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Poveri veri poveri finti

Per alcuni piccoli imprenditori, artigiani, commercianti o ristoratori le nuove misure anti Covid rischiano di essere un colpo ferale alle proprie finanze. C’è anche da dire, però, che quando in Italia si tratta di rivendicare dei mancati incassi i numeri sballano

Sarà una mannaia. Sarà pesantissima. Chiunque di noi conosce qualcuno che subirà il probabile prossimo lockdown come colpo ferale alla proprie finanze. Non si tratta di ricchi imprenditori o persone che si possono permettere di perdere un giro: sono piccoli imprenditori o artigiani o commercianti o ristoratori che hanno galleggiato per anni e che ogni mese riuscivano a fatica a rimanere sopra la linea di galleggiamento.

Per alcuni piccoli imprenditori, artigiani, commercianti o ristoratori le nuove misure anti Covid rischiano di essere un colpo ferale alle proprie finanze. C’è anche da dire, però, che quando in Italia si tratta di rivendicare dei mancati incassi i numeri sballano anche se in pochi hanno voglia di parlarne. Perché come scriveva qualche giorno fa Alberto Brambilla sul Corriere della Sera: «Quasi la metà degli italiani, 29,204 milioni pari al 48,38%, non ha redditi e vive quindi a carico di qualcuno. Verrebbe da dire una percentuale atipica, degna di un Paese povero e non certo membro del G7, se non fosse che le stime su consumi, spese e possesso di determinati beni (telefonia, alcol, tabacco, gioco d’azzardo, etc.) vadano invece a smentire questa tesi e a puntare piuttosto il dito su un’elusione fiscale mai efficacemente contrastata in Italia, anzi, anche molto incentivata da una miriade di bonus e sconti assegnati a chi dichiara redditi bassi».

Il 13% dei contribuenti con redditi da 35 mila euro in su versa circa il 58,9% di tutta l’Irpef. La fotografia corrisponde al reale? È una bella domanda. Come sarebbe da chiedersi che ce ne facciamo, proprio in periodo di crisi, di vistose attività che aprono con nessuna ragionevolezza dal punto di vista dell’investimento e riempiono le nostre città. Case che vengono costruite in un periodo in cui nessuno ha soldi per comprare case. Bar che stanno nel paesello e sembrano degni di New York e non hanno bisogno di clienti. Ipermercati costruiti talmente attaccati da non avere senso. E così via. Cose che sono solo soldi che hanno bisogno di non avere la forma e il colore e l’odore dei soldi.

Ora c’è il Covid, vero. Ma sarebbe il caso di parlarne, prima o poi.

Buon mercoledì.

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Trascinarono nuda una malata psichica, sospesi due agenti

Sono due gli agenti della casa circondariale di Rebibbia sospesi dal loro incarico, una sovrintendente e un assistente capo coordinatore in servizio all’istituto che ora sono accusati di falso ideologico e abuso di autorità. La presunta vittima è una detenuta con problemi psichiatrici. I fatti risalgono alla notte dello scorso 21 luglio: la donna è stata trascinata con forza perché aveva rotto un termosifone, dopo avere chiesto una sigaretta e avendo ottenuto un rifiuto, e per questo sarebbe stata portata in un’altra stanza priva di telecamere di sorveglianza. Il tutto sarete avvenuto con la presenza di ben 5 agenti donne e un agente di sesso maschile che avrebbero poi redatto un verbale di servizio in cui era riportata una presunta aggressione da parte della detenuta nei confronti degli agenti che in realtà non sarebbe mai accaduta.

«Non risulta che la detenuta stesse tenendo un comportamento aggressivo che abbia reso necessario l’intervento di un agente di sesso maschile, né dai filmati risultano situazioni che rendessero necessario l’uso della forza per lo spostamento della detenuta, come sostenuto dagli indagati nell’interrogatorio» scrive nell’ordinanza la gip Mara Mattioli, che descrive anche i fatti successivi: «Il trascinamento di peso della detenuta, nuda e sull’acqua fredda, non è stato posto in essere per salvaguardare l’incolumità della stessa (avendo la detenuta già da un po’ cessato le intemperanze) apparendo invece chiaramente motivato da stizza e rabbia per i danni causati dalla donna». Nel video agli atti anzi la donna detenuta è evidentemente in imbarazzo proprio per la presenza di un uomo e cerca di coprirsi le parti intime. Scrive la gip: «L’agente entra nella stanza n.3 e ne esce tenendo ferma la nuca della detenuta che in quel momento appare collaborativa ed è completamente nuda, la accompagna all’interno della stanza n.1 resa nuovamente agibile».

