sinistra, ritiene il Partito democratico non più potabile) oppure se dedicarsi al progetto che vuole essere alternativo al renzismo e alle politiche di questi ultimi anni.

L’articolo di Giulio Cavalli prosegue su Left in edicola


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Indovina con chi va il Pd? Con Angelino Alfano. A Palermo, intanto

Nonostante sia un copione liso e scontato, provoca il sorriso la testardaggine con cui questi si ostinano a smentirla: a Palermo, in vista delle prossime elezioni amministrative, il Pd sosterrà l’attuale sindaco Leoluca Orlando (a cui, dicono, hanno fatto opposizione dura in questi ultimi cinque anni, per dire) insieme agli alsaziani (quel che ne resta) e ai rimasugli dell’Udc.

Ne esce una lista (dal nome appetitosissimo “Democratici e Popolari”) che richiama lontanamente i colori e le grafiche del Partito Democratico e di Alternativa Popolare (la neonata creatura di Angelino Alfano) senza però citarli; Leoluca Orlando, del resto, da mesi continua a spiegare un po’ dappertutto che Fassino ha perso proprio per “colpa” del partito. Quindi? Quindi tutti civici per finta con la pretesa di riuscire a darcela a bere. Democratici e popolari. Appunto.

 

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Ma i 180 milioni di euro che la Lega ha preso (e speso indebitamente) da Roma ladrona?

(Un pezzo di Francesco Giurato e Antonio Pitoni per Il Fatto Quotidiano)

Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania  e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova.

MANNA LOMBARDA Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996.

RIMBORSI D’ORO L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef(Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimoblitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura.

ELEZIONI, CHE CUCCAGNA Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro.

CARROCCIO AL VERDE E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso discioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.

FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD

(1988-2013)

1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)
1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)
1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)
1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)
1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)
1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)
1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)
1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)
1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)
1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)
1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)
1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)
2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)
2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)
2002 € 3.693.849,60
2003 € 4.284.061,62
2004 € 6.515.891,41
2005 € 8.918.628,37
2006 € 9.533.054,95
2007 € 9.605.470,43
2008 € 17.184.833,91
2009 € 18.498.092,86
2010 € 22.506.486.93
2011 € 17.613.520,09
2012 € 8.884.218,85
2013 € 6.534.643,57

TOTALE 179.961.382,78

E intanto Cicchitto (sì proprio lui…)

cicchitto-ncd-prende-distanze-berlusconi-salvini.pngEra ovvio che avvenisse e, segnatelo, sarà sempre peggio: se al governo nazionale decidi di affidarti alla stampella del NCD (partito ormai esistente solo sulla carta intestata del Parlamento, più che vivo davvero in giro) inevitabilmente le ricadute sulle amministrative possono fomentare contraccolpi pericolosi. Così oggi Fabrizio Cicchitto (parlamentare NCD, quindi uomo di maggioranza e di governo nazionale) comincia la sua opera di lenta erosione con un intervento sull’Huffington Post che suona come un avvertimento:

«Lasciamo oggi da parte i disastri in corso nel centrodestra e vediamo alcune cose che riguardano Renzi, il suo partito e le scelte politiche in vista delle elezioni. Allora quasi ovunque Sel e Sinistra Italiana presentano liste non distinte ma contrarie frontalmente al Pd. In compenso però la minoranza dem pone ovunque preclusioni ad intese con Ncd e le forze di centro.

Non a caso Sala, che è in campagna elettorale interna al Pd, sembra subito accettare questa preclusione ma si tratta di una linea doppiamente suicida per Renzi al quale infatti sarebbe inibito allearsi negli enti locali con le forze politiche che invece sono decisive per la maggioranza del suo governo e per portarlo fino al 2018. Ora capiamo che questa sia la linea della minoranza dem – che in effetti vorrebbe vedere Renzi appeso a un lampione – ma non possiamo credere che questa possa essere la linea della maggioranza di quel partito.»

E questo è solo l’inizio. Vedrete.

#ballottaggi e sballottati

Non mi piacciono i commenti a caldo. Mi piace leggere i numeri prima di proporre le analisi e invece sento già molti lanciati in tribune televisive con la smania dei cacciatori al safari di ferragosto. Non mi piace questa abitudine tutta italiana di deridere le vittorie degli altri, appropriarsi vittorie di sponda e questa eterna indecisione nell’ammettere le proprie debolezze. Le amministrative dicono che contano le persone oltre che i partiti (ricordate quanto l’hanno ripetuto nelle scorse settimane?): bene, le persone da candidare le scelgono i partiti (ne dovrebbero essere la sintesi politica) e la classe dirigente non può esimersi da questa responsabilità. Perché qui quando vince qualcuno diventa sempre “nostro” in senso larghissimo. Personalmente sono contento dei nuovi sindaci che conosco da vicino, penso a Fois a Senago, Lucini a Como, Scanagatti a Monza, Monica Chittò a Sesto San Giovanni e tanti altri: hanno l’occasione di provare a raccontare un’altra storia, sul serio. Non mi conforta Leoluca Orlando a Palermo: l’ho conosciuto da vicino, non mi piace, ma gli elettori hanno scelto lui (nell’anno del ventennale della morte di Falcone, poi).

Una cosa mi piace: Roberto Formigoni è stato sfiduciato dagli elettori in Lombardia. Ma questo non significa che dall’altra parte per forza si sia pronti ad essere convincenti. Partire da qui sarebbe un buon punto per qualcosa di veramente diverso. Ora studio e vediamo di andare più a fondo. A dopo.