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circo dell’antimafia

Le parole (sante) di Gratteri: basta soldi alle associazioni antimafia

Non ha peli sulla lingua, Gratteri, e ogni volta che parla vale la pena tenere bene a mente ciò che dice:

Tabularasa-2014-Gratteri-5-360x240«Ai ragazzi nelle scuole faccio esempi, parlo della non convenienza a delinquere. Spiego cosa rischia un corriere della droga, cosa accade in carcere o cosa accade ai familiari. Ho scelto da tempo di andare negli istituti di pomeriggio e non di mattina perché le ore di lezione sono diminuite a causa dei progetti, in particolare quelli sulla legalità. Spesso si fa entrare nelle scuole gente improbabile, che nasce dal nulla inventandosi un profilo da persona che combatte la mafia, magari dopo aver fatto da maggiordomo a qualche magistrato, facendosi vedere con lui per un paio di mesi. Iniziando a girare per le scuole si intrufola, si inventa un mestiere e comincia a chiedere dei soldi. Da un po’ di anni dico: nelle scuole andiamo di pomeriggio. E ai politici, regionali, provinciali e comunali dico di non dare soldi alle associazioni antimafia: mettetevi in rete, create un fondo comune, fate dei protocolli con i provveditori agli studi e predisponete delle graduatorie degli insegnanti precari. Durante le ore pomeridiane fate in modo che si ricominci a parlare con i ragazzi, riaccompagnandoli nel mondo reale. Mi si dice che per far questo c’è bisogno di soldi. Ma i soldi ci sono, so di progetti costati 250.000 euro. Non è etico, non è morale, non è giusto. In nome di gente che è morta, che è stata uccisa, non è giusto che si spendano 250.000 euro per una manifestazione antimafia. Ogni cosa deve avere una proporzione, un limite, un senso. Immaginate con tali cifre quanti insegnanti precari avremmo potuto assumere. Dobbiamo cercare di essere più seri e più presenti e contestare queste cose. Personalmente mi sono rifiutato di partecipare a certi convegni e a certe manifestazioni antimafia perché avevo capito anni prima che c’era qualcosa che non andava. Mi piacerebbe che la gente interagisse di più con il potere politico. La vera lotta alla mafia passa dalla formazione dei ragazzini delle elementari e delle medie. La manifestazione antimafia va fatta, certo, ma deve essere spontanea e a costo zero: per camminare con una candela non mi servono 50.000 euro».

(fonte)

Va bene, bravi, i “professionisti dell’antimafia”. Ma poi?

Una riflessione di Gaetano Savatteri:

L’antimafia è morta. L’antimafia dei movimenti, delle associazioni di categoria, dei bollini e dei certificati, ma anche quella dei magistrati e della politica. L’antimafia, quella che abbiamo visto e conosciuta fino ad oggi, è definitivamente sepolta. Perché le ultime vicende – l’arresto di Roberto Helg per una mazzetta conclamata o l’indagine per mafia sul presidente della Confindustria siciliana Antonello Montante, per dichiarazioni di pentiti ancora tutte da chiarire e che potrebbero nascondere una manovra di delegittimazione – sanciscono in ogni caso e definitivamente la fine di un modello che per molto tempo, e fino all’altro ieri, è stato visto con favore e incoraggiato perché segno di una “rivoluzione” che metteva in prima linea la cosiddetta società civile.

Attilio Bolzoni su Repubblica, lo stesso giornale che ha sparato per primo la notizia dell’indagine su Montante, ha posto un interrogativo: “Forse è arrivato il momento di una riflessione su cos’è l’Antimafia e dove sta andando”. Ma probabilmente la domanda più corretta è un’altra: potrà esserci ancora un’antimafia? Peppino Di Lello, a lungo magistrato del pool antimafia di Palermo, quello di Falcone e Borsellino, scrive sul Manifesto che “i bollini, le autocertificazioni, gli elenchi incontrollati e incontrollabili degli antimafiosi doc sono ormai ciarpame e bisogna voltare pagina riappropriandosi di una qualche serietà nella scelta di esempi di antimafia vera, scelta fondata sulla prassi, sui comportamenti che incidono realmente in questa opera di contrasto”.

Di Lello, giustamente, attacca la retorica dell’antimafia, citando non a caso l’ormai storico articolo del 1987 di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Ma le ultime vicende e un sottile veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia (don Luigi Ciotti ha fornito qualche anticipazione: “Mi pare di cogliere, e poi non sono in grado di dire assolutamente altro, che fra pochi giorni avremo altre belle sorprese, che sono in arrivo, che ci fanno soffrire. Perché riguardano personaggi che hanno sempre riempito la bocca di legalità, di antimafia”) percuotono chi, per entusiasmo o per mestiere o, usiamo pure questa parola, per “professionismo”, si è iscritto negli ultimi anni nel fronte antimafia. Serpeggia il disorientamento tra quanti si chiedono: e adesso, infranti alcuni simboli dell’antimafia, non si rischia di veder naufragare il lavoro fatto in tanti anni, compresi i buoni esempi concreti realizzati?