Una circostanza che per l’eccezionale presenza di personale di sesso maschile non autorizzato doveva diversamente essere riportato agli atti. «Inoltre la telecamera esterna alle ore 2.01 del 22/7/2020 riprende nuovamente l’agente entrare nella stanza n.1 ove è rimasta la detenuta ed uscirne circa 24 secondi dopo. Di questo accesso non vi è traccia nei verbali né dai filmati si capisce sulla base di quale necessità un agente di sesso maschile sia intervenuto da solo presso la cella della detenuta (peraltro ancora completamente nuda)». Secondo quanto riportato dalla vittima nel suo interrogatorio sarebbe rimasta sola con l’agente uomo nella stanza mentre era minacciata di non rivelare quei fatti a nessuno altrimenti le violenze si sarebbero ripetute. Da qui la condanna di falso ideologico e di abuso di autorità che hanno portato anche alla sospensione del servizio: “personalità del tutto spregiudicate” che avrebbero potuto reiterare le violenze e che avrebbero potuto inquinare le prove. Secondo fonti interne al carcere, infatti, gli accusati non era la prima volta che eccedevano in violenze e risulterebbero diverse segnalazioni e condanne disciplinari nel loro curriculum.

Per il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia «pur rimanendo ovviamente garantisti la loro sospensione è un segnale importante perché in molti casi di abusi, quando non vengono coperti con omertà, il personale resta normalmente in servizio e in molti casi restano in servizio nello stesso istituto se non addirittura nelle stesse sezioni». Per questo, dice Anastasia, «l’intervento del Dap è particolarmente apprezzabile perché è risultato abbastanza urgente, mentre spesso si aspetta l’esito del procedimento penale, quindi molti anni dopo, prima di intervenire e allontanare gli eventuali colpevoli»· Mentre ora le indagini faranno il suo corso e accerteranno eventuali responsabilità però resta da registrare un dato, che è sempre lo stesso: nelle carceri italiani continuano a consumarsi violenze che difficilmente riescono a rompere il muro di omertà che si crea tra agenti penitenziari. In questo caso i video delle telecamere di sorveglianza hanno potuto almeno appurare che non ci sia stata nessuna presumibile aggressione, motivazione molto spesso usata per proteggere la facciata di eventuali violenze, ma solo il lavoro delle indagini ha permesso di scoprire che il verbale redatto sull’accaduto non corrispondesse alla realtà dei fatti.

Poi c’è la questione, la solita annosa di cui spesso scriviamo anche sule pagine di questo giornale, di detenuti che non sono nelle condizioni psichiche di poter sicuramente stare in una cella: la donna vittima della violenza nel carcere di Rebibbia è descritta da tutti, anche dagli inquirenti, come una persona con gravi disturbi psichici. Ma siamo davvero sicuri che una situazione del genere non sia anche creata dalla mancanza di misure alternative al carcere che dovrebbero permettere a lei di scontare la propria pena con un metodo alternativo che comprenda anche le giuste cure (oltre alla propria dignità) e che non debba mettere operatori penitenziari (anche senza le giuste competenze) in condizioni così difficili? Il 4% dei detenuti è affetto da disturbi psichici contro l’1% della popolazione generale.

La depressione colpisce il 10% dei reclusi mentre il 65% convive con disturbi della personalità. Un detenuto su 4 assume regolarmente psicofarmaci. Tutto questo mentre una sentenza della Corte di Cassazione dello scorso agosto mette nero su bianco che è ora possibile concedere, alla persona affetta da gravi problematiche psichiatriche, la misura della detenzione domiciliare. La donna di questa terribile storia ancora prima che non essere maltrattata non doveva stare a Rebibbia.

L’articolo Trascinarono nuda una malata psichica, sospesi due agenti proviene da Il Riformista.

