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clan pesce

Operazione “Recherche”, gli affari del clan Pesce di Rosarno. Le facce e i nomi.

(l’articolo de Il Dispaccio)

da sinistra: Armeli, Cimato, Elia, Garruzzo, Mangiaruca, Rocco Pesce, Savino Pesce, Raso, Stilo e Scordino.

Non è un caso che l’indagine messa a segno oggi, dalla Squadra Mobile della Questura reggina e dalla Dda, è stata chiamata “Recherche”. Il nome prende spunto infatti, da un’opera letteraria di Marcel Proust, scrittore e critico letterario parigino, molto amato dal boss Marcello Pesce “u ballerinu”. Quando lo catturarono nel dicembre scorso infatti, gli agenti della Mobile trovarono nel suo covo molti libri dell’autore. L’inchiesta prende proprio l’avvio dalle ricerche, degli inquirenti e degli investigatori, del boss di Rosarno che per sei anni è riuscito a darsi alla macchia. Oggi è stata quindi ricostruita la fitta rete dei presunti fiancheggiatori che hanno “aiutato” il boss a sottrarsi alla giustizia, ossia dal 2010 quando i Carabinieri eseguirono il blitz dell’operazione “All inside”. In tutto sono undici le persone fermate su ordine dei pm reggini Luca Miceli, Adriana Sciglio e Francesco Ponzetta. Un’altra, ossia Antonino Pesce, classe 1992 , è attivamente ricercata dalla Mobile. Le accuse contestate agli indagati sono, a vario titolo, quelle di associazione mafiosa, illecita concorrenza con minaccia o violenza, traffico e cessione di sostanze stupefacenti, intestazione fittizia di beni e favoreggiamento personale nei confronti del boss Marcello Pesce, arrestato nel dicembre scorso dalla Polizia. I dettagli sono stati esposti stamani presso la sala “Calipari” della Questura reggina.
“Oggi è una giornata di sole- ha affermato il Questore Raffaele Grassi. Questa operazione evidenzia, ancora una volta la forza dell’autorità giudiziaria e della Polizia nel contrasto alla ‘ndrangheta. L’attenzione degli investigatori è al massimo livello sia sulla piana di Gioia Tauro che in tutta la provincia reggina”.

Le investigazioni, per la cattura del “ballerino”, abbracciano il periodo che va dall’inizio del 2015 al giorno della cattura del latitante, sorpreso all’interno di un’abitazione nel centro del suo paese d’origine, nella disponibilità di Salvatore Figliuzzi, classe 1955 e del figlio Pasquale classe 1976, i quali, arrestati in flagranza di reato per favoreggiamento aggravato, hanno subito patteggiato la pena. Attorno all’ex latitante poi c’era un’organizzazione che non solo assisteva “moralmente” e materialmente Marcello Pesco, ma è riuscita a creare una rete di supporto e di tutela attraverso l’effettuazione delle “staffette” dirette ad evitare l’intervento delle forze dell’ordine sia all’atto dei vari spostamenti del latitante e sia quando i sodali, i familiari e altri soggetti si recavano presso i vari covi in cui Pesce si nascondeva. Inoltre, secondo l’Antimafia, i fiancheggiatori hanno garantito gli incontri tra “il ballerino” e gli altre membri della cosca.
“Pesce non era un boss “in sonno” – ha affermato il procuratore aggiunto Gaetano Paci- era attivissimo e per tutto il periodo della latitanza ha dettato regole e strategie ai sodali attraverso il figlio Rocco Pesce ossia la sua “longa manus” sul territorio. Insieme a lui altro elemento di spicco era Filippo Scordino; entrambi curavano i rapporti con gli intestatari fittizi del settore del trasporto merce su gomma e gestivano altre attività economiche, come aziende agricole e centri scommesse”.
Proprio su questo aspetto si è soffermato Federico Cafiero De Raho, Procuratore reggino. “La nostra Costituzione, ha affermato Cafiero, garantisce la libertà di iniziativa economica, ma dove c’è la ‘ndrangheta questo non è possibile. In Calabria c’è un controllo talmente capillare che le cosche effettuano un controllo asfissiante, asfissiante per la popolazione ma anche per l’economia del territorio. Abbiamo inoltre appurato, che anche le stesse “teste di legno”, che lavoravano per conto dell’organizzazione mafiosa, per commercializzare dovevano essere autorizzate dai capi e nel caso dovevano pagare, pur essendo inseriti nel contesto criminale”.

