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L’agente sopravvissuto a Capaci: «Hanno distrutto un mondo»

di Paolo Borrometi
Per distruggere una persona hanno distrutto un mondo. Ricordo che Falcone scendendo dall’aereo aveva in mano una valigetta, ma di quella valigetta non si parla mai e non verra’ piu’ trovata. Lui era solito tornare con quella valigetta, di cui fara’ menzione anche l’autista giudiziario, Costanza. Dove e’ finita? Che cosa aveva dentro? Sarebbe giusto rispondere anche a questi interrogativi”. A parlare con Paolo Borrometi per l’AGI è Angelo Corbo, uno dei tre poliziotti sopravvissuti alla strage di Capaci, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.

Angelo Corbo ricorda quel 23 maggio come “una giornata splendida. La classica giornata di una terra baciata dal sole e cullata dal mare. Quel giorno ero euforico. Avevo giocato al Totocalcio e avevo detto ad Antonio Montinaro, che mi chiedeva il perche’ della mia insolita euforia, che ero sicuro di fare il 13 che avrebbe cambiato la mia vita. Questa affermazione mi pesa ancora oggi, mi pesera’ finche’ la morte non mi chiamera’”.

Giovanni Falcone con la moglie, la dottoressa Morvillo, scese dall’aereo e si mise alla guida della croma, con l’autista giudiziario, Giuseppe Costanza, seduto dietro. Noi pensavamo gia’ alla giornata dell’indomani. All’improvviso, pero’, cambiò tutto. Ricordo le parole del caposcorta di quel giorno,Gaspare Cervello, che disse ‘cazzo, perchè rallenta cosi’ tanto?’. Poi sentii un fortissimo boato, la sensazione di volare e sbattere all’interno della croma. E massi, tanti massi, che ci cadevano addosso. Scendemmo subito dalla macchina – racconta Angelo Corbo – e davanti a noi quella che doveva essere l’autostrada era diventata un paesaggio lunare.

Quell’aria splendida, celeste, di quella giornata era diventata marrone. Vedevo il mio sangue che colava e all’improvviso la macchina di Falcone a metà. Ci avvicinammo a quella macchina e, insanguinati e con diverse fratture (io il naso rotto, il collega il braccio), riprendemmo il nostro lavoro: proteggere il giudice Falcone. Pur con la consapevolezza che non potevamo piu’ difendere nessuno, per le condizioni in cui ci trovavamo. Sapevamo che loro non avrebbero lasciato incompiuta l’opera, ci aspettavamo che scendessero in campo per finirci. Falcone era ancora vivo, ricorderò per sempre che si girò verso di noi e ci guardò con gli occhi imploranti. Noi eravamo li’, non riuscivamo ad aprire la macchina, così ci rimase solo di fare scudo”. Corbo sapeva sin da giovane quanto la mafia fosse feroce, lo capi’ quando il 7 ottobre 1986 Claudio Domino, suo compagno di giochi, “venne freddato con un colpo alla testa, alla tenera eta’ di 11 anni”. Ed e’ anche per questo motivo che Angelo Corbo decise di entrare in Polizia. “Dopo due anni, nel 1990, venni chiamato dal capo della Mobile, La Barbera, mi disse che dovevo far parte della scorta di Falcone per una ventina di giorni. Da allora passarono quasi tre anni fino a quelle 17:58 del maledetto 23 maggio 1993”.

Corbo lascia scorrere i suoi dolorosi ricordi e racconta che da quel giorno sono stati diversi i tentativi di diminuire il livello di sicurezza del giudice e della sua scorta: “All’inizio avevamo a disposizione 21 uomini, fucili a pompa, auto blindate, radio specializzate e un elicottero che ci sorvolava sulla testa, ci ritrovammo nel ’92 con appena 12 uomini”. Inoltre “a volte ci levavano le pettorine e spesso anche le macchine blindate”. “Avevo la consapevolezza di essere impreparato, non avevo fatto nessun corso scorte ma avevo l’orgoglio di scortare Falcone”. Il lavoro con il giudice, rivela Corbo all’AGI, “era molto difficile. Stavamo con lui 20 ore al giorno, perchè lavorava dalle 7 del mattino alle 10 di sera. Non permetteva un rapporto di amicizia fra lui e noi. Era una persona meravigliosamente professionale e pretendeva un’enorme professionalità da noi che lo dovevamo proteggere”.