L’indagine della Commissione parlamentare antimafia sull’antimafia, per individuare quando questa sia stata reale o di facciata – paradosso segnalato da Giuseppe Sottile sul Foglio – pone una questione centrale. Se molti movimenti, associazioni, progetti nelle scuole, iniziative si sono riempiti, nella migliore delle ipotesi, di un tot di vuota retorica e, nella peggiore, di piccoli o grandi interessi economici sotto forma di finanziamenti, privilegi, guadagni, chi dovrà stabilire da ora in poi la genuinità della natura antimafia?

La struttura dello Stato italiano, per oltre centosessant’anni, ha costruito soggetti e ruoli incaricati di definire e individuare le mafie, arrivando a darne nel 1982 perfino una definizione normativa con l’articolo 416bis del codice penale. Ma l’Italia non ha, e forse non poteva avere, strumenti per individuare con esattezza la natura antimafiosa di soggetti, singoli o plurali, se non in termini di opposizione: in parole semplici, era antimafioso chi combatteva la mafia. Con opere o parole.

Così, per lungo tempo, l’antimafia sociale – cioè quella non costituita da magistrati e poliziotti incaricati, per ragioni d’ufficio, dell’azione di contrasto e repressione – finiva per autodefinirsi. E’ bastata, per un lunghissimo periodo, la petizione di principio di dichiararsi antimafia per essere considerati tali. In un Paese che fino a una quarantina d’anni fa ancora sosteneva, spesso anche nelle sedi giudiziarie, che la mafia non esisteva, già il fatto stesso di dichiararne l’esistenza e di porsi in posizione alternativa a essa, era sufficiente per attribuirsi o vedersi attribuita la patente antimafia.

Se oggi questo non basta più, quale sarà il criterio futuro per definire la nuova antimafia? I fatti, i comportamenti e la prassi, dice Di Lello. Tutto ciò è facilmente verificabile, ad esempio, nell’attività delle associazioni antiracket che convincono i loro associati a testimoniare nei processi, li sorreggono, si costituiscono accanto a loro parte civile. Ma questo principio può valere per associazioni culturali, singoli di buona volontà, gruppi di opinione, insegnanti la cui unica forza risiede solo nella dichiarazione d’intenti?  E’ ovvio che laddove le parole non coincidano con i fatti (come nel caso della tangente che ha fatto finire in galera Helg), la contraddizione è talmente stridente che non ci sono dubbi. Ma anche in questo caso, è una dimostrazione al contrario: il fatto (cioè la mazzetta) mostra la non appartenenza di qualcuno al fronte autenticamente antimafioso. Ma quale può essere il fatto che, giorno dopo giorno, possa dimostrarne invece l’appartenenza?

Per Confindustria Sicilia, ad esempio, sembrava già rivoluzionario e significativo che un’associazione di categoria che per molto tempo aveva ignorato la mafia o ci aveva convissuto, con molti casi di imprenditori contigui o aderenti a Cosa Nostra, avviasse una inversione di rotta pubblica, con l’annuncio di espulsioni dei propri soci che non avessero denunciato le estorsioni. Era certamente un fatto capace di attribuire identità antimafiosa a quell’associazione.

Naturalmente, il movimento antimafia nel suo complesso si è nutrito di errori e di eccessi. E questi nascono probabilmente dall’evidenza che ogni movimento antimafioso, per sua natura, tende ad occupare tutti gli spazi morali a sua disposizione. La discriminante etica, ragione fondante, tende ad allargarsi e spostarsi sempre più avanti in nome della purezza antimafia, escludendo altri soggetti e movimenti. Qualsiasi movimento antimafia, poiché si costituisce e si struttura in alternativa e in opposizione a qualcosa, in primo luogo la mafia e i comportamenti che possono favorirla o sostenerla, non può tentare di includere tutto, ma deve per forza di cose escludere. Ecco perché dentro il mondo dell’antimafia non c’è pace, e ciascun gruppo di riferimento tende a vedere negli altri gruppi degli avversari, se non dei nemici insidiosi o subdoli. L’antimafia spontaneistica e aggregativa dal basso si contrappone a quella ufficiale in giacca e cravatta e viceversa, quella sociale si contrappone a quella di Stato e viceversa.

La vocazione alla supremazia della leadership del mondo antimafioso, diventa allarmante quando l’antimafia non è più esclusivo appannaggio di gruppi sociali d’opposizione (i preti di frontiera contro la Chiesa ufficiale timorosa, le minoranze politiche contro le maggioranze o i governi prudenti o contigui, gli studenti contro la burocrazia scolastica troppo paludata, tanto per fare alcuni esempi), ma comincia a diventare bandiera dei gruppi dominanti. Al potere economico o politico, finisce così per sommarsi il potere di esclusione di potenziali concorrenti, che può essere esercitato anche facendo baluginare legami oscuri o poco trasparenti. L’antimafia può servire al politico di governo per demonizzare gli avversari. Siamo di fronte a quel meccanismo che viene indicato come “la mafia dell’antimafia”, definizione che non amo perché rischia di far dimenticare che nel recente passato in Sicilia, e non solo, politici,  imprenditori e funzionari contigui o affiliati alla mafia facevano eliminare i loro avversari direttamente a colpi di kalashnikov.