L’inchiesta “Recherche” poi, ha smantellato i traffici di droga messi in piedi dalle cosche di Rosarno. “Ci troviamo di fronte ad un’organizzazione criminale -ha affermato il Procuratore della Dda dello Stretto- che è riuscita a spostare il proprio interessi dalla cocaina alla marijuana poiché sono risultati saldi i legami con i trafficanti della costa orientale siciliana. I Pesce al momento stavano esportando lo stupefacente sulle piazze del cosentino; in due occasioni abbiamo infatti, sequestrato carichi di hashish e marijuana per un valore di oltre 100 mila euro». Le indagini finalizzate alla cattura del latitante sono proprio partite dall’osservazione dei suoi più stretti congiunti come il figlio Rocco Pesce, classe 1988. Secondo il “rampollo” dei Pesce prendeva parte attiva all’organizzazione dedita al traffico illecito di sostanze stupefacenti.

È stata fatta luce su una serie di cessioni di droga riconducibili ad una rete di narcotrafficanti operanti in prevalenza sul territorio di Cosenza, Rosarno e nella provincia di Catania. La base di partenza dell’inchiesta era rappresentata dall’osservazione di due luoghi strategici per il gruppo criminale ossia un centro scommesse e l’azienda agricola “Le tre stagioni” all’interno della quale, il 25 febbraio dello scorso anno, è stato effettuato anche un sequestro di droga (quattro chilogrammi di “marijuana”) riferibile, secondo gli investigatori, a Rocco Pesce ed al suo gruppo da cui emergevano, anche evidenti cointeressenze tra le attività dell’indagato e soggetti del vibonese. Il secondo sequestro inoltre, è stato effettuato l’otto febbraio del 2015 quando agli imbarcaderi di Villa San Giovanni, all’interno di un camion sono stati rinvenuti 67 chili di marijuana e più di 82 mila euro euro in banconote di vario taglio. Da Rosarno la droga viaggiava verso la Sicilia.
Il pm reggini infine hanno sequestrato un imponente patrimonio aziendale riconducibile alla famiglia di Marcello Pesce, che comprende 8 società ed una consistente flotta di mezzi di notevole valore commerciale (come trattori stradali, rimorchi e semirimorchi). La cosca, ancora una volta, era “leader” nel settore del trasporto su gomma e, ancora una volta, l’Emilia Romagna rappresentava una “piazza” appetibile. Attraverso le intercettazioni effettuate a carico dei presunti componenti della cosca, fra cui diverse telematiche attive sugli smartphone, è stato smascherato il sistema dell’imposizione dei trasporti merci su gomma dalla Piana di Gioia Tauro verso diverse località del centro e nord d’Italia e del costo degli stessi.

A “gestire” questo settore, per conto della ‘ndrangheta, era Filippo Scordino, accusato di ricoprire il ruolo di direzione e capo della cosca Pesce. In stretto contatto con Marcello e il figlio Rocco Pesce, l’indagato avrebbe gestito per conto di questi l’ “Agenzia di Rosarno” ossi la propria ditta individuale e la “GETRAL”, impegnate nel campo della gestione e mediazione del trasporto merci su gomma, in regime di sostanziale monopolio a Rosarno e nel resto della Piana.

 

Gli uomini del clan Pesce lavorano (anche) a Verona

Le complesse e articolate attività di polizia giudiziaria hanno portato anche i militari ad indagare su Verona. Gli approfondimenti investigativi eseguiti nei confronti delle aziende di trasporto riconducibili alla cosca “Pesce”, alcune delle quali operanti nel Nord Italia, in particolare a Verona, hanno evidenziato l’utilizzo di imprese cooperative che si sono interposte tra esse e i clienti finali. Infatti, le cooperative di lavoro avrebbero avuto quale unico scopo quello di fornire uno schermo giuridico alle imprese della “cosca”, le quali, una volta “esternalizzati” i propri lavoratori facendoli solo formalmente assumere dalle cooperative e fittiziamente ceduto in comodato i mezzi d’opera alle stesse, hanno continuato a operare direttamente non preoccupandosi più del pagamento degli oneri fiscali che gravavano interamente sulle false cooperative. La Finanza è sicura che venissero controllate almeno tre aziende veronesi. Tutte a Nogarole Rocca, tutte nell’ambito degli autotrasporti e della logistica.