Fra i ricordi piu’ belli per il poliziotto c’e’ l’intesa fra Falcone e la moglie. “In quei due anni e mezzo ricordo il loro rapporto come dolcissimo. Ricordo i loro sorrisi, la loro complicità, erano una coppia molto affiatata, sembravano un’unica persona e sono sicuro che, come hanno vissuto insieme, avrebbero voluto rimanere insieme anche nella morte. Diciamocelo, separarli oggi è stata una bastardata”.

Corbo prosegue con amarezza il racconto di un sopravvissuto, dando la sensazione che si senta addosso la responsabilita’ del non essere morto, anche lui, quel 23 maggio a Capaci. “L’essere sopravvissuti è stata una colpa. Sappiamo tutti quanti che per lo Stato fa più piacere che, in casi del genere, non ci siano sopravvissuti, testimoni. Sembra quasi che lo Stato e le istituzioni vogliano nascondere di aver sbagliato, perchè se noi siamo rimasti vivi hanno sbagliato. Il problema, comunque, è che noi ci sentiamo in colpa perchè siamo vivi, mentre i nostri colleghi e la persona che dovevamo proteggere sono morti”. Da allora per loro, sopravvissuti, solo “dimenticanze”. “Mai invitati e anche quest’anno, a 25 anni da Capaci, nessuno di noi ha ricevuto una telefonata per chiederci di partecipare a quelle che definiamo le ‘Falconiadi’, delle vere e proprie sfilate”.

Angelo Corbo non è tenero neanche con Maria Falcone, sorella di Giovanni: “Di noi non le è mai fregato nulla. Non si è mai degnata di considerarci, e dire che siamo state le ultime persone che hanno visto in vita il fratello. E’ giusto che lei faccia di tutto per ricordare il fratello, ma dovremmo avere sempre presente che all’epoca fu abbandonato da tutti. Non potrò mai scordare come in quegli anni il dottor Falcone venne denigrato e ostacolato in tutto, perchè era diventato un personaggio scomodo: veniva trattato come una pezza da piedi. Oggi, invece, viene celebrato da persone che amici suoi sicuramente non lo erano e anche lei, Maria Falconespiega Corbo -, oggi ha accanto persone che tutto erano fuorche’ amici del dottore”.

Angelo Corbo oggi è “molto diverso dalle 17:58 di quel 23 maggio. Ho avuto bisogno, ma nessuno ha mai alzato un dito, nessuno mi ha mai aiutato”. Infine un sogno, lo stesso di padre in figlio: “Manuel, mio figlio, sogna di diventare poliziotto, nonostante tutto. Io, da padre, sono orgoglioso – conclude -, ma purtroppo sta prendendo molte porte in faccia: sta pagando l’essere figlio mio”.

Tratto da: laspia.it

Colloquio per Ryanair: racconto semiserio di una giornata di ordinaria precarietà

(Sandro Gianni racconta la sua esperienza per Clap, qui)

A giudicare dagli annunci nei portali per la ricerca di lavoro, sembra che sul mercato esistano solo tre tipi di occupazioni disponibili: sistemista Java, dialogatore e operatore call-center. Se non conosci Java e hai zero voglia di vendere il tuo tempo per delle chiacchiere con degli sconosciuti, al telefono o dal vivo, la ricerca pare senza possibili sbocchi. Aggiungi che la percentuale di risposta ai curriculum inviati rasenta lo zero e che la laurea e/o i master di cui sei in possesso non sono particolarmente quotati nella borsa degli skills… il quadro si complica parecchio.