In questi giorni, in queste ore, il mondo dell’antimafia, soprattutto quello siciliano, il più antico e radicato, il più organizzato e selezionato negli anni delle stragi e delle mattanze mafiose, si trova davanti a molte domande. Chi dovrà stabilire, nel futuro prossimo, la genuinità dei comportamenti antimafia? I giornali? La tv? Il governo? Il Parlamento? Non esistono organismi o autorità morali in grado di fornire garanzie valide per tutti.  La domanda principale finisce per riguardare l’esistenza stessa di un’antimafia diffusa. Se l’antimafia, per come è stata fino ad oggi, è morta, potrà esserci ancora qualcosa o qualcuno in grado di dichiararsi antimafia? Ma, soprattutto, chi potrà crederci ancora?

Vuoi vedere che lo status di minacciato è riconosciuto solo a chi appartiene al salotto buono?

abbondanzaLa domanda se la pone Marco Preve (uno che di giornalismo, denunce e fatti se ne intende facendo per benino nomi e cognomi come piace a noi) scrivendo di Christian Abbondanza e delle ultime minacce ricevute. E il suo articolo va letto con attenzione anche da chi galleggia nel Circo Antimafia sapendo senza sapere, parlando per luoghi comuni dei propri vanti o delle proprie dicerie e soprattutto per chi coltiva l’idea che non esista antimafia senza “rete” e poi invece non riesce ad essere solidale se non con i propri sodali. Fuori dai riflettori e dai “salotti buoni” di cui parla Marco Preve sono in moltissimi a subire l’isolamento istituzionale ma anche “antimafioso” per i modi non sempre compiacenti e per avere rifiutato di sdraiarsi sulle posizioni più frequentate. Si può discutere di tutto su Abbondanza e su tutti gli altri minacciati dai più noti ai meno noti: si può dire che siano (o siamo, se volete) antipatici, egocentrici, pieni di difetti e di errori e spesso anche maleducati ma la credibilità è una corda di sopravvivenza troppo importante per permettere a chicchessia di ballarci sopra per mettersi in mostra. Per questo noto anche con piacere che a Christian sia arrivata la solidarietà di Libera nonostante le infelici uscite di qualche suo rappresentante perché la lezione di Don Ciotti è proprio questa: includere, con i propri limiti. E questa volta ci è riuscita (almeno formalmente) davvero.

I meccanismi con cui lo Stato decide di proteggere o non proteggere persone che vengono minacciate a volte sono sfuggenti. Prendiamo il caso di Christian Abbondanza, ideatore e anima della Casa della Legalità. Chiariamo subito: sono un amico di Christian. Il che non mi ha mai impedito di dirgli che ritenevo alcune sue battaglie forzate o sbagliate. Ciò detto, il suo impegno nella lotta alle mafie penso non possa essere messo in discussione.  Il suo modo di condurre queste battaglie oltrechè renderlo bersaglio di querele per diffamazione (che a volte possono anche diventare, perché no giustamente, delle condanne) lo ha anche esposto a rischi fisici e più volte sono dovute intervenire le forze dell’ordine per garantire la sua incolumità. Bene. Da oltre due anni le autorità (magistratura, forze dell’ordine, prefetture) sanno che alcuni presunti ‘ndranghetisti oggi a processo parlando di Christian pronunciavano nei suoi confronti minacce di morte. E altre minacce gli sono state rivolte nei giorni scorsi nell’aula del tribunale di Imperia dove si celebra il processo La Svolta contro 30 accusati per vari reati tra cui l’appartenenza alla ’ndrangheta. Insomma: sono mafiosi pericolosi secondo la magistratura si o no? Forse non lo sono quando parlano di Abbondanza?

Comunque sia, a Christian nessuno ha ancora ritenuto di dover garantire una forma di protezione. Neppure, una qualche autorità ha ritenuto di dover manifestare solidarietà, per farlo sentire meno solo. Capisco: Christian fa un’antimafia irritante, non una di quelle da convegni, salotti televisivi e via dicendo sulla quale son tutti d’accordo: pure le mafie. Ha rotto le balle al mondo compreso a un paio di magistrati che l’hanno querelato. Spero non sia per questo motivo che a lui non viene garantita la protezione mentre invece lo Stato, giustamente ci mancherebbe altro, la garantisce da anni o l’ha garantita, a chi come minacce ha ricevuto una scritta su un muro, un insulto per strada, una lettera anonima. Magistrati, avvocati, cardinali, professori. Vuoi vedere che lo status di minacciato è riconosciuto solo a chi appartiene al salotto buono? Agli altri, gli sfigati, non resta che toccare ferro.