Le stesse cooperative hanno successivamente fatturato alle imprese beneficiarie della frode prestazioni di servizi, simulando inesistenti contratti, e così consentendo loro la fraudolenta contabilizzazione dei rel ativi costi ed Iva a credito. Le cooperative di lavoro si sono rivelate società di fatto inesistenti, interposte al fine di caricarsi tutti gli oneri impositivi (in termini di imposte e Iva dovuta), contributivi e previdenziali che, come acclarato, non sono stati mai assolti Infatti, le predette cooperative erano di fatto “ scatole vuote ” che hanno cess ato l’attività dopo breve tempo e i loro rappresentanti sono risultati prestanome nullatenenti. Verona sarebbe entrata nel mirino da tempo della mafia al Nord proprio per il territorio ricco e per la posizione strategica per trasporti ferroviari e stradali.

(fonte)

A Napoli cadono le Mele

Giuseppe e Salvatore Mele sono fratelli criminali. Comandano la cosca della periferia occidentale di Napoli e da due mesi hanno messo a ferro e fuoco il quartiere dopo la loro scarcerazione di qualche mese fa; le vecchie cosche dei Pesce e dei Marfella andavano “rimesse a posto” dopo avere esagerato nel prendere piede. Storie di Napoli e di camorra che rimangono poco conosciute al di fuori della cronaca cittadina. Ora sono stati arrestati dalla Squadra Mobile e dei carabinieri del Nucleo Investigativo a Pianura e in zona ci si aspetta un nuovo riequilibrio. E noi dobbiamo essere qui ad ascoltare, con attenzione. Le faide fanno poco rumore, in estate.

Bellocco, ‘ndrangheta e l’affidabilità della ditta

Un post d’archivio che disegna la situazione lavorativa che regnava all’interno dell’azienda Blue Call (di cui avevo scritto qui). Oltre all’articolo è interessante leggere i commenti e soprattutto una lettera firmata “Gli Operatori Mediaset Premium, sede Blue Call di Rende (CS)”:

Gentile Angela P*****,

in seguito a gravi comportamenti perpetuati ai nostri danni dall’azienda Blue Call abbiamo deciso di scriverLe questa e-mail per metterLa al corrente dell’attuale situazione che, oramai, si protrae da mesi.

In sede si è sempre cercato di tamponare gli oramai diffusi malcontenti nei confronti dell’azienda tenendo Mediaset all’oscuro di tutto, grazie al comportamento di responsabili e amministratori poco rispettosi sia nei confronti del committente che di noi operatori.

Tutti gli operatori Mediaset non percepiscono da mesi regolare stipendio. Siamo tutti in attesa delle mensilità di Agosto, Settembre e Ottobre; mentre in alcuni casi si attende addirittura la mensilità relativa a Giugno o Luglio. A ciò si aggiungono le reiterate rassicurazioni dei responsabili Blue Call, regolarmente smentite dall’effettiva mancanza degli accrediti sui nostri conti correnti. Veniamo continuamente invitati ad attendere i bonifici erogati dall’azienda ma, di settimana in settimana, nessuno ha più voglia di credere a chi sta giocando con persone che stanno prestando un servizio professionale e senza intoppo alcuno.

La filosofia dell’azienda è oramai chiara. Erogare pagamenti con il contagocce, portando (soprattutto i nuovi operatori) a licenziarsi. Da ciò consegue un continuo ricambio di risorse umane sulla commessa Mediaset che porta a un notevole calo nella qualità del servizio. Gli operatori più anziani, quindi, attendono che qualcosa cambi mentre le nuove risorse sono utilizzate alla strenua di un qualsiasi ricambio temporale, per coprire turni e ridimensionamenti imposti non gestibili in altro modo.

Certi di avere un committente attento ai diritti di noi lavoratori è nostro dovere informarLa di questa situazione. Siamo certi che Mediaset è puntuale nell’erogare i pagamenti. Sarebbe davvero interessante sapere dove il nostro Amministratore e i suoi responsabili hanno deciso di impiegare i soldi pagati da Mediaset e destinati a noi operatori, sperando di aver mosso in Lei questa curiosità.