Perciò, quando qualcuno ha finalmente risposto alla mia “iscrizione a un’offerta di lavoro” ho provato una strana sensazione, di affetto quasi. Ho pensato di dover ricambiare, presentandomi al colloquio. Ho detto “qualcuno”, ma in realtà avrei dovuto dire “qualcosa”: un algoritmo, un dispositivo automatico di risposta alle mail, un bot del portale. Non posso saperlo, ma l’invito a comparire in un hotel nella zona di Tor Vergata è arrivato pochi millesimi di secondo dopo l’invio della mia iscrizione. Ciò esclude la mediazione umana e, dunque, una seppur minima selezione del curriculum, che avrebbe potuto equivalere a qualche decimale in più nella stima probabilistica di un’assunzione .

Il lavoro non era proprio quello dei miei sogni, ma provavo a vederci delle sfumature positive: la possibilità di viaggiare, avere un contratto decente, ricevere uno stipendio non troppo basso. Ovviamente, mi sbagliavo.

Nell’atrio dell’hotel di lusso, nella periferia sud-est di Roma, una quarantina di ragazzi e ragazze tirati a lucido, con la barba fatta, il vestito e la cravatta siedono in silenzio. Tra loro, io. Alcuni si muovono sicuri nei completi eleganti, camminano come se nulla fosse, bevono il caffé senza bisogno di sistemarsi di continuo la giacca, muovono le mani sullo smartphone senza domandarsi perché la camicia faccia capolino solo da una delle due maniche. Altri sono impacciati, si toccano insistentemente la cravatta temendo che il nodo si sciolga, cercano delle tasche in cui infilare le mani senza trovarle, provano a controllare la continua fuoriuscita della camicia dalla giacca senza alcun successo. Evidentemente, non sono abituati a conciarsi così. Tra loro, sempre io. C’è anche un ragazzo che deve aver letto male le istruzioni per l’uso: si è presentato in jeans e camicia a quadrettoni, rossi e blu. È imbarazzato, ma resta. Sembra simpatico.

In sala nessuno fiata. Quasi che taller e vestiti abbiano trasmesso per metonimìa un certo dovere di contegno, di formalità. «Dicono che l’abito non fa il monaco, ma non è vero» – argomenta il Totò ladro vestito da carabiniere, nei Due marescialli – «Io a furia di indossare indegnamente questa divisa, marescia’… mi sento un po’ carabiniere».

Ci chiamano e andiamo tutti insieme nel seminterrato dell’albergo, in una sala conferenze. Eliminata la prima decina di candidati con un test di inglese da seconda media, la selezione entra nel vivo. O meglio, nel video. Proiettano una presentazione del lavoro, divisa per sezioni: informazioni tecniche sulle diverse mansioni; procedure di inizio; questioni retributive e contrattuali; possibilità di carriera; criteri di premialità; caratteristiche dell’azienda che offre il lavoro e dell’agenzia di recruitment che assume (due cose diverse: una è Ryan; l’altra una fusione tra Crewlink e Workforce International… sì, si chiama proprio così!). In questa seconda fase, si rivolgono a noi come fossimo già assunti. L’uomo sulla cinquantina, inglese o irlandese, responsabile del reclutamento, allude più volte a quanto staremmo bene con indosso le nuove divise da hostess e steward.

Dalle immagini del video e dagli interventi del selezionatore si capisce che ci sono soprattutto tre caratteristiche importanti per fare questo lavoro: essere disponibili alla relocation immediata; parlare inglese; essere flessibili-e-sorridenti (insieme). Le immagini mostrano giovani di tutti i colori, che sembrano felici e raccontano la loro esperienza con Ryan di fronte a un bastone per i selfie. In particolare, insistono su quanto sia utile e divertente il corso di formazione per diventare personale di bordo. Si nuota, si spengono incendi, si salvano bambolotti, si incontrano persone. «You grow up like a man, not just cabin crew».

Ma è più avanti che le orecchie dei candidati si aguzzano: quando si inizia a entrare nel dettaglio del salario e dei tempi di lavoro. La retribuzione è organizzata secondo una serie di premi e possibili punizioni, un incrocio tra un videogioco e una raccolta punti del supermercato. «Your performance is continually monitored and assessed». Monitorare e valutare. Punire solo come ultima ratio. Soprattutto premiare: per far rispettare le regole, per aumentare la produttività, per migliorare le prestazioni. I like dei clienti danno diritto a delle ricompense: monetarie, ma soprattutto relazionali. Ad esempio, la penna nel taschino è indice di un certo numero di apprezzamenti. Costituisce dunque, tra i colleghi e nell’azienda, l’indicatore di uno status particolare.