Fonte

Poi però non vi meravigliate se la gente comune impoverita scende in strada a protestare

Sì, è vero, da anni alcuni gruppi organizzati, che siano criminalità organizzata o estremisti politici e frange violente, sfruttano il disagio sociale per esercitare violenza e per sfruttare il malcontento. Alcuni sono semplicemente criminali che tentano di travestirsi da scontenti e che si infilano nelle manifestazioni degli altri. Le indagini ci diranno cosa è accaduto a Napoli, a Milano, a Lecce, a Trieste, in un’ondata di manifestazioni che ha attraversato tutta l’Italia.

Ed è vetro anche che non erano sicuramente commercianti preoccupati quelli che hanno devastato le vetrine (di altri commercianti) semplicemente per mettere in atto un furto con scasso. Però bisogna stare attenti, molto attenti, a non perdere l’equilibrio nelle situazioni difficili (e sarà sempre più difficile, vedendo i numeri) e cadere nel giochetto di criminalizzare per non analizzare, di bollare per non discutere perché insieme alla violenza di alcuni ci sono anche le manifestazioni pacifiche che stanno spuntando in tutto il Paese.

Manifestazioni che non finiscono sui giornali perché (per fortuna) non si distinguono per ferocia e sfregio delle regole ma che in questi giorni (solo ieri ne sono state fatte nel pomeriggio due a Milano) stanno raccontando tutto il disagio di intere categorie che si ritrovano sull’orlo del baratro.

È un esercizio di equilibrio e di misura delle parole, certo, ma in fondo è il compito primario della politica e del giornalismo quello di raccontare un Paese senza appiattirlo sulla rappresentazione più comoda. Questa seconda ondata di pandemia rischia di mettere fine a molte piccole attività imprenditoriali che non hanno la disponibilità di superare nuove chiusure senza un aiuto veloce e consistente dello Stato.

Anche le statistiche ci dicono che l’Italia, già povera, continua a impoverirsi durante la pandemia e le disuguaglianze si fanno ogni giorno più spiccate. Sarebbe un errore enorme mischiare quel disagio, un disagio vero, fatto di paura mischiata all’indigenza e mischiata alla mancanza di prospettive future, con quello che invece accade a causa di violenti e di rimestatori. Ed è anche una narrazione tossica che aggraverebbe ancora di più la sensazione di “non esistere” di chi non si vede riconosciuto dallo Stato. Se la tutela della salute impone il blocco, la sussistenza diventa un problema politico evidente e urgente, che non si può nascondere sotto il tappeto dei violenti.

Leggi anche: 1. L’Alto Adige non ci sta e sfida Conte: ristoranti, bar e cinema restano aperti / 2. Guerriglia nelle città d’Italia contro le misure anti-Covid: bombe carta a Milano, negozi saccheggiati a Torino / 3. Il negozio di Gucci saccheggiato a Torino: manifestanti rompono la vetrina e rubano i vestiti | VIDEO

L’articolo proviene da TPI.it qui

La stucchevole cultura

Come sappiamo bene il nuovo Dpcm prevede la chiusura di cinema e teatri. Ne è nato un dibattito acceso come è inevitabile per un settore che risente moltissimo della pandemia e che non ha mai navigato nell’oro. Il direttore d’orchestra Riccardo Muti ha spiegato in una lettera indirizzata a Giuseppe Conte che fotografa perfettamente il momento, vale la pena leggerla:

«Egregio presidente Conte, pur comprendendo la sua difficile responsabilità in questo lungo e tragico periodo per il nostro Paese, con la necessità improrogabile di salvaguardare la salute, bene supremo, dei nostri concittadini, sento il bisogno di rivolgerLe un appello accorato. Chiudere le sale da concerto e i teatri è decisione grave. L’impoverimento della mente e dello spirito è pericoloso e nuoce anche alla salute del corpo. Definire, come ho ascoltato da alcuni rappresentanti del governo, come «superflua» l’attività teatrale e musicale è espressione di ignoranza, incultura e mancanza di sensibilità. Tale decisione non tiene in considerazione i sacrifici, le sofferenze e le responsabilità di fronte alla società civile di migliaia di Artisti e Lavoratori di tutti i vari settori dello spettacolo, che certamente oggi si sentono offesi nella loro dignità professionale e pieni di apprensione per il futuro della loro vita. Le chiedo, sicuro di interpretare il pensiero non solo degli Artisti ma anche di gran parte del pubblico, di ridare vita alle attività teatrali e musicali per quel bisogno di cibo spirituale senza il quale la società si abbrutisce. I teatri sono governati da persone consapevoli delle norme anti Covid e le misure di sicurezza indicate e raccomandate sono state sempre rispettate».