Non sarebbe etico gestire le chiamate in maniera poco professionale, come se volessimo rifarci sulla stessa Mediaset che, tra le altre cose, non ha alcuna colpa. Abbiamo quindi pensato di avvertire chi di dovere su cosa sta accadendo.

Certi di un cortese riscontro Le auguriamo una buona giornata.

Gli Operatori Mediaset Premium, sede Blue Call di Rende (CS).

Quante volte in Lombardia le crisi improvvise di aziende che prosperavano tranquille non hanno avuto una spiegazione? Mi è capitato spesso di parlare con lavoratori che non riuscivano ad immaginare cosa fosse successo in attività dove non erano avvenute variazioni tra i fornitori ed i clienti e improvvisamente si trovavano sul lastrico.

Ogni tanto dietro una “crisi aziendale” c’è la mano della mafia. Forse potremmo partire da qui.

 

‘Capacità predatoria”: Blue Call, ‘ndrangheta, i Bellocco e l’imprenditoria

La mafia era infiltrazione, una volta. Nemmeno per tutti. Infiltrazioni al nord, dicevano, come rassicurazione lessicale. Poi sono venuti gli arresti di tanti (troppi imprenditori) e di tanti (troppi) amministratori: hanno cambiato tono, l’hanno detta “emergenza” come si dicono quelle emergenze levigate dalla consuetudine della frequenza. Ogni volta che ne scrivi da una parte qualsiasi anche le reazioni ormai sono un balletto di sdegni preventivati e riconoscibili: Maroni, Saviano, bravo Giulio l’avevi detto, la Moratti, il Prefetto di Milano, Banca Rasini e via così.

Ma manca il punto: i predatori prevedono le mosse dei concorrenti e degli avversari e in Lombardia i competitori dei predatori sono gli imprenditori; così oltre alla “disponibilità, per il conseguimento della finalità dell’associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito” come recita l’articolo 416 bis del codice penale stupisce (perché non si riesce ad inculcare, più che altro) come le mafie siano intraprendenti ancora più che imprenditrici. Futuriste nei campi d’azione: mentre nei convegni si parla di movimentazione terra loro entrano nel mercato dei compro oro, poi li raggiungi nei testi che le raccontano e intanto si sono spostate sui videopoker e le forniture alberghiere in un susseguirsi di cronico ritardo nella fotografia del contemporaneo.

Oggi si sa che la ‘ndrangheta (sotto l’ala della cosca dei Bellocco) entra con prepotenza nel settore dei call center (niente di meglio che un campo di conquista così fortemente “precario”, del resto). Diceva qualcuno che la magistratura interviene di solito sulle macerie e dipinge un quadro già superato mentre se ne dibatte in fase processuale. Niente di più vero e chiaro.

Ora manca il passo lungo (o il passo corto raddoppiandone il ritmo) per mettersi alla pari: discutere di mafie come punto costante dell’agenda di tutti gli assessorati. Tutti. Come si fa per i ladri e gli scorretti. Come se fosse un’emergenza trasversale che predilige le acque inesplorate. Perché è così.

Qui l’articolo (da incorniciare) di Davide Milosa per Il Fatto Quotidiano:

L’ultimo affare: i call center. Sì perché quella della potentissima cosca Bellocco di Rosarno, è una ‘ndrangheta che diversifica. E se in Calabria i boss regnano da imperatori e preparano faide in cui, sentenziano le donne di mafia, a morire dovranno essere “tutti, anche i minorenni”, in Lombardia si dedicano al business. Legale e milionario. Come dimostra la vicenda della Blue call srl, azienda specializzata nella gestione di call center con il centro direttivo a Cernusco sul Naviglio e sedi operative in tutta Italia (anche in Calabria, naturalmente). Un’impresa florida che solo nel 2010 ha chiuso un fatturato da 13 milioni di euro, facendosi segnalare come leader del settore. Un gioiellino, dunque. Gestito da Andrea Ruffino, il quale, agli inizi del 2011, apre le porte a un emissario dei boss. Finirà per cedere le quote. Regalando ai boss un vero bancomat cui accedere in ogni momento, ma soprattutto la possibilità di controllare un ampio consenso sociale attraverso le assunzioni. Un’arma formidabile anche per la gestione di pacchetti elettorali. Insomma affari al nord e controllo del territorio al sud. Il tutto sulla rotta Rosarno-Milano e ritorno. Questa la fotografia scattata dalle procure di Reggio Calabria e Milano che all’alba di questa mattina hanno dato esecuzione a 23 arresti tra Calabria per associazione mafiosa e Lombardia per intestazione fittizia di beni, accusa quest’ultima aggravata dall’utilizzo del metodo mafioso. Tra questi anche i soci della stessa Blue call.

“LE AZIONI NON SI CONTANO, SI PESANO E LE MIE PESANO DI PIU’”

Per comprendere il disegno basta leggere i capi d’imputazione. A Rosarno la mafia è armata. Mentre a Milano, questa stessa ‘ndrangheta (ben diversa da quella rappresentata dall’inchiesta Infinito) non spara, usa il computer e si appoggia a veri e propri intermediari del crimine. Gente insospettabile che, come in questo caso, prende contatti e mette in comunicazioni gli imprenditori con i boss. Carlo Antonio Longo, originario di Galatro (Reggio Calabria), è, infatti, il referente dei Bellocco al nord. Mega villa in Svizzera, titolare di un’azienda edile (chiusa nel gennaio scorso) schermata da un limited londinese, Longo è un uomo di mafia, violento e deciso, ma è anche un broker, capace di trattare con gli imprenditori del nord. Talmente sottile da minacciarli, citando a memoria una delle storiche frasi di Enrico Cuccia, per decenni eminenza grigia della finanza italiana. Dirà Longo all’imprenditore: “Le azioni non si contano, ma si pesano, e le mie pesano di più!”. Gli uomini del Gico guidato dal comandante Marco Menegazzo, ascoltano queste parole il 16 settembre 2011, periodo in cui la ‘ndrangheta si accinge a fare il passo definitivo: prendersi tutta l’azienda che in quel periodo conta oltre mille dipendenti.

L’IMPRENDITORE: “HO PRESO LE BOTTE, QUEL BASTARDO, CON IL COLTELLO ANCHE”

L’atto finale solo quattro giorni dopo, quando Andrea Ruffino (anche lui destinatario di un mandato di cattura, ma attualmente irreperibile) convocato da Longo e soci nella sede operativa di Cernusco sul Naviglio. Nella saletta ci sono una decina di persone, gente vicina alla cosca Bellocco, persone assunte in società senza le minime credenziali. In questo momento Longo regola i conti o, come dice lui, “taglia i rami secchi”. L’imprenditore di Ivrea viene massacrato di botte, dopodiché, con il coltello puntato alla gola, verrà “convinto” a cedere tutte le sue quote a una società preparata ad hoc dalla ‘ndrangheta. Uscito da quell’incontro, la vittima chiama subito la sua fidanzata per sfogarsi. “Ho preso le botte (…) mi ha dato una botta che sento malissimo adesso. Quel bastardo, guarda. Con il coltello anche, guarda (…) quello che dovevo raggiungere l’ho raggiunto ma fanno schifo. Sono uomini di merda. Ti giuro non sto sentendo da un orecchio”. L’imprenditore è stato massacrato. Però è sollevato, perché ha ottenuto la promessa di un minimo pagamento delle sue quote. Pagamento, che, alla maniera calabrese, non arriverà mai. Le conversazioni dei giorni successivi confermano il quadro agli investigatori. Un impiegato delle sue società vedendo l’imprenditore con l’occhio pesto gli consiglia di andare in ospedale. “Sì – risponde – e cosa dico che Longo mi ha fatto un’estorsione”. Il vaso è pieno. Lo sfogo arriva subito dopo: “Basta con questa ‘ndrangheta – dice l’ex titolare della Blue call – che si pigliassero tutto”.

UMBERTO BELLOCCO, IL PICCOLO PRINCIPE DELLA ‘NDRANGHETA

Eppure, mesi prima, l’imprenditore piemontese non la pensava così. Tutto inizia nel dicembre 2011, quando Emilio Fratto, commercialista con conoscenze importanti in ambito mafioso, pensa di rientrare da un credito che ha con l’imprenditore piemontese proponendo l’ingresso di nuovi soci nella Blue call. In questo modo, lo stesso Fratto crede di potersi liberare di un debito a sua volta contratto con la cosca Bellocco. Succede tutto velocemente. “C’è da fare questa cosa”, dice Fratto a Longo che prende tempo e riporta la possibilità a Umberto Belloco, il giovane e capriccioso principe del clan, il quale entrerà con entrambi i piedi nella vicenda fino ad essere il regista ultimo e questo senza aver la minima professionalità. Farà di più durante la latitanza terminata nel luglio scorso – sarà arrestato a Roma nel luglio scorso – il giovane Bellocco, da fuggiasco, percepirà un regolare stipendio dalla Blue call, oltre naturalmente ai vari benefit per allietare la latitanza.

LA SCALATA ALLA SOCIETA’: QUESTIONE DI PANZA E DI PRESENZA

La vicenda, quindi, nasce per un debito-credito. L’imprenditore, del resto, non si oppone. Anche perché, emerge dalle indagini, già sotto scacco da uomini legati ai clan di isola Capo Rizzuto. Quello che appare chiarissimo è il metodo con cui la ‘ndrangheta prima entra e poi conquista l’azienda. Longo, introdotto da Fratto, e per conto dei Bellocco, porta in società una serie di persone fino ad aver, inizialmente, il 30%. Questo, però, è solo il prologo di una scalata rapidissima. Tanto che lo stesso Umberto Bellocco intercettato dice: “Tu pensa che dove lavoro io ci sono 40 ragazzi…45…A Cernusco gestisco un Call-Center”. Insomma, il progetto mafioso va a gonfie vele e a costo zero. Longo è chiarissimo: “I soldi noi non li abbiamo messi”. E dunque? Prosegue: “Io non metto niente io prendo”. I Bellocco dunque cosa mettono. “La presenza – ribadisce Longo – panza e presenza”. L’espressione tipicamente mafiosa viene tradotta dagli investigatori: “I Bellocco, una volta entrati a far parte della società con un quota minoritaria (30%), stavano cercando di acquisirne il controllo con metodologie che facevano leva solo sul potere di intimidazione derivante dalla loro appartenenza alla ‘ndrangheta”. Panza e presenza appunto. Tanto basta “per prendersi il lavoro di una vita”, si sfoga così uno dei soci della Blue call. “Non è solo, il futuro dell’azienda (….) Stai sotto scacco per tutta la vita! Come dici tu: Non c’è via d’uscita , questi qua… E’ impossibile, capito. Oggi vogliono questo e domani cosa vogliono!? … E dopodomani cosa vogliono, scusami”.

“LORO SONO COME DIO CHE POSSONO DECIDERE TUTTO”

Ruffino un po’ intuisce, un po’ no. Addirittura pensa di estromettere i calabresi, liquidando la loro parte. Non sarà così, naturalmente. E Fratto lo avverte fin da subito: “Per il resto dei nostri giorni non ce li togliamo più dai piedi. Tu pensa di giocare, con loro, sulla lama del rasoio: poi, quando ti tagli, ti renderai conto delle mie parole (…) Io ti sto dicendo che questa razza la conosco, tu no”. L’imprenditore, dunque, sta giocando con il fuoco. Però insiste: “La morte – dice – non è il peggiore dei mali”. Fratto è chiarissimo: “Tu sei un pazzo”. E allora l’altro chiede: “Loro sono come Dio che possono decidere che tutte le persone muoiono no?”

L’imprenditore agganciato sa ma non si sgancia. Diventa complice. Ne è consapevole Ruffno che dice: “Io non voglio andare avanti con queste persone (…) stiamo puliti (…) e non rischiamo nessun 416bis”. Quindi ancora parole in libertà sul come liquidare questi calabresi. “Guarda io ho più soluzioni (…) mi sono rotto i coglioni io voglio stare separato perché voglio comandare io”. Tanto coraggio viene smorzato da una telefonata di Longo, il quale durante le festivita pasquali fa gli auguti a Ruffino. “Volevo salutarti (…) come stai (…) Insieme e alla tua famiglia, tanti auguri…Buona Pasqua, capito, fai una buona Pasqua e vivi felice e contento”.

SCHERMI SOCIETARI E ASSET MAFIOSI

Nonostante tutto l’imprenditore prosegue nel tentativo di liberarsi dei calabresi. Consapevole della mafiosità dei suoi interlocutori, ma ancora non del tutto consapevole della loro intelligenza criminale, chiude la Blue call e splitta l’intero assett (call center e immobiliare) su due società: la Future srl e la R&V. Nel frattempo, però, la ‘ndrangheta ha già creato una sua società schermo, la Alveberg con sede a Milano in via Santa Maria alla porta. Tra i soci c’è la anche la fidanzata di Longo. E’ dentro questa srl che confluiranno tutte le quote dell’imprenditore, dopo il pestaggio del 20 settembre.

NELLA FAIDA UCCIDERE ANCHE DONNE E BAMBINI

Questa è la ‘ndrangheta che colonizza Milano. Una ‘ndrangheta violenta e vorace. Capace di prendersi un’azienda da 13 milioni di fatturato senza fare rumore. E di progettare una faida dove coinvolgere anche donne e bambini. L’incredibile vicenda è narrata nella parte calabrese dell’inchiesta. E nasce da due omicidi di affiliati alla cosca. I sospetti ricadono sul clan pesce, un tempo alleati con i Bellocco. Tanto che il giovane erede del casato mafioso dice, intercettato, “Rosarno è nostro e deve essere per sempre nostro…sennò non è di nessuno”. Il rischio di una faida è concreto. Tanto che Umberto ne parla con la madre Maria Teresa D’Agostino. “Una volta – dice la donna – che partiamo, partiamo tutti, una volta che siamo inguaiati, ci inguaiamo tutti….dopo, o loro o noi o noi, vediamo chi vince la guerra, dopo…pure ai minorenni”. E ancora: “Pari pari, a chi ha colpa e a chi non ha colpa, non mi interessa niente…e femmine”.

Questi gli arresti:

Si riportano i nominativi dei 23 soggetti attinti da nr. 2 misure cautelari emesse nell’ambito dei procedimenti penali nr. 8507/10 R.G.N.R. D.D.A. (già 3451/10 R.G.N.R. D.D.A. e nr. 1236/2010 R.G.N.R. D.D.A. significando che l’esecuzione dei provvedimenti cautelari è stata delegata alla Squadra Mobile (per gli arrestati dal nr. 1 al nr. 16), al G.i.c.o. della Guardia di Finanza di Milano (per gli arrestati nr. 17 e nr. 18), al R.o.s. dell’Arma dei Carabinieri (per l’arrestato nr. 19) e alla Compagnia Carabinieri di Gioia Tauro (per gli arrestati dal nr. 20 al nr. 23).

  1. BELLOCCO Umberto nato a Cinquefrondi il 01/08/1983, detenuto presso la Casa Circondariale di Lanciano (CH);
  2. BELLOCCO Francesco nato a Cinquefrondi il 15/05/1989, detenuto presso la Casa Circondariale di Reggio Calabria;
  3. BELLOCCO Maria Angela, nata a Cinquefrondi il 01/09/1981 ed ivi residente in via Giacomo Matteotti nr. 13;
  4. BELLOCCO Emanuela nata a Rosarno il 30/08/1975 ed ivi residente in via Aldo Moro s.n.c.;
  5. ZUNGRI Francesco nato in Russia il 02/07/1989 e residente a Rosarno in vico del Forno nr. 15;
  6. MALVASO Pasqualino nato a Rosarno il 13/10/1975 ed ivi residente in via Giacomo Matteotti nr. 13;
  7. BELCASTRO Michelangelo nato a Cinquefrondi il 30/07/1989, residente a Bulgarograsso (CO) in via Guglielmo Marconi nr. 2;
  8. LONGO Carlo Antonio nato a Galatro il 23/06/1964, residente in Monzambano (MN) in Strada Castellaro Nuova nr. 54;
  9. D’AGOSTINO Francesco nato a Taurianova il 17/06/1975, detenuto presso la Casa Circondariale di Palmi;
  10. D’AGOSTINO Vincenzo nato a Rosarno il 10/01/1961 ed ivi residente a in via Carlo Lorenzini nr. 20;
  11. OLIVERI Domenico nato a Palmi il 20/12/1979, detenuto presso la Casa Circondariale di Benevento;
  12. ELIA Francesco nato a Rosarno il 13/09/1975 ed ivi residente in via Provinciale nr. 205;
  13. GALLO Sabrina nata a Cinquefrondi il 09/09/1990, residente a Rosarno in via Ugo La Malfa nr. 30;
  14. NOCERA Maria Serafina nata a Rosarno il 14/08/1954 ed ivi residente in via Elena nr. 126;
  15. PANETTA Rocco nato a Galatro il 24/10/1974, residente a Misinto (MB) in via del Cavo nr. 5;
  16. RULLO Raffaele nato a Cinquefrondi il 18/03/1985, residente a Giffone in via Giosuè Carducci nr. 1/C.
  17. NOCERA Francesco nato a Cinquefrondi il 17/12/1982, detenuto presso la Casa Circondariale di Potenza;
  18. MERCURI Francesco nato a Gioia Tauro il 26/01/1979, residente ad Albano Sant’Alessandro (BG) in via don Giovanni Schiavi nr. 7;
  19. BELLOCCO Michele nato a Rosarno il 19/03/1950 ed ivi residente in via Giacomo Matteotti s.n.c.;
  20. PIROMALLI Vincenzo nato a Rosarno il 09/07/1969 residente in Sesto San Giovanni (MI) in via Rabbino nr. 28;
  21. LIGATO Bartolo Angelo nato a Gioia Tauro il 12/12/1983, detenuto presso la Casa Circondariale di Palmi;
  22. PIROMALLI Luigi nato a Polistena il 27/12/1989, residente in Rosarno alla via Paolino nr. 28;
  23. TIMPANI Luigi nato a Cinquefrondi il 02/01/1988 e residente in Casalgrande (RE) via San Lorenzo nr. 20;

Il manuale antimafia di Giuseppina Pesce

Le parole sono importanti. E forse ci perdiamo sui convegni e le analisi mentre qualcuno serve elementi che semplificano la visione, devastanti nella loro semplicità, mentre ci dicono cosa sta succedendo e quali sono i lati della storia che non riusciamo o non vogliamo vedere. E che comunque sono sempre difficili da raccontare. Giuseppina Pesce ha deposto durante un’udienza del processo “All Inside” che ha portato alla sbarra la cosca Pesce proprio grazie alle sue dichiarazioni. Le frasi sono lame affilate. Lo racconta un articolo di net1news:

«I contatti con Carnevale – ha detto la pentita – avvenivano tramite mio suocero, Gaetano Palaia, che era suo amico».  Il giudice Carnevale, il quale in alcune intercettazioni proferiva insulti contro il defunto giudice Giovanni Falcone,  veniva definito “l’ammazzasentenze”: era stato il pentito Gaspare Mutolo a dichiarare che Carnevale era “avvicinabile”. Dopo di lui altri 11 pentiti hanno fatto il nome del magistrato. Nel 2002, però, la Cassazione lo ha assolto con formula piena perché “il fatto non sussiste”, constatando prove insufficienti a sostenere tali accuse e respingendo anche le deposizioni dei colleghi di Carnevale, magistrati di cassazione, che denunciavano le sue pressioni per influire sui processi: secondo i giudici le loro dichiarazioni erano inutilizzabili in giudizio. Successivamente la deposizione di Pina Pesce ha avuto come oggetto la descrizione degli affari della cosca Pesce. Questa, secondo quanto ha affermato la pentita rispondendo alle domande del pm, Alessandra Cerreti, trae enormi guadagni dal controllo degli appalti per l’ammodernamento dell’A3 nel tratto che attraversa la Piana di Gioia Tauro per quanto riguarda, in particolare, i lavori di movimento terra. In più, ha riferito ancora la pentita, ci sono le estorsioni:  « Non c’è un negozio o un’impresa di Rosarno – ha detto Giuseppina Pesce – che non paga il pizzo. A meno che non sia di proprietà di nostri parenti».   La pentita ha riferito delle disposizioni che vengono dettate dai capi della cosca detenuti attraverso colloqui con parenti che si spacciano come loro familiari grazie a falsi certificati di parentela che sono stati rilasciati dal 2006 e fino al 2011 dal Comune di Rosarno. Giuseppina Pesce ha parlato anche di come la cosca riuscisse a nascondere i cadaveri delle