Si viene pagati un po’ in base all’orario e un po’ a cottimo. Nel senso: un fisso non esiste; sono retribuite solo le ore di volo; si percepisce il 10% su ogni prodotto venduto (…adesso lo capite il perchè di tanto rumore?). Il contratto è registrato in Irlanda o UK. Si hanno delle agevolazioni sui viaggi in aereo.

Il salario mensile dovrebbe oscillare tra 900 e 1.400 euro lordi, in base al luogo di ricollocamento. «We try to keep the wages homogeneous among our workers». Bella l’uguaglianza, quando non schiaccia tutti verso il basso… penso io. Viene poi fatto cenno a un periodo annuale in cui non si lavora e non si ricevono soldi: da uno a tre mesi. Ma il selezionatore ci assicura che questa pausa non supera (quasi) mai i 30 giorni.

Fino a qui, niente di eccezionale. Ma il rapporto premi-punizioni è più complesso e configura per intero il sistema di retribuzione. Ovviamente, se i diritti diventano premi e i doveri debiti, tutto cambia. Non si parla di tredicesima e/o quattordcesima, ma di bonus, che si ricevono solo il primo anno. 300 euro il primo mese di lavoro, altrettanti il secondo, il doppio il sesto. Chi va via prima della conclusione dei primi 12 mesi, però, deve restituire questi bonus. Inoltre, la divisa (quella bella di cui sopra) costituisce un costo esternalizzato al lavoratore: il primo anno sono 30 euro al mese scalati direttamente dalla busta paga; successivamente pare si ricevano dei soldi, ma non si capisce bene per cosa, se per lavarla o non perderla. Per ultimo, il famoso corso di formazione per diventare hostess o steward si rivela qualcosa di più di un parco giochi in cui fare festini con altri esponenti multikulti della generazione Erasmus. Principalmente, si rivela un’enorme spesa. Se all’inizio era stato comunicato che, in via eccezionale, le registration fees del corso erano dimezzate a 250 euro, è alla fine che viene fuori il vero prezzo da pagare. Ci sono due modalità differenti: 2.649 euro se paghi prima dell’inizio e tutto in un colpo; 3.249 se decidi di farti scalare il costo dallo stipendio del primo anno (299 euro dal secondo al decimo mese, 250 gli ultimi due).

Si aprono le domande. Dopo alcune irrilevanti su sciocchezze burocratiche, alzo la mano. «Ci avete parlato di un massimo di ore di volo a settimana, ma mai delle ore totali di lavoro. Quante sono?», chiedo. «Voi siete pagati in base alle block hours, cioé le ore calcolate dalla chiusura delle porte prima del decollo, all’apertura dopo l’atterraggio. I tempi di preparazione dell’aereo, prima e dopo il volo, possono variare». Varieranno pure, ma di sicuro non vengono pagati, nonostante siano tempi di lavoro.

Alza la mano quello dietro di me. «Scusi la domanda, ma ho bisogno di fare dei conti. Diciamo che uno stipendio per una destinazione non troppo cara è di 1.000 euro. Ve ne devo restituire 330 al mese tra corso e divisa. Ne rimangono 670. Dovrò prendere una stanza in affitto, diciamo 300 euro. Ne rimangono 370. In più avrò bisogno di pagare un abbonamento ai mezzi per raggiungere l’aeroporto e coprire almeno le spese della casa anche nella pausa annuale in cui non si lavora. Diciamo che, se va bene, rimangono 300 euro. E non ho scalato le tasse, perché non so come si calcolano in Irlando o UK. Secondo lei, con questi soldi si può vivere?». Sbem.

Il selezionatore della società di recruitment, fino a quel momento cordiale e spiritoso, accusa il colpo. Deglutisce. Tossisce. Arrosisce. Si butta sulla fascia, prova un diversivo. «With this work you don’t get rich, but it’s in accordance with your capacity and affords your lifestyle». Alla fine, anche qui le nostre capacità valgono poco più di un pacchetto di sigarette al giorno. Chissà, invece, come ha calcolato il nostro stile di vita!

