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Ultima Voce recensisce Disperanza

No, non disperazione, quella è esplosiva, estemporanea. La “disperanza” è qualcosa di più sottile e subdolo.

Giulio Cavalli parte da sé stesso per poi rivolgersi all’altro, a chiunque volesse contribuire con un’esperienza o una riflessione. E così ha visto che la “disperanza” attanaglia tanti, ed in tanti aspetti della vita.

La politica, l’amore, la salute, il lavoro.

Niente sfugge a questa non emozione, a questo non sentimento che lascia inermi, come se si fosse già visto tutto, troppo. Il libro alterna le considerazioni dell’autore alle lettere di chi ha raccolto il suo appello sui social. Ognuno racconta di quando si è sentito impotente, disperato, rassegnato.

Cavalli, in questo modo, compie un piccolo miracolo.

Compila una raccolta di sventure che risulta però confortante, illuminante. In primo luogo perché, con la “disperanza”, definisce qualcosa che hanno provato in molti, ma che ai più appariva inafferrabile. In secondo luogo perché, in questo modo, l’autore rende legittime le fragilità di ognuno.

Dalle nostre fragilità gocciolano forze impensabili che ci ostiniamo a nascondere troppo. Il diritto di cittadinanza delle fragilità andrebbe scritto nella Costituzione.

Perché le fragilità nascoste, soffocate, insolute, sono quelle che ci logorano dentro, un pezzettino alla volta.

Ma esprimerle, affrontarle, condividerle, ci rende davvero più forti poiché più consapevoli di noi stessi, dei nostri limiti, di ciò che possiamo fare per attraversarle e superarle. Soprattutto, ammettere le nostre fragilità ci permette di riconoscerci in quanto esseri umani, spezzando le catene di quella innaturale positività ad ogni costo, quella perfezione, quell’immagine sempre vincente che altro non è che una pericolante costruzione.

Con un linguaggio che, come per magia, riesce ad essere diretto quanto poetico, Giulio Cavalli ci accompagna verso la speranza, perché la “disperanza” non è altro che un’ombra che ci nasconde i colori, ma solo temporaneamente.

Credete in voi, in quello che potete essere. E non abbiate ribrezzo di quello che siete e di come siete: è una tappa per arrivare di là, dove volete arrivare […]

Mariarosaria Clemente

ExLibris 20 recensisce Disperanza

La disperanza è qualcosa che insopportabilmente diventa sopportabile per lunghi periodi, uno status che può rimanere appiccicato anche per una vita intera.

Così la definisce Giulio Cavalli. È il vivere come una vergogna le proprie fragilità, in un mondo in cui conta solo mostrare i muscoli. È sentirsi come un vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro.

Partendo dalla propria esperienza personale, l’autore racconta in Disperanza un fenomeno (la perdita di speranza e l’incapacità di parlarne) che da intimo, privato, è divenuto universale, collettivo e lo fa dando voce a chi è abituato a starsene in silenzio. Il suo appello sui social network (Ditemi quando avete perso la speranza) diviene l’occasione per portare a galla una sofferenza profonda, per rendere consapevoli i “disperanti” di non essere dei casi isolati, ma di potersi riconoscere quasi come comunità. E in questo senso il libro ha anche un valore catartico, perché “il primo passo per uscirne è riconoscersi non solo”, comprendere che “c’è un mondo che striscia in fondo alla brace tiepida del quotidiano, che ha le stesse ferite, gli stessi segni e li indossa nascondendoli”.

I “messaggi dei lettori”, le storie personali di ognuno, le loro confessioni intime sono innestate in un tessuto narrativo coerente, che riesce ad universalizzare le esperienze più private, costringendo il lettore a confrontarsi con se stesso e con le proprie paure e fragilità. Ne nasce un libro che ti prende allo stomaco, che tocca corde profonde, perché il desiderio inoppugnabile di farsi vincere dal sonno, lo sforzo necessario a staccarsi dal suo abbraccio per affrontare l’ineluttabilità di una giornata sempre uguale sono sensazioni che accomunano non solo i “protagonisti” del libro, ma anche molti lettori, quelli che vorrebbero soltanto sopravvivere, attraversare l’esistenza riducendo al minimo le occasioni di contatto con gli altri. Rifugiarsi nel sonno, nel silenzio, anche se a volte il silenzio fa paura.

Cavalli ha una straordinaria capacità di rendere con immagini incisive lo stato di sospensione di questi disperanti “gente che non si sposta, ma si fa spostare” che “potrebbero essere scambiati per soprappensiero, invece sono sottopensiero, incapaci di ridurre il pensiero a impulso”. I disperanti li riconosci, perché sono quelli che camminano come un marziano, come un malato, come un mascalzone; li vedi galleggiare nell’esistenza o, più spesso, non li vedi neanche, perché a caratterizzarli sono la mancanza di energia e la trasparenza. Allora ciondolano da un nonluogo a un altro, perché nessun luogo gli appartiene davvero e a nessuno essi appartengono, riempiono il tempo e lo spazio senza realmente occuparli, senza dare a queste dimensioni un senso reale.

L’incapacità di adeguarsi alla brama di successo degli altri, l’uscire dagli schemi di una società che ti chiede incessantemente di lottare e di arrivare e che, se non hai sufficienti energie da dedicare a questo scopo, ti dichiara inesorabilmente un fallito, fanno di te un reietto, un emarginato. Del resto “la caduta di umore e di energie, per i benpensanti, sono la fatica immaginaria di un malato immaginario che si accosta a una tristezza immaginaria solo perché non ce l’ha fatta”.

I disperanti non sono una categoria omogenea, sono giovani e vecchi, si disperano per se stessi e per i propri cari, o per il destino dell’umanità intera. Si perde la speranza per amore, per una malattia, per il lavoro o per la sua mancanza, per una situazione politica dalla quale non si vede una via di salvezza. Ma come si convive con l’aver perso la speranza?

Secondo Francesca “non si guarisce, la disperanza se ne va, in attesa che ritorni”.

Attraverso le diverse voci dei propri lettori, Cavalli costruisce una mappa della disperanza.

L’autore realizza i capitoli del suo libro cercando di raggruppare le esperienze di chi ha voluto condividerle in categorie basate, fondamentalmente, sulla causa scatenante di questa progressiva perdita di speranza. Per ogni categoria, nel tessere la trama che unisce le diverse esperienze raccolte in quest’antologia della disperanza, Cavalli sviscera, in un’analisi essenziale ma puntuale, le cause ultime di questi mali collettivi. I disperanti sono vittime di questo tempo e di questa società, che nella sua corsa verso l’affermazione, il successo, il profitto, lascia indietro i più fragili, i più sensibili o quelli che, semplicemente, si fermano a riflettere. L’esasperata precarietà del lavoro e degli affetti genera solitudine, tristezza, apatia. Una politica fondata sulla paura (del diverso, del futuro) produce affanno, angoscia, isolamento. “Viviamo in mezzo a gente che è tranquilla in un perimetro sempre più ristretto” afferma l’autore. La disperanza è il prodotto di una società che non contempla più il dubbio, la riflessione, la fragilità e taccia tutto di inadeguatezza, di incapacità, mandando avanti solo “quelli con i razzi al culo” (come dice una delle testimonianze raccolte).

La società dovrebbe salvarci dall’universo che ci ingoia. Ma chi ci salva dalla società?” si chiedeva Manlio Sgalambro.

Già, chi o cosa ci può salvare? Come si recupera la speranza? Probabilmente imparando a convivere con i momenti di umore più nero, cercando il conforto in quello che realmente ci sta a cuore e non nei modelli che ci vengono imposti, continuando a emozionarci, a indignarci. Divenendo, finalmente, fieri anche delle nostre fragilità

L’ultimo capitolo si intitola “Non credergli”. È da leggere e rileggere. E rileggere ancora.

È una cassetta per gli attrezzi già pronta ai bordi del letto, per apparecchiare ogni mattina una speranza”, per ricostruire il proprio mondo, la propria dimensione, per arrivare a guardare in faccia il demone. Un vademecum per affrontare la quotidianità. Per non arrendersi.

Fabio Sarno

La calcioisteria

I casi di coronavirus nelle scuole e nelle aziende, il rischio di una seconda ondata dei contagi, la disperazione di chi si troverà senza ammortizzatori sociali e senza lavoro. In questa situazione difficile, si discute della partita Juventus-Napoli con la Lega Calcio che fa di tutto per non fermare il campionato

Ci sono un migliaio di scuole in cui si sono già presentati casi di coronavirus e che hanno dovuto affrontare tutte le difficoltà che si presentano nell’assicurare il prosieguo delle lezioni. Nelle aziende continuano (non si sono mai fermati) i contagi e mentre i numeri cominciano a preoccupare le autorità sanitarie si stanno valutando le misure da prendere per contenere un’eventuale seconda ondata e per evitare al Paese il tracollo che potrebbe causare un nuovo lockdown. In tutto questo c’è la disperazione, tanta, tantissima, che sta prendendo persone che hanno avuto la vita sfasciata dalla pandemia e che ora che finiranno gli ammortizzatori sociali si ritrovano senza lavoro. Poi, volendo, ci sarebbe anche da discutere di come utilizzare i fondi europei per ricostruire: su quello si gioca la forma futura di Paese, mica bruscolini.

L’argomento più discusso ieri invece è stata la partita della Juventus contro il Napoli poiché la squadra campana ha scelto di non scendere in campo. La vicenda in sé è anche poco interessante: da una parte la Lega Calcio fa di tutto per non fermare il campionato e dall’altra il governo nella persona del ministro Speranza invece invece chiede di fermarsi. Speranza ha detto una frase semplice che viene difficile non condividere: «Si sta parlando troppo di calcio e troppo poco di scuola» ha detto il ministro ma la ridda di voci, pareri e notizie di ieri comunque è stato tutto sulla partita. Per la Lega, in pratica, la lettera inviata dall’Asl alla società napoletana non rientra tra quei “provvedimenti delle Autorità Statali o locali” che possono derogare al regolamento che disciplina la discesa in campo per le squadre con calciatori positivi.

Eppure si potrebbe anche raccontare che continuano a essere molte le persone che rimangono in quarantena (non giocano a pallone ma come tutti lavorano per vivere, eh) per decisione delle aziende sanitarie, sono molti quelli che ancora faticano a accedere al tampone che invece è iperdisponibile nel mondo del calcio con cadenza praticamente giornaliera.

Qualcuno dice “lo spettacolo deve continuare” e allora si potrebbe raccontare delle persone che lavorano nel mondo dello spettacolo dal vivo e che continuano a non entrare nel dibattito pubblico nonostante stiano facendo la fame e nonostante il futuro sia sempre più nero, legati a doppio mandato al possibile vaccino.

Insomma siamo sempre la solita vecchia calciocrazia che non riesce a comprendere i nervi tesi di un Paese che continua a essere sotto stress e che ha bisogno di messaggi concordanti e che non provochino isterismi. Non è solo una questione sportiva: è una questione di uguaglianza di paura di fronte a una malattia che magicamente sparisce in certi settori in nome del fatturato. Siamo sicuri che sia un buon messaggio, davvero? Siamo sicuri che questa nuova piega di sfidarsi sull’interpretazione delle regole sia salutare per compattare il Paese verso una rinnovata attenzione verso il virus?

Questa è la domanda.

Buon lunedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

L’ex senatrice leghista e quell’idea malsana di una mafia “coraggiosa e sensibile”

Sapete chi da sempre porta avanti la narrazione della mafia “buona” e che “aiuta i più deboli” e che “non fa male ai bambini” e tutta quella serie di cretinate che ogni tanto ci vengono propinate per romanticizzare un fenomeno che non è nient’altro che una montagna di merda? I mafiosi. Sono i mafiosi che si sono inventati la mafia “per bene” e sono i colletti bianchi che spesso nel corso della storia si sono ingegnati per farcela passare come qualcosa che sostituisse lo Stato in mancanza di Stato.

Perché la mafia, tutte le mafie, è per natura la contraddizione di una democrazia: nelle mafie conta l’appartenenza, nelle mafie l’essere soggiogati a qualcuno di più potente è una condizione naturale, nelle mafie si usano i bisogni per trarne profitto e per stringere nuove servita.

Una mafia coraggiosa e sensibile è un’idea talmente malsana che si potrebbe trovare trascritta solo nelle intercettazioni di qualche banda di picciotti che chiacchierano tra loro. Per questo la frase dell’ex parlamentare leghista che dal palco della manifestazione “Io sto con Salvini” è particolarmente grave ma è anche la sindone di un certo modo di intendere le cose. Ha detto Angela Maraventano: “La nostra mafia che ormai non ha più quella sensibilità e quel coraggio che aveva prima. Dove sono? Non esiste più. Perché noi la stiamo completamente eliminando… Perché nessuno ha più il coraggio di difendere il proprio territorio”.

E basterebbe solo soffermarsi sulle parole iniziali: quel “nostra mafia” che dovrebbe indicare una mafia di appartenenza e una mafia contraria, come se ci fossero mafie con cui si è avuto a che fare. E che l’assoggettamento di un intero territorio (che è quello che fanno le mafie) venga considerato un modello di difesa mostra in tutta la sua sconcertante naturalezza come l’autorità per Maraventano sia qualcosa che cuce le bocche, che uccide le persone e che controlla le economie.

Questa, segnatevelo, è la stessa che ha urlato contro il governo “abusivo” e contro “l’invasione del Paese”. Roba da pelle d’oca. Come tutti gli altri leghisti mentre interveniva dal palco Angela Maraventano indossava una maglietta con scritto “processate anche me” e dopo averla ascoltata viene da pensare che se esistesse il reato di favoreggiamento culturale alla mafia di sicuro ci sarebbe da istruire un processo. Chissà che ne pensano i famigliari delle vittime di mafia di una mafia “coraggiosa e sensibile”. Perché il prossimo comizio non lo fanno davanti a loro? E intanto continuiamo così, scivolando verso l’abisso.

Leggi anche: 1. Catania, ex senatrice shock sul palco di Salvini: “La vecchia mafia difendeva il nostro territorio” /2. Salvini e quei follower sospetti su Facebook: uno su 5 ha nome straniero e non risponde ai messaggi

L’articolo proviene da TPI.it qui

Sentimentalibri recensisce Disperanza

Sapete quanto mi piacciano le imperfezioni, le fragilità, le crepe che attraversano le persone e le cose, rendendole proprio quello che sono, perciò riconoscibili.

Quello che non sapevo nemmeno io è quanto avessi bisogno di leggere “Disperanza” di Giulio Cavalli, edito da Fandango Editore.

“Rivendichiamo il diritto di essere fragili”in una società che non lo consente, che giudica negativamente ogni arresto nella logica dell’andare avanti, superare, essere forti e vincenti, in un’ottica di positività e speranza. Ma questa speranza su cosa dovrebbe poggiare? La speranza, come ogni sentimento, non andrebbe nutrita? E se ciò non avviene ecco che si può perdere.

Giulio Cavalli ci parla di “Disperanza” che “Non è una disperazione. Disperazione è una manifestazione incontrollata di tristezza e di rabbia.. un sentimento insostenibile sul lungo periodo che porta alla rinascita o alla frantumazione. La disperanza invece, che anticamente della disperazione era un sintomo, ha un significato più tenue ma cronico, qualcosa che insopportabilmente diventa sopportabile per lunghi periodi.. “

In questo libro generoso, come lo sono a mio parere tutte le esperienze in cui condividiamo qualcosa di personale e importante, leggiamo l’esperienza dell’autore e dei tanti che si sono sentiti sollevati dalla domanda “quando e come avete perso la capacità di avere speranza?”, e che hanno avuto voglia di raccontarsi. C’è chi ha raccontato esperienze di disperanza legate al lavoro, all’amore, alla politica.

Ecco vorrei ringraziarli ad uno ad uno, Angela, Gianluca, Simonetta, Anna, e tutti quelli che si sono raccontati in questo libro, rispondendo all’appello dell’autore, e vorrei dire loro:”piacere di conoscerti, per quello che sei, per quello che sei diventato, con le ferite e le fragilità, soprattutto per quelle, perché per fortuna non siamo robot” . 

La mia tesi di laurea era incentrata sulla fiducia come capitale sociale, ci credevo veramente. Ora a distanza di più di dieci anni non ne sono più così sicura, però spero ancora nell’umanità, in un’umanità accomunata dalle fragilità e dalle pecche, che sappia accettarsi per quella che è, magari anche prevedendo che ci si possa un po’ prendere cura l’uno dell’altro, ed un libro come questo fa benissimo.

Leggerlo mi ha fatto benissimo.

Il pezzo originale è qui:

Elly Schlein a TPI: “Io segretario Pd? Sto bene dove sto. Sui migranti troppe ambiguità, ci vuole più coraggio”

Vicepresidente della Regione Emilia Romagna ed ex europarlamentare, Elly Schlein fondato le liste “Coraggiosa” hanno corso alle ultime elezioni amministrative con buoni risultati. TPI l’ha intervistata su Ue, politiche migratorie e futuro del governo.
L’Europa dice “superiamo gli accordi di Dublino” e poi esce con questa solidarietà invertita tra stati del Migration Pact. Che ne pensi?
È un errore strategico perché, al di là della dichiarazione del volere abolire il regolamento di Dublino, non risolve il nodo fondamentale che solo la riforma approvata dal parlamento nel 2017 risolveva: cioè un ricollocamento automatico per condividere equamente tra gli stati la responsabilità sull’esame delle richieste di asilo, valorizzando i legami delle persone. Quello è il tema. Mi sembra un piano deludente perché in questo modo mette da parte il lavoro fatto dal parlamento e approvato dalla maggioranza e che poteva essere utilizzato anche per convincere i governi dentro al consiglio a votare, anche a maggioranza qualificata. E invece ripropone l’idea molto vecchia della solidarietà flessibile. Un’operazione culturalmente molto pericolosa è mettere sullo stesso piano i ricollocamenti (e quindi la condivisione dell’accoglienza) e la sponsorizzazione dei rimpatri. Mi sembra che lasci le mani libere a quei governi che si sono dimostrati molto interessati alla solidarietà europea quando vuol dire fondi strutturali e assolutamente indisponibili quando si tratta di un’altra forma di responsabilità europea che è quella che già i trattati chiedono sull’asilo e sull’accoglienza. Mi sembra anche un errore strategico perché anziché farsi forte di una posizione già approvata dal parlamento si riparte da zero con una proposta che non risolve il tema della solidarietà obbligatoria.

L’Europa dice che è solidarietà obbligatoria perché comunque devi dare un contributo…
Cosa sceglieranno i paesi del blocco di Visegrad tra i ricollocamenti e tra il dare un po’ di soldi per fare i rimpatri o dare altro supporto operativo? C’è poi un’altra preoccupazione che sono le procedure accelerate alle frontiere che sembrerebbero aumentare il carico di lavoro ai paesi di confine come l’Italia e soprattutto non si capisce basate su cosa. La convenzione di Ginevra chiede un pieno esame individuale delle domande d’asilo e se tu fai una procedura accelerata – magari basata sul concetto molto discrezionale di paese terzo sicuro – rischi di costituire un filtro d’ingresso che nega il permesso di asilo a seconda del paese da cui provieni. Non mi sembra un passo avanti. Mi sembra un passo indietro. Perfino la commissione Junker, anche se con soglie altissime, faceva scattare un obbligo di ricollocamento per tutti i paesi europei. Al governo italiano spetta un difficile negoziato in cui trovare alleati sui ricollocamenti obbligatori.

In Italia qualche giorno fa hanno bloccato la Mare Jonio ed è la sesta nave ferma in porto per questioni burocratiche anche piuttosto discutibili. I decreti sicurezza rimangono sempre lì e Lamorgese ha parlato di possibili profili penali per le Ong. Come siamo messi qui da noi a criminalizzazione della solidarietà?
Evidentemente male. Mi sembra che ci sia ancora troppa ambiguità in relazione all’obbligo di ricerca e soccorso in mare e non mi sembra che si sia risolto il tema facendo la guerra a coloro che cercano di sopperire alle mancanze istituzionali. Non si sta discutendo di rimettere in mare un’operazione di ricerca e soccorso istituzionale come è stata Mare Nostrum, no, e a fronte di questo a maggior ragione è sbagliato criminalizzare chi si sta occupando di salvare vite in mare che è un obbligo giuridico e morale. Male.

Troppe ambiguità anche da parte di questa maggioranza. Spero possa risolverla in modo diverso anche con la modifica di questi decreti sicurezza che davvero stiamo aspettando da troppo tempo. Era il primo segnale necessario di discontinuità del governo Conte e ne stiamo parlando ancora dopo un anno. È importante che arrivi in fretta e che corregga non solo la criminalizzazione delle Ong ma anche gli altri profili gravissimi come quello che tendeva a smantellare l’unico sistema di buona accoglienza che è quello diffuso, che rifiuta la grande concentrazione di persone dove spariscono i diritti e spesso si infila l’ interesse economico, quello che privilegia le piccole soluzioni abitative distribuite sul territorio con adeguati servizi di inserimento nella società e con adeguati controlli da parte delle amministrazioni locali e con trasparenza sull’utilizzo dei fondi. Chi ha scritto i decreti sicurezza privilegiando le grandi concentrazioni rispetto all’accoglienza diffusa è proprio chi vorrebbe fare dell’accoglienza un business, calpestando i diritti. Con un po’ di coraggio in più questa maggioranza dovrebbe riscrivere complessivamente le leggi sull’immigrazione rimediando ai disastri delle destre che hanno prodotto irregolarità e ingiustizia, non certo inclusione e sicurezza per le comunità.

Molti ti vorrebbero segretaria del Pd ma le tue liste “Coraggiosa” hanno corso alle amministrative ottenendo ottimi risultati. Hai intenzione di continuare su questa linea o pensi che si possa pensare a un partito di centrosinistra che tenga insieme tutto?
Noi stiamo bene dove stiamo. Anzi, in una tornata che ha segnato dei risultati importanti ma non brillanti per le forze progressiste e la sinistra siamo rimasti positivamente sorpresi che le liste di coraggiosa abbiano avuto una crescita significativa. a Faenza abbiamo fatto il 7,22 per cento, a Vignola abbiamo avuto una crescita del 145 per cento rispetto alle regionali di 8 mesi fa. A Imola è andata bene, siamo cresciuti al 5 per cento. Quindi in una tornata in cui il centrosinistra si è difeso bene ma non c’è stata una crescita in valori assoluti, “Coraggiosa” è in controtendenza forse perché stiamo provando a dare una chiarezza di visione che in questo momento a livello nazionale manca. Stiamo cercando, dentro le coalizioni, di contribuire a fermare la destra ma qualificando la nostra proposta sui temi della lotta alle disuguaglianze e alla transizione ecologica, due temi su cui chi si sta mobilitando anche fuori dalla politica è stufo di titubanze e di ambiguità. Questo può essere anche uno spunto importante per le forze che formano questa maggioranza. Sui temi del clima, dell’immigrazione e del lavoro di qualità bisogna che si sblocchi questo governo. Su giustizia sociale e transizione ecologica questo governo può fare fronte comune e fare un balzo in avanti. “Coraggiosa” non ha mai avuto l’ambizione di essere un nuovo partito o una sigla in più, ha sempre avuto l’ambizione di scuotere l’intero campo delle forze ecologiste e progressiste pretendendo chiarezza nella visione condivisa di futuro. Unità sì ma non ha senso se non è accompagnata dalla coerenza di un progetto condiviso. Quindi per ora noi continuiamo a stare dove stiamo e continueremo su questa strada.

Come vedi il futuro del governo?
I risultati elettorali danno un respiro ampio ma non per stare fermi, guai a sedersi sui risultati. Quei risultati consegnano la responsabilità alle forze di governo di rilanciare in avanti. Abbiamo un’occasione straordinaria, le risorse in arrivo vanno utilizzate coinvolgendo i territori e le parti sociali, non è un sfida di governo, è una sfida che riguarda il paese. Quelle risorse ci danno l’occasione di ricostruire il paese su basi nuove, possiamo risolvere alcuni ritardi accumulati nei decenni.
Quali sono le priorità?
Transizione ecologica, su cui bisogna investire il 37 per cento delle risorse del Recovery Fund, la trasformazione digitale, su cui bisogna investire il 20 per cento e la coesione sociale. Le priorità indicate dalla commissione europea centrano proprio la congiunzione tra lotta alle diseguaglianze e transizione ecologica che sono i temi su cui insistiamo da tempo. Se il governo avrà la capacità di progettare il nuovo e non semplicemente aprire cassetti polverosi per accontentare qualcuno, si potranno spendere bene. Nei vecchi cassetti ci sono progetti scritti troppi anni fa per riuscire a interpretare i cambiamenti che servono. Io credo che la tenuta di questo governo si misurerà se le forze che lo compongono, piuttosto che continuare a distinguersi, proveranno a lavorare concretamente sui temi che li uniscono. E questi sono i temi su cui possono provare a fare un passo avanti insieme.

Transizione ecologica significa investire su un nuovo modo di spostarsi, una mobilità dolce e sostenibile puntando su ferro, intermodalità e ciclabili, vuol dire creare occupazione di qualità nelle rinnovabili, nell’efficientamento energetico degli edifici e nella prevenzione del dissesto, perché l’unica grande opera che serve al paese è la cura del territorio così colpito dai cambiamenti climatici. E poi investire sulla trasformazione digitale per rimediare i ritardi enormi che abbiamo a partire dalle pubbliche amministrazioni, ma vuol dire riuscire a governare anche processi di innovazione tecnologica per metterli al servizio delle persone, perché non governati hanno prodotto un’enorme concentrazione di ricchezze e saperi. Si dovrà assicurare pari accesso alla rete per chiudere i divari territoriali, e per il privato investire nel digitale vuol dire innovare e contribuire all’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese.

Coesione sociale significa anche fare un enorme investimento sulla scuola, sul capitale umano, sulla formazione a partire dagli asili nido. Investire sui nidi vuol dire rendere più solidi i percorsi educativi contrastando povertà educative e dispersione scolastica, ma significa anche fare politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro indispensabili per colmare il divario occupazionale delle donne, favorendo una migliore distribuzione del carico di cura. Dopo la crisi del 2008, le ricette hanno reso il lavoro più precario, specie per donne e giovani. Oggi dobbiamo evitare quegli errori e ricostruire su basi diverse. Non abbiamo più scuse, le risorse ci sono.

Leggi anche: TPI intervista Elly Schlein, campionessa di preferenze in Emilia-Romagna: “Vi racconto la nuova sinistra che può battere Salvini”

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Dal Conte 1 al 2 la criminalizzazione della solidarietà delle Ong continua a gonfie vele…

Ci sono molti modi per boicottare i salvataggi in mare. Si può fare smargiassando e usandolo come tema di propaganda politica, come fece a suo tempo il ministro dell’interno Salvini che ancora continua sulla stessa lunghezza d’onda ma si può fare anche sotto traccia, in un modo perfino più subdolo, agitando la clava della burocrazia al posto della clava della paura ma ottenendo il medesimo effetto. Nel secondo caso si deve avere anche un bel pezzo del mondo dell’informazione che accetti di farti passare per il buono, perfino per l’avversario politico delle politiche di Salvini e bisogna contare su una buona dosa di indifferenza cosicché i fatti vengano taciuti, tenuti sotto traccia, sminuiti.

Siamo al governo Conte bis, quello che aveva promesso discontinuità con il governo giallo verde proprio sul tema dei diritti umani dell’immigrazione e siamo ancora qui, più di un anno dopo, a osservare un governo che mantiene le stesse politiche (la mancata abolizione dei decreti sicurezza di Salvini di fatto non ha spostato di una virgola le regole, nonostante le tante belle parole) e negli ultimi giorni stiamo assistendo a un’inquietante ascesa di casi di navi che vengono fermate. Badate bene: non ci sono urlati e minacce, no, no. Qui si tratta di carte bollate. Ma il risultato è lo stesso.

Ieri a rimanere bloccata è stata la Mare Jonio, la nave dell’Ong Mediterranea che ha ricevuto un diniego all’imbarco a bordo di due membri: un paramedico soccorritore e un esperto di ricerca e soccorso in mare del Rescue Team di Mediterranea Saving Humans. Secondo Donato Zito, comandante della Capitaneria, «i loro profili non hanno alcuna attinenza con la tipologia di servizio svolto dalla Mare Jonio». È un furbo escamotage di scartoffie: la Mare Jonio (come praticamente tutte le navi umanitarie) è registrata come mercantile con funzioni di cargo, monitoraggio e sorveglianza e il registro navale italiano le ha riconosciuto una notazione in classe come nave attrezzata per la ricerca e il soccorso. Tutto bene, quindi? No, perché la Guardia Costiera invece non riconosce quello status e ecco che la Capitaneria trova il ganglo per bloccare l’imbarco dei due tecnici. «Inoltre – si legge ancora nel provvedimento – l’imbarco dei soggetti sopra menzionati risulta in netto contrasto anche con le precedenti diffide notificate». Sì, perché dal 9 giugno a oggi sono ben quattro le diffide notificate. La Ong Mediterranea non ha dubbi: «Si tratta, evidentemente, di una mirata persecuzione amministrativa e giudiziaria che nasce da una precisa volontà politica del Governo…».

Qualche giorno fa la Capitaneria di Porto di Palermo ha deciso il fermo amministrativo della nave Sea Watch dopo ben 11 ore di accuratissima ispezione a bordo e uno dei motivi avanzati sarebbe stato «l’eccessivo numero di giubbotti di salvataggio a bordo». Anche allora le parole del responsabile affari umanitari di Medici Senza Frontiere Marco Bertotto fu chiaro: «Le autorità italiane – dichiarò – provano a fermare le organizzazioni umanitarie – che cercano solo di salvare vite in mare come richiesto dal diritto marittimo internazionale – mentre disattendono i loro stessi obblighi di soccorso, con l’assenso se non il pieno appoggio degli stati Europei».

Il fermo della Mare Jonio di ieri è il sesto fermo amministrativo negli ultimi cinque mesi da parte delle autorità italiane. Tutto questo mentre dall’inizio del 2020 quasi 8mila rifugiati e migranti sono stati intercettati in mare e riposatamente nelle prigioni libiche dalla Guardia costiera libica, quella che profumatamente paghiamo per fare il lavoro sporco. Ad agosto sono state dichiarate morte e disperse 111 persone, quasi 400 da inizio anno. In tutto questo la ministra Lamorgese nei giorni scorsi ha dichiarato che le sanzioni alle Ong potrebbero “diventare penali”. Tutto questo mentre l’Europa si arrabatta per costruire una solidarietà tra Stati, dimenticandosi delle persone, con il Migration Pact.

Intanto quei torturatori che si fanno chiamare Guardia costiera libica continuano indisturbati il loro lavoro e i lager libici mietono vittime. E allora viene da chiedersi: ma siamo sicuri che il problema fosse solo Salvini? O semplicemente bisognava semplicemente imparare a fare il lavoro sporco in modo pulito, sottovoce, senza social? Una cosa è certa: la criminalizzazione della solidarietà continua a gonfie vele.

L’articolo Dal Conte 1 al 2 la criminalizzazione della solidarietà delle Ong continua a gonfie vele… proviene da Il Riformista.

Fonte

A proposito di Dana

Lo scorso 17 settembre all’alba a Bussoleno, in Valsusa, è stata arrestata nella sua abitazione Dana Lauriola attualmente nel carcere Le Vallette di Torino per scontare una pena detentiva di due anni, a seguito di una condanna definitiva per “violenza privata” e “interruzione aggravata di servizio di pubblica necessità” per un’azione dimostrativa pacifica realizzata il 3 marzo 2012 sull’autostrada Torino-Bardonecchia, all’altezza del casello di Avigliana, alla quale parteciparono attivisti del movimento No Tav, in protesta contro la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità.

Cosa ha fatto Dana? Era il 3 marzo 2012 e la tensione in Val di Susa era altissima per l’incidente occorso a un attivista, Luca Abbà, inseguito da un poliziotto e folgorato su un traliccio. Vengono organizzate manifestazioni di protesta e di solidarietà e tra queste circa 300 manifestanti si sono diretti a Avigliana, dice la sentenza del tribunale: «occupando l’area del casello, rendendo inefficienti gli impianti di videosorveglianza e bloccando con nastro adesivo le sbarre di pedaggio in modo da consentire il passaggio continuo dei veicoli in transito». Dana, dice sempre la sentenza «ponendosi alla testa dei manifestanti, con l’utilizzo di un megafono intimava agli automobilisti di transitare ai caselli senza pagare il pedaggio indicando le ragioni della protesta» (così la sentenza 28 marzo 2017 del Tribunale di Torino che ha quantificato in 777 euro il danno patrimoniale riportato dalla società concessionaria dell’autostrada per mancata riscossione dei pedaggi).

Dana Lauriola viene condannata a due anni di carcere. È incensurata per cui si presume che, avendo partecipato a una manifestazione pacifica, possa, come sempre succede, accedere a misure alternative. Qui si entra nell’assurdo. Le vengono negate misure alternative per la mancata presa di distanza di Dana dal Movimento No Tav (pur in un quadro di revisione critica «delle modalità con le quali porre in essere la lotta per le finalità indicate») e il luogo della sua abitazione, prossimo all’epicentro dell’opposizione alla linea ferroviaria Torino-Lione). In sostanza a Dana vengono contestati i suoi ideali politici e il luogo in cui abita. Una cosa mostruosa. Quando ho letto la sentenza mi sono detto che sicuramente i difensori della libertà, quelli che scrivono tutti i giorni sulle proteste in giro per il mondo, si sarebbero preoccupati anche di Dana. Niente.

Amnesty International dice: «Esprimere il proprio dissenso pacificamente non può essere punito con il carcere. L’arresto di Dana è emblematico del clima di criminalizzazione del diritto alla libertà d’espressione e di manifestazione non violenta, garantiti dalla Costituzione e da diversi meccanismi internazionali. È urgente che le autorità riconsiderino la richiesta di misure alternative alla detenzione e liberino immediatamente Dana Lauriola, arrestata ingiustamente per aver esercitato il suo diritto alla libera espressione e a manifestare pacificamente».

Non lo sentite tutto questo silenzio intorno?

Buon venerdì.

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Conoscersi e riconoscersi: Disperanza

Soffro di depressione da più di dieci anni. Va e torna. Ogni tanto scompare improvvisamente e ogni tanto arriva velenosa e sottile, non facendosi vedere, quando trova socchiusa qualche porta sul retro. Nei periodi di buio la disperanza è una compagna molle che mi si attacca addosso, qualcosa contro cui è impossibile combattere perché mi è quasi consolatorio averla.Subisco mattine che mi chiedono solo che sia presto sera, scrivendo per mestiere me la ritrovo negli articoli o nei libri come quel brutto alone che lasciano le tazzine di caffè sui fogli.Muoio tutti i giorni, mi accade preferibilmente di notte, comunque nel sonno, anche di pomeriggio se mi addormento davanti a un film stagnante o sotto un brutto libro che mi cade sulla faccia. Muoio liscio, senza intoppi e senza sorprese: è una morte puntuale e quotidiana come il pane che finisce, una morte ordinata come una fila di scolari in gita.Non è un incubo, l’ho chiamato incubo per anni ma è una definizione zoppa, non ci sono le parole per la morte nel sonno di cui muoio io, forse c’è una spiegazione medica ma gli psicologi che me ne parlano provano goffamente ad annacquarla e gli psichiatri l’affrontano proponendo qualche stordente chimico: dicono che, per non morire tutti i giorni, mi basterebbe semplicemente essere un po’ meno vivo tutti i giorni, volare più basso così la caduta non sarebbe più un tonfo, ma semplicemente un inciampo.Muoio rivivendo la morte come me la programmavo quando ero una crosta nel letto. In quel periodo morivo anche da sveglio, credetemi è una bella seccatura, ma allora l’avevo deciso io, la minaccia dinoccolata era uscita direttamente dalla porta scricchiolante della mia testa e poi mi si era incagliata sotto la lingua, non avevo il coraggio di dirmelo, figurarsi di dirlo agli altri, ed è andata a finire che l’ho raccontato solo quando mi è passata. Se mi è passata.La morte che mi fa morire tutti i giorni invece mi arriva nel sonno, anche nel semi-sonno quando immobile mi mimetizzo con il resto del mondo su cui sono seduto, mi monta in un incubo avviluppato sul tronco del mio dormire e poi mi riempie la bocca e gli occhi fino al momento in cui mi sveglio. Mi sveglio e mi sbrodola fuori, un rigetto.Così quando apro gli occhi, non è mica uno zero,come un normale ridestarsi, ma mi tocca ripartire da un conto negativo, da un fuorigiri che sbiella tutte le corde del cuore e ogni volta è la stessa storia: prima devo trovare uno spiffero per farci passare almeno un sorriso che basti per ossigenare un po’ di coscienza, poi le vertigini guardando indietro il buco in cui sono finito, poi il tentativo – goffo e patetico – di dirmi che è solo un incubo. Un incubo, non vorrai mica credere al panico degli incubi?, mi dico, e invece no perché l’incubo è un incubo ma il panico è realissimo, poi mi ripeto che sarà il caso, sarà un caso, i brutti sogni succedono e ce lo insegnano fin da piccoli, ma un caso che accade tutti i giorni è un accidente quotidiano e un accidente quotidiano è una regola che non si ha il coraggio di riconoscere.Poi allora me la gioco sulla consuetudine, dovrei essere abituato no?, certo che sì, ma figurati se puoi abituarti a morire tutti i giorni, siamo stati fatti per morire una volta sola, una morte più o meno riuscita e teatrale, magari con la paura di morire tutta la vita, ma morire tutti i giorni è contro natura non c’è sofismo che funzioni, poi mi osservo sparpagliato in giro e mi ricucio i brandelli, sono una bambola di tessuti diversi recuperati con un po’ di fortuna, ogni volta ho un pezzo preso da qualche morte precedente e infine ricomincio a scalarmi dai piedi fino alla punta del naso per tornarmi a galla. Un capodanno pestifero e quotidiano.Mi proteggo odiando tutti gli altri e odiandomi per il tanto odio. Solo dopo comincio a riconoscere quelli vicini. Per l’amicizia ci vuole una ventina di minuti. Per gli amori almeno un’ora. Cagionevole, reimparo a camminare, leggere, grattarmi, parlare, mangiare, ascoltare. Fidarmi di nuovo non sempre mi riesce. Sono un mostro zoppo, sopportabile solo nelle punte di questa curva che disegna il mio tempo e che ha i picchi nel punto più alto della ripresa prima di addormentarmi di nuovo e ha il suo punto più basso nella bocca impastata a fine torpore.Muoio tutti i giorni. Non è nemmeno troppo male. Basta farci l’abitudine e non dirlo a nessuno. Finché funziona. Faccio i conti con la speranza da tempo, con la speranza di non volermi più fare male e con la sensazione futile di essere un caso raro seppur nella bruttezza.Il primo passo per uscirne è riconoscersi non solo. Non è questione di compagnia intesa come comunità ma è la compagnia della comunanza: c’è un mondo che striscia in fondo alla brace tiepida del quotidiano che ha le stesse ferite, gli stessi segni e li indossa nascondendoli. Mostrarli, conoscersi e soprattutto riconoscersi è il primo bivio da imboccare con cura.
(Fandango Libri ha pubblicato un estratto del mio libro #Disperanza)


Qui: http://www.fandangolibri.it/2020/09/24/conoscersi-e-riconoscersi-disperanza/

Solidali a respingere

C’era grande attesa per il il nuovo Patto europeo per le migrazioni e l’asilo, il Migration pact che ieri Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione europea, ha presentato in pompa magna. C’era anche molta attesa visto che proprio la presidente nei giorni scorsi aveva annunciato il superamento del Regolamento di Dublino che da tempo rende iniquo l’approccio degli Stati europei nei confronti delle migrazioni.

La presidente ha parlato di “un nuovo inizio” (che è una frase che qui in Italia risuona con l’odore stantio dei decreti sicurezza che continuano a rimanere in vigore) parlando di “solidarietà europea”. In cosa consiste?

Rimane il principio del Paese di primo ingresso che dovrà svolgere tutte le pratiche burocratiche e sanitarie. Dice l’Europa che però nel giro di pochi giorni saranno prese “veloci decisioni di asilo e di rimpatrio”, con l’intento di velocizzare l’esame delle domande d’asilo. Diventa difficile pensare che la ricerca di rapidità non comprima ulteriormente i diritti che già spesso vengono calpestati. Ma tant’è.

E allora dov’è la solidarietà? È una solidarietà al contrario, la solita, dell’Europa che si chiude. Il vicepresidente della Commissione, Schinas, ha ripetuto più volte la definizione di “sponsorship sui rimpatri”. Spiega Schinas: «La nuova idea di sponsorizzazione dei rimpatri servirà a riequilibrare interessi concorrenti: non tutti gli Stati membri accetteranno la ricollocazione dei migranti con questo sistema offriamo un’alternativa percorribile: se non si decide di accogliere si può aiutare nel rimpatrio». In sostanza: se un Paese non vuole accogliere deve aiutare gli altri a rimpatriare. Una nuova solidarietà europea che li vede tutti uniti a respingere. Il piano è sempre lo stesso: solidali tra Stati a contenere gli arrivi e ancora più perfomanti nei respingimenti. I “ricollocamenti”, quelli che dovevano essere “automatici” dopo gli accordi di Malta e che sono rimasti lettera morta, continuano a rimanere un’utopia.

E un programma di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo? Niente. L’apertura di canali umanitari (e legali)? Niente. Interrompere la criminale cooperazione con la Libia? Niente. Collocamenti automatici? Niente. Sanzioni? Niente.

Siamo alle solite: una decisione a respiro cortissimo e una solidarietà che no, non ce la fa proprio a guardare a quelli che vengono dal mare.

Buon giovedì.

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