Ieri il ministro Franceschini ha risposto e la sua risposta, vale la pena sottolineare, non è stata una gran risposta. Ha definito “stucchevole” il dibattito (proprio così). Ha parlato di valore “simbolico” negando l’utilità pratica di cinema e teatri. Ci ha riproposto la sua idea di “Netflix della cultura” di cui non sanno che farsene quelli che lavorano nello spettacolo dal vivo. Roba così.

Ci ha detto anche (e questo lo vediamo tutti) che la situazione è evidentemente grave. E su questo siamo tutti d’accordo. Parlandone con Tomaso Montanari proprio ieri non posso che essere d’accordo con lui quando mi dice che «è un provvedimento incomprensibile perché non abbatterà di un millimetro la curva dei contagi perché non è a teatro e al cinema che si prende il Covid e tra l’altro è contraddittorio poiché rimangono aperti i musei dove file e assembramenti sono molto più probabili di luoghi in cui si sta seduti e distanziati».

Se il problema è ridurre la gente che va a teatro e al cinema (che sono ben poche) allora risulta strano che rimangano aperti i centri commerciali, no? Oppure si dica che la situazione è grave e che questo è solo l’antipasto, il brodino leggero per quello che verrà.

Ah, intanto le messe vanno in scena, tranquillamente.

Buon martedì.

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E ancora sparisce la politica

Il governo che tenta di arginare il Covid con l’occhio fisso sul consenso. L’opposizione che si dice contro le chiusure e poi chiede “severità contro il virus”. Così la politica si sottrae alle proprie responsabilità

Torna il virus e sparisce la politica. I dati continuano a non essere buoni e il dibattito rimane sempre bassissimo come si conviene a un Paese che ha scambiato la propaganda come unico lievito della discussione pubblica. Fateci caso.

Da una parte c’è un governo preoccupato dal consenso. Giuseppe Conte sa benissimo che gli italiani, dopo l’esperienza di mesi fa, non crederanno più di essere i colpevoli di un nuovo eventuale disastro. Ci sarebbe da discutere di modifiche strutturali del sistema sanitario, ci sarebbe da discutere di dove prendere i soldi che mancano per rimettere in piedi un Paese che deve convivere con il virus e ancora siamo alle prediche in cui si consigliano le buone maniere contro il Covid. L’abbiamo capito che indossare la mascherina è utile ma abbiamo anche capito che non basta. Abbiamo capito che il distanziamento è utile ma abbiamo anche capito che non basta. Abbiamo capito che lavarsi le mani è utile ma non basta. E onestamente abbiamo anche capito che il Covid non lo spargevano i runners e i passeggiatori con cani prima e non sta solo nei bicchieri dell’aperitivo di oggi. Inseguire il virus e i sondaggi con l’occhio sempre fisso sul consenso non funziona, lo dimostrano gli indici di gradimento a picco dei governatori sceriffi che ora brancolano nel buio.

Dall’opposizione poi arrivano segnali ancora più sconfortanti: sono contro le chiusure ma chiedono “severità contro il virus” e poiché l’unico modo per fermare la curva è ridurre le frequentazioni sociali sarebbe curioso sapere esattamente da Salvini, Meloni e compagnia cantante cosa farebbero loro. Essere contro a qualsiasi decisione è una posizione comoda e facile, non è politica. Salvini è talmente contro a tutto che ieri probabilmente si è incagliato ed è riuscito a sbraitare anche contro la Lombardia, poi qualcuno deve avergli dato un colpo di gomito e l’ha fatto rinsavire. Parlare di “libertà” senza prendersi la responsabilità di spiegare anche come avere la libertà di non ammalarci è retorica, non è politica.

A febbraio giustamente ci dicevano di essere impreparati e tutti sono stati presi alla sprovvista. Oggi la politica (tutta) dovrebbe dirci: ecco come abbiamo intenzione di abbassare la curva dei contagi, ecco quanti sono i posti letto disponibili e quanti saranno disponibili a breve, ecco in che tempi agiremo per assumere anestesisti e infermieri, ecco come scaglioneremo per alleggerire i trasporti (visto che ormai il loro potenziamento è andato in fumo), ecco come proveremo a ripristinare un tracciamento decente, ecco dove troveremo i soldi per farlo. Il paternalismo non funziona più e non funziona più l’opposizione facile.

Programmi fattibili per tenere in piedi questo Paese in questo delicato momento: questa è politica. E sembra che la stiano facendo più i virologi dei politici.

Buon mercoledì.

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Coprifuoco, Conte scarica la responsabilità sui sindaci, poi ci ripensa: chi decide la chiusura delle piazze?

Partiamo da un punto fermo: la situazione è difficile, mancano spesso i mezzi e gli uomini e ha fallito un po’ dappertutto la programmazione. Il gioco delle responsabilità è piuttosto complesso: le Regioni spesso non hanno mantenuto le promesse e si sono sottrate alle loro responsabilità, una certa leggerezza è stata pericolosamente sventolata da illustri medici e da opinionisti oltre che da leader dell’opposizione e la mediazione per qualsiasi provvedimento è sempre più difficile, ognuno con le sue priorità e tutto è in bilico tra il salvare i redditi e l’economia e preservare la salute.

Il governo Conte non si ritrova sicuramente in una situazione facile e i cittadini non sono più disposti, come accadeva a marzo, ad ascoltare buoni buoni le raccomandazioni del presidente del Consiglio come si ascolta un buon padre di famiglia. Pretendono risposte, chiarimenti, dati, numeri, analisi. Se si decide di bloccare un’attività rispetto a un’altra forse sarebbe il caso di sapere (e spiegare) il reale impatto che ha nella diffusione del virus, altrimenti resta la sensazione che tutto sia affidato a un esperimento continuo, come se questi mesi non ci avessero insegnato niente.

Però ieri Conte nella sua conferenza stampa ha compiuto un errore che è sintomatico del clima di incertezza, parlando chiaramente di “responsabilità dei sindaci” nel chiudere vie o piazze che potrebbero essere occasione di assembramento. Il proposito in sé ha le sue ragioni, sentiamo da anni ripetere che gli amministratori locali sono tutti bravi, efficienti, conoscono il territorio e chi meglio di loro potrebbe avere contezza di ciò che accade nelle loro città. Ma se decidi di responsabilizzare i sindaci e gli chiedi di farlo senza dare i mezzi diventa tutto molto complicato.

Solo per fare un esempio: per chiudere una piazza con cinque vie d’accesso (lo faceva notare ieri anche il sindaco di Bergamo Giorgio Gori) servono almeno dieci agenti. 10 agenti per una piazza. Chi li ha? Dice Conte che bisogna concedere l’accesso ai residenti e ai clienti degli esercizi commerciali: chi controlla? A Palazzo Chigi si sono accorti dell’errore e il riferimento ai sindaci sparisce dal Dpcm. Bene, sorge quindi subito l’altra domanda? Chi se ne deve occupare? Il Prefetto? Le Regioni? Chi? E poi si torna al punto di partenza: chiunque sia a doversene occupare con quali uomini e con quali mezzi? Il “federalismo delle responsabilità” che apre questo Decreto rischia di aumentare la confusione, ancora di più. E “decidere di lasciare decidere” alimenta ancora di più il caos.

Leggi anche: 1. Nuovo Dpcm, tutte le misure: cosa si può fare e cosa no da oggi / 2. La svolta del premier Conte: “Non voglio sentir parlare di lockdown” / 3. Crisanti: “Lockdown prima di Natale. Ero stato troppo ottimista”

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Spiegateci perché gli esperti che minimizzavano il virus ora imperversano in tv (di Giulio Cavalli)

Spiegateci perché gli esperti del virus “clinicamente morto” imperversano in tv

Il virus non è morto, anzi, purtroppo per noi è in ottima salute: sfondati i 10mila positivi con 150mila tamponi, 55 deceduti, 4.343 ricoverati in più di cui 52 in terapia intensiva. Stanno benissimo però anche quelli che nei mesi scorsi vedevano psicotici e allarmisti dappertutto, quelli che ci avvisavano che ormai era tutto alle spalle e che addirittura si innervosivano se qualcuno provava a chiedere un po’ di precauzione in vista dell’autunno. Fu Alberto Zangrillo, primario del San Raffaele, che lo scorso 31 maggio ci annunciò nel corso del programma Mezz’ora in più che “il virus clinicamente non esiste più”.

Zangrillo poi provò a correggere il tiro, certo, ma rimane lo studio del San Raffaele di Milano che parlava (a maggio) di “pochi pazienti e tutti con sintomi lievi” dovuti al fatto che il virus aveva perso la propria capacità replicativa e che risultava essere “enormemente” indebolita rispetto a quella registrata a marzo. “Ha ragione il mio amico Alberto Zangrillo: clinicamente il Covid-19 non c’è più, è morto, ho più degenti con infezioni batteriche”, disse Paolo Navalesi, direttore dell’Istituto di Anestesia e Rianimazione dell’Azienda ospedaliera di Padova e della Scuola di specialità, che si espresse anche sul futuro: “In base all’esperienza maturata in questi tre mesi, posso dire che se siamo riusciti ad affrontare in pochi giorni un’emergenza completamente sconosciuta, oggi saremmo in grado di rispondere nel giro di qualche ora, perciò mi sento tranquillo”.

“Chi parla di seconda ondata fa terrorismo”, disse ad agosto Matteo Bassetti, direttore della Clinica malattie infettive dell’Ospedale San Martino di Genova, che parlò addirittura di una “psicosi per una malattia ormai sotto controllo“. Sempre Bassetti lo scorso 9 settembre ci assicurava anche che in Campania non c’era “nessuna seconda ondata” ma semplicemente una “coda, peraltro prevedibile”. Eh, già. “Non ci sarà la seconda ondata” diceva anche Giorgio Palù, professore emerito di microbiologia e virologia dell’Università di Padova e già presidente della Società europea di virologia.

“Non ci sarà una seconda ondata, l’autunno sarà come adesso, il virus si sta adattando all’uomo, magari farà un ping pong con il pipistrello, cioè ce lo ripasseremo tra specie, ma non se ne andrà fino al vaccino”, disse il 6 agosto Massimo Clementi, professore ordinario di virologia al San Raffaele. E ora? Ora quegli stessi “esperti” che hanno minimizzato e hanno addirittura deriso chi temeva l’autunno tornano a essere considerati “affidabili” e a imperversare nei media. Ma siamo sicuri che non sia il caso di chiedere conto delle dichiarazioni che sono state rilasciate? Almeno un accenno di spiegazioni, basterebbe anche solo un “sì, scusate, mi sono sbagliato”. No? Ora teneteli bene a mente perché saranno quelli che cominceranno a strepitare contro il governo per le mancate misure. Scommettiamo?

Leggi anche: 1. Allarme terapie intensive: ecco la situazione regione per regione. Se i casi aumentano non siamo pronti / 2. “Ora fermiamoci 3 settimane”: parla Crisanti / 3. E alla fine lo hanno fatto: gli sceriffi governatori scavalcano il governo e chiudono le scuole (per colpa loro) – di Luca Telese / 4. Negazionisti contro empiristi: la guerra tra i virologi che decide se siamo liberi o no

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Il Covid blocca anche le adozioni: 500 bambini non possono andare dalle loro nuove famiglie

L’epidemia porta con sé storie nascoste nelle pieghe che bisogna andare a cercare e che nascondono difficoltà che rimangono sotto traccia. In Italia in questo momento ci sono 500 famiglie che attendono il proprio figlio. Sono famiglie che dopo un lungo percorso sono riuscite ad accedere all’adozione internazionale e che nonostante abbiano già ottenuto l’abbinamento, un percorso sfiancante dal punto di vista burocratico e affettivo, non riescono ad abbracciare i propri figli a causa dei blocchi tra Paesi.

La psicologa e psicoterapeuta Maria Rita Parsi, con un intervento sul settimanale Oggi scrive chiaramente cheper quei bambini attendere ancora significa nuovamente sperimentare un rifiuto che inconsciamente conoscono e consciamente li opprime”. Hanno conosciuto i genitori – spiega la Parsi – scambiando abbracci e pronunciando parole in lingue diverse, nel nome di un nascente amore, di una nascente, reciproca fiducia e speranza di diventare famiglia. Quei bambini sono stati fin dalla nascita segnati da distacchi e da traumatiche esperienze che li hanno separati dalle madri che li hanno messi al mondo. Hanno vissuto in istituti con altri bambini o in famiglie di accoglienza”.

Il presidente di Ai.Bi. – Amici dei Bambini Marco Griffini racconta che l’ex vicepresidente della Commissione per le Adozioni Internazionali aveva parlato di “corsie preferenziali” per superare il blocco causato dell’epidemia: serve un accordo urgente con i Paesi di provenienza, di concerto con tutti i Paesi europei per riuscire a sbloccare la situazione. “Questo è un problema urgente che non riguarda solo i 500 bambini italiani già abbinati, che, bisogna ricordarlo, sono già dei potenziali cittadini italiani”, ha aggiunto Griffini.

“C’è un numero spropositato di bambini orfani a causa del Coronavirus e quindi vanno studiate e applicate assolutamente delle nuove modalità di gestione delladozione internazionale”. E la memoria va a quando il Governo si attivò, era il 2014 con la ministra Boschi, per sbloccare la situazione di 31 bambini in Congo. Un padre sulla pagina Facebook “Un bimbo mi aspetta” scrive: “Continuo a essere convinto di questa scelta, ma ora mi faccio delle domande, perché il tempo per far ripartire le cose c’è stato. Mi rendo conto che un genitore adottivo non muove il mercato di un campionato di calcio. Mi rendo conto che cerano altre priorità (ci sono sempre altre priorità quando si parla di adozione). Ma abbiamo trovato il tempo di andare in vacanza, riaprire i campionati di calcio, spostare turisti e merci. Siamo riusciti a mettere in piedi un turno elettorale. E non siamo riusciti a unire duecento famiglie. Ogni tanto si spera che l’adozione possa essere “veloce” come un abbandono. Anche in tempi di Covid.

Leggi anche: 1. Coronavirus, Conte: “Situazione preoccupa, rispettare le regole. Lockdown a Natale? Non do previsioni, mi occupo di prevenire” / 2. “Dopo i casi di oggi è davvero possibile un nuovo lockdown delle città italiane”: parla Pregliasco / 3. C’è l’emergenza Covid, ma all’Umberto I di Roma i pazienti sono stipati in sala d’attesa. Motivo? Il set di Mission Impossible con Tom Cruise

4. “La gente non ci vuole mai credere fino a quando deve per forza toccare con mano che il virus non è mai stato meno letale”. Parla Cartabellotta del Gimbe / 5. Nonostante il Covid abbiamo realizzato solo metà delle terapie intensive e usato un terzo dei fondi per posti letto e tamponi / 6. Tutti i numeri su Immuni tra le omissioni delle Asl e la paura dei contagiati

7. Giallo, arancione, rosso: i 3 scenari del Cts per le chiusure se salgono i contagi / 8. Covid, il ministro Speranza: “Il 75% dei contagi da parenti e amici: stop a tutte le feste” / 9. L’epidemiologo Le Foche: “I contagiati hanno carica virale bassa, epidemia domabile in primavera”

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Scoppia il bubbone del trasporto pubblico. Ma potevamo pensarci prima

Eccolo finalmente il dibattito che si è aperto dopo mesi di muro contro muro. Dopo settimane passate a scorgere dappertutto le testimonianze fotografiche allarmate della situazione nelle fermate dei trasporti pubblici locali e all’interno dei convogli, quegli stessi che trasportano le persone che, sai com’è, devono spostarsi per vivere, lavorare, mangiare, studiare ora scoppia il bubbone del trasporto pubblico.

L’allarme, corroborato dai numeri, lo lancia l’Asstra, associazione delle società di trasporto pubblico, che mette nero su bianco il “rischio di fenomeni di assembramento alle fermate e alle stazioni”. Ma va? Eccoci, quindi: mentre il Comitato Tecnico Scientifico pensa di ridurre al 50% la capienza dei mezzi pubblici rispetto all’80% attualmente consentito (e quasi mai rispettato, perché poi ci sarebbe da discutere anche dei controlli che mancano) Asstra comunica che in quel caso “risulterebbe difficile per gli operatori del Tpl continuare a conciliare il rispetto dei protocolli anti Covid-19 e garantire allo stesso tempo il diritto alla mobilità per diverse centinaia di migliaia di utenti ogni giorno, con il conseguente rischio di fenomeni di assembramento alle fermate e alle stazioni”.

I numeri sono chiari: “si rischierebbe – scrive Asstra – di non poter soddisfare da oltre 91mila (ipotesi capienza massima consentita al 75%) a circa 550mila spostamenti ogni giorno (scenario al 50%), arrecando un notevole disservizio quotidiano all’utenza. Andando nello specifico, ipotizzando una riduzione al 50% della capienza massima, si impedirebbe a circa 275mila persone al giorno di beneficiare del servizio di trasporto sia per motivi di studio che di lavoro”.

275mila persone che resterebbero a piedi. L’opzione rimane sempre la stessa: togliere utenza come soluzione più semplice e economica piuttosto che investire in capienza. E a nessuno è venuto in mente che il rafforzamento del trasporto pubblico fosse una delle priorità da mettere in agenda il prima possibile, ben prima della pluriprevista seconda ondata che tutti sapevano che sarebbe arrivata.

Eppure in questi mesi sono state molte le proposte per ripensare in tempo la mobilità (quella di BikeItalia, solo per fare un esempio) e di tempo a disposizione per governare l’inizio delle attività produttive e scolastiche ce n’è stato abbastanza. Forse sarebbe stato meglio accanirsi un po’ meno contro la ministra Azzolina e chiedere più risposte alla ministra De Micheli, che ora ha convocato finalmente le Regioni per un confronto sul tema. Tardi.

Leggi anche: Scontro sui trasporti, le Regioni chiedono orari scaglionati per le scuole: oggi il tavolo con De Micheli

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L’altra salute (oltre al Covid)?

Quasi un milione di interventi chirurgici rimandati, molte visite oncologiche saltate, la digitalizzazione degli ospedali ancora in alto mare. No, la sanità italiana non è in crisi solo sul fronte della lotta al coronavirus

C’è un’altra sanità, oltre alla questione Covid, su cui forse conviene fare una riflessione. Sono numeri spaventosamente alti che aggravano una situazione endemica che già esisteva: le liste di attesa degli interventi chirurgici si sono inevitabilmente allungate all’infinito e i numeri nel mondo sono spaventosi. Ora finalmente se ne ricomincia a parlare dopo che il viceministro Sileri ha confermato le stime che giravano già da mesi e il dibattito, badate bene, merita tutta la nostra attenzione perché dietro ai numeri ci sono sempre le persone. E allora parliamone.

Un’analisi dell’Università di Birmingham già lo scorso maggio stimava che, nel periodo di 12 settimane del picco epidemico che ha portato all’interruzione di molti servizi ospedalieri, gli interventi chirurgici elettivi annullati o rinviati potrebbero essere stati 28,4 milioni in tutto il mondo, cioè il 72,3% di quelli pianificati.

La situazione italiana era sulla stessa linea: Nomisma aveva contato circa 410mila interventi chirurgici rimandati a causa del dirottamento di anestetisti e infermieri verso i reparti Covid e della necessità di ridurre il rischio di esposizione al virus. Si va dal 56% dei ricoveri per interventi legati a malattie e disturbi dell’apparato cardiocircolatorio alla quasi totalità dei ricoveri per patologie afferenti all’otorinolaringoiatria e al sistema endocrino, nutrizionale e metabolico, oltre l’area ortopedica con 135mila ricoveri rimandati.

E, secondo Sileri, la situazione si sarebbe poi ulteriormente aggravata. «Abbiamo purtroppo un numero importantissimo, vicino al milione, di interventi chirurgici saltati e ovviamente rinviati, e un numero importantissimo di indagini e visite ambulatoriali saltate e rinviate, intorno ai 20 milioni», ha dichiarato il viceministro della Salute a fine settembre, in occasione della presentazione del rapporto annuale sull’innovazione in campo sanitario e farmaceutico dell’Istituto per la Competitività.

Le diagnosi di tumore e le biopsie, inoltre, sempre a maggio erano calate del 52% e nei reparti di oncologia si era registrata una diminuzione del 57% delle visite: gli oncologi dichiaravano che in media prima dell’insorgenza del Covid-19 visitavano circa 80 pazienti alla settimana, ma che nell’ultima settimana presa in esame ne hanno visitati 34. Ancora: il 45% dei malati oncologici aveva rimandato la chemioterapia. E nulla fa pensare che questa emergenza si sia risolta.

Volendo poi c’è il cronico problema della mancata informatizzazione del nostro sistema sanitario: un sistema che non dialoga con gli altri ospedali e che spesso addirittura non riesce a dialogare tra reparti e che nel mondo invece è considerato determinante per migliorare le cure e per diminuire gli sprechi (le ripetizioni di esami già fatti è solo un esempio).

C’è anche altra salute, oltre al Covid.

Buon mercoledì.

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