Finito il video, io e gli altri candidati usciamo e andiamo a mangiare insieme. Da come siamo vestiti, sembriamo un gruppo di giovani businessmen in carriera, lanciati alla conquista del mercato e pronti a scalare colossi finanziari. Invece siamo lì per un colloquio che, se va bene, ci farà guadagnare meno della persona che ci serve la pizza.

Comunque, i calcoli veloci del ragazzo che ha fatto la domanda dopo di me hanno sciolto l’iniziale freddezza tra i candidati. In molti hanno perso interesse per questo lavoro. Anche per questo, si scherza e si chiacchiera. Alcuni hanno appena finito la scuola superiore, altri l’università. Altri ancora hanno già diversi anni di precarietà e i capelli brizzolati. Tra loro…

Rimango fino all’intervista, per sport. Mi capita la collaboratrice del selezionatore. Legge il mio curriculum. Niente di eccezionale, però insomma… neanche da buttare. Tutti i titoli di studio con il massimo dei voti, laurea e due master, cinque lingue, numerose esperienze di lavoro materiale e immateriale, in Italia e all’estero. «Are you sure you want to do this work?», mi chiede. Bleffo: «Eeeeeh. Why not?». «Do you know people working for us?». «No». «So, what do you know about this work?». «What you told me today», rispondo. Lei arriccia il labbro inferiore e muove la testa dal basso verso l’alto e poi in senso inverso, fissandomi con gli occhi corrucciati. Ho l’impressione che stia pensando sardonicamente “devi essere proprio una volpe, tu!”.

Saluto, me ne vado. Sulla vespa faccio i conti: due caffé al bar dell’albergo = 3 euro; un pezzo di pizza e una bottiglia d’acqua = 4 e 50; giri vari alla ricerca di vestito, cravatta e scarpe e poi fino al colloquio = almeno 5 euro; stirare la camicia = 2 euro; stampare 7 fogli di curriculum dal cristiano-copto su via di Torpignattara, che sembra sapere quando non puoi dirgli di no = 2,10 euro. Barba e capelli costo zero, taglio autoprodotto in casa. Alla fine, non mi è andata nemmeno tanto male. Qualcuno è arrivato in treno da lontano, spendendo molto di più. Per l’ennesima offerta di lavoro precario e sottopagato.

Almeno una cosa l’ho capita: nella compagnia aerea, quel low che precede il cost non è riferito soltanto ai prezzi dei biglietti, ma anche al costo del lavoro.

Siamo stati Capaci solo vent’anni dopo

Ci abbiamo messo vent’anni a trovare il commando della strage di Capaci. Venti anni per avere il quadro di una delle stragi che ha disegnato la geografi sociale e politica di questo tempo. Ma siamo stati abbastanza curiosi in questi vent’anni? Noi, le istituzioni?

Le parole di Spatuzza:

“Ricordo che un mese e mezzo prima della strage di Capaci, Fifetto Cannella mi chiese di procurargli una macchina voluminosa, per recuperare delle cose. Ci recammo pertanto con l’autovettura di mio fratello nella piazza Sant’Erasmo di Palermo, dove incontrammo Peppe Barranca e Cosimo Lo Nigro, e dove avremmo dovuto incontrare Renzino Tinnirello, il quale però tardò ad arrivare. Ci recammo quindi a Porticello, ove trovammo un certo Cosimo, ed assieme a lui ci recammo su un peschereccio attraccato al molo, da dove recuperammo dei cilindri delle dimensioni di 50 centimetri per un metro legati con delle funi sulle paratie della barca. Al loro interno vi erano delle bombe”. Durante il tragitto verso Palermo, i mafiosi trovarono un posto di blocco dei carabinieri, ma non furono fermati. Così ricorda ancora Spatuzza: “Una volta arrivati a casa di mia madre, in cortile Castellaccio, scaricammo i bidoni all’interno di una casa diroccata di mia zia, che si trova a fianco”. Il giorno dopo, i “cilindri” furono spostati in un magazzino di Brancaccio: “Lì cominciammo la procedura – spiega il pentito – tagliando la lamiera dei cilindri con scalpello e martello ed estraendo il contenuto”. Ma quell’operazione era troppo rumorosa: “Mi resi conto che eravamo all’interno di un condominio, quel posto non era adatto al lavoro”, ricorda Spatuzza davanti ai magistrati di Caltanissetta. Così, l’esplosivo fu trasferito ancora: in un magazzino della zona industriale di Brancaccio dove aveva sede la ditta di trasporti “Val. Trans.”, lì Spatuzza lavorava come autista.

“L’esplosivo che macinavamo era solido, di colore tra giallo chiaro e panna. Lo macinavamo schiacciandolo con un mazzuolo, lo setacciavamo con lo scolapasta sino a portarlo allo stato di sabbia”. Quell’esplosivo prelevato a Porticello non bastò: “Ci recammo a prelevare altri due bidoni alla Cala, sempre legati a un peschereccio”, prosegue Spatuzza. Una parte di quella micidiale carica fu consegnata poi a Giuseppe Graviano per la strage di Capaci, una parte servì per la strage Borsellino.

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La trattativa, Mancino e il buco nero

Credo sia difficile raccontare cosa stiamo vivendo. E quanto tutto sia così sotto traccia e con un dolorosissimo silenzio intorno.

L’ultimo indagato nell’inchiesta sulla Trattativa tra Cosa Nostra e pezzi delle Stato è un membro di spicco delle istituzioni. L’ex presidente del Senato Nicola Mancino è infatti accusato dalla procura di Palermo di aver rilasciato false dichiarazioni durante le sue audizioni davanti ai magistrati. “Emergono evidentemente delle contraddizioni nelle cose dette, dai diversi esponenti delle istituzioni sentiti: quindi qualcuno mente. Ora è compito della procura e del tribunale capire come sono andate veramente le cose” aveva detto perentorio il sostituto procuratore Nino Matteo subito dopo l’audizione di Mancino davanti la quarta sezione penale di Palermo durante il processo contro gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu. Oggi proprio per Mancino è scattato l’avviso di garanzia per falsa testimonianza.

Ad inguaiare l’ex dirigente della Democrazia Cristiana sono state le varie discrepanze emerse durante i confronti con altri esponenti politici , come Vincenzo Scotti e Claudio Martelli, che come lui erano in carica nel periodo 1992 – 93, ovvero durante il governo guidato da Giuliano Amato. Mancino, Scotti e Martelli sono stati sentiti a più riprese dagli inquirenti palermitani ma i loro ricordi sulle dinamiche politiche dell’epoca sono apparsi in certi casi assolutamente inconciliabili. La discrepanza più evidente è emersa in merito all’avvicendamento tra Scotti e lo stesso Mancino alla guida del Ministero dell’Interno il 28 giugno del 1992.

L’articolo completo (da leggere, ritagliare, diffondere e dibattere) è qui.

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Chi ha ammazzato Falcone e Borsellino

Chi ha la vera responsabilita’ di quelle uccisioni, secondo Scarpinato? “Un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole e che affollano i migliori salotti: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei servizi segreti e della polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi apicali dell’economia e della finanza e molti altri”. “Tutte responsabilita’ penali certificate da sentenze definitive -rammenta ancora il procuratore generale di Caltanissetta- costate lacrime e sangue, e tuttavia rimosse da una retorica pubblica e da un sistema dei media che, tranne poche eccezioni, illumina a viva luce solo la faccia del pianeta mafioso abitata dalla mafia popolare, quella del racket e degli stupefacenti, elevando una parte a simbolo del tutto”. Frammenti di verita’, purtroppo, emergono “solo a distanza di decenni dagli eventi, dopo essere stati estratti con il forcipe delle indagini penali a imbarazzati e riottosi custodi di segreti consumatisi in quel ‘fuori scena’ della storia, da sempre bandito dalle cerimonie ufficiali”. Il sasso nello stagno plumbeo delle commemorazioni di Stato e’ tirato.

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