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buon lavoro

La disperazione è un fiume

Fiume Adda, nei pressi di Sondrio. C’è questa storia che è un romanzo da tenere sullo scaffale per tutto quello che ci racconta, una storia che sfugge ai giornali ma che è una fotografia, densissima, di come si fa piccolo l’uomo di fronte al dolore e di come manchino perfino le parole per raccontarlo.

Il primo settembre scorso sul quel tratto di fiume è annegata Hafsa, una ragazzina di quindici anni che stava attraversando il fiume per raggiungere una spiaggetta a nuoto insieme a alcuni amici. Le ricerche delle forze dell’ordine e dei vigili del fuoco si sono concluse da giorni, niente di fatto, nessun corpo è stato trovato. Chissà dov’è finito, con questa prepotenza del fiume, raccontano quelli che qui ci abitano da generazioni e che conoscono bene i pericoli di quell’acqua così infida. Hanno perfino svuotato il bacino di Ardenno ma della ragazza non c’è alcuna traccia.

Il padre di Hafsa quel maledetto primo settembre era in Marocco e da quando è tornato è tutti giorni lì, in riva al fiume. Arriva con la sua auto, parcheggia e cammina per ore, sul bordo e nell’acqua. L’immagine di lui che cammina controcorrente con l’acqua che gli arriva alla vita è la fotografia della disperanza che cerca sollievo anche solo decidendo di non arrendersi, perfino di fronte all’ineluttabile. È la sindone di un genitore che torna tutti i giorni a fare i conti con il suo dolore.

“Ho contattato i carabinieri per dire loro che io continuo a cercarla” ha detto il papà a La Provincia di Sondrio. “Devo ringraziare i ricercatori, che sicuramente hanno fatto un buon lavoro, ma non sono riusciti a trovare mia figlia. E io non posso smettere di cercarla. Mi sto dando da fare per trovarla e spero che ci sia qualcuno che con buona volontà voglia mettersi a disposizione per aiutarmi. Io mi avvicino al fiume, a volte ci entro anche, rimanendo vicino alla riva. So nuotare bene e non voglio correre rischi, ma spero di trovare Hafsa, che magari è incagliata da qualche parte. O spero di essere lì quando il fiume la restituirà. Non posso rimanere a casa ad aspettare”.

Si tuffa ogni giorno, nel suo dolore.

Buon lunedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Caro Fausto e caro Iaio

funeralifaustoeiaioCaro Fausto e caro Iaio,
oggi è ancora via Mancinelli come l’anno scorso e l’anno prossimo e domani è anche la festa del papà: e sono trentuno anni che la festa del papà è un pensiero così tagliente e così tra la pelle che suona di metallo come uno sparo.  E sarà che con via Mancinelli mi viene sempre in mente mia nonna che mi diceva dell’uomo nero: non dire parolacce che arriva l’uomo nero, non parlare con i bambini negri che arriva l’uomo nero, non sperare ad alta voce che arriva l’uomo nero, non mangiare con le mani che arriva l’uomo nero, non chiedere spiegazioni che arriva l’uomo nero. Dalla mattina alla sera, tutti i santi giorni e dopo anche quelli laici, un uomo nero come edera mi si arrampicava sulle scarpe. Che avrò avuto sette o otto anni non di più, quel giorno laico che mi è venuto il dubbio “ma non ha niente di meglio da fare quest’uomo nero?”. Sono passati trent’anni, caro Fausto e caro Iaio, per capire che è stipendiato: l’uomo nero. È un buon lavoro: pulito, rispettato, con trasferte interessanti e che non sente mai la crisi. Anzi, nei periodi di recessione o nervosismo generale ne assumono anche di nuovi; me lo immagino l’annuncio “cercasi, per lavoro di distrazione, uomo nero automunito con onorevoli amicizie e precedente esperienza di domatore dell’opinione pubblica”. E ogni diciotto marzo andranno a ritirare la pensione nell’ufficio generale: la pensione morale delle gomme di stato.
Caro Fausto e caro Iaio oggi gli uomini neri sono diventati grandi, hanno pure cambiato nome: si chiamano neofascisti. Perché sono piccoli, neri, attaccati sulla pelle e se te ne accorgi sotto la doccia non riesci più ad evitare di incaponirti ogni mattina. Dice mia nonna che l’unica soluzione è il laser, come in Guerre Stellari, e poi comincia a ridere con la faccia ovale di quelle risate che sudano di malinconia. Di quel sorriso che hanno i nonni che hanno capito che gli hanno mentito. E tardi, l’hanno capito, troppo tardi. E ridono ovali mentre gli si sbriciola la fiducia nella memoria.
Caro Fausto e caro Iaio, magari tra trent’anni in via Mancinelli non riusciamo nemmeno più a montarci un palco: perché la sotterrano per farla diventare una fermata della linea 7 del metro, oppure perché ci mettono uno di quei parchi con gli scivoli dove tutti in costume a 5 euro si fanno il viaggio di nozze in piazzale Corvetto, oppure perché Letizia ci ha piantato un capannone espositivo di bovini ad idrogeno per l’Expo. Ma di questo non c’è mica da preoccuparsi Fausto e Iaio perché mentre marcisce questa di via Mancinelli in giro per l’Italia ne hanno seminate un sacco: c’è una via Mancinelli ogni volta che ci  vendono alle bancarelle la memoria nuova, quella Ikea, che ti lascia credere la puoi svitare ed avvitare. La memoria bomboniera, che per tenerla bella non la devi mai usare. C’è una via Mancinelli ogni volta che l’apologia diventa un fregio, condannato, rivendicato, impunito, interrogato e poi archiviato. C’è una via Mancinelli ogni volta che un partito da davanti è in cravatta e da dietro è un tombino: a raccogliere i voti di scolo che alla conta contano come gli altri. C’è una via Mancinelli ogni volta che un ragazzo, diciotto anni o poco meno, che si chiama Aldovrandi o poco meno, ogni volta che un ragazzo cammina verso casa, con il tatto del suo letto, e inciampa morto ritrovato al mattino. C’è una via Mancinelli ogni volta che nel titolo del giornale l’indiziato inizia con un colore, il suo stato e poi nell’occhiello (se ci sta) l’iniziale del suo nome. C’è una via Mancinelli ogni volta che arriva il maggiordomo, con il borotalco sul colletto e i guanti in pizzo, con l’odore rassicurante della sua targa di ministro, e sul vassoio anche per questo natale la memoria in scatola. C’è una via Mancinelli su tutta Milano, lungo la schiena, che vi dico che oggi, caro Fausto e caro Iaio, oggi per guardare in faccia i padri di eroina o cocaina come non dovevate fare voi, non ci si ferma più a Lambrate: è una riga lunga, una striscia a forme di strade che dall’aereo sembrano una tangenziale.

Ci volevano convincere che qui è una strada chiusa ma la memoria è liquida: passa tra le scarpe, sotto le porte, dentro i calzini, e quando si incontra con il calore, il calore carne-pelo-pelle, quando evapora nella dignità, la memoria poi succede che sbriciola la storia. Ed è una memoria giovane, bella, sempre nel pieno della sua verginità.
Non prendetevela, caro Fausto e caro Iaio, è una memoria viva, a volte sembra che si caglia ma la nostra memoria, caro Fausto e caro Iaio, ha la scadenza che è una cosa lontana.

scritta e recitata in via Mancinelli il 18 marzo 2009 in occasione dell’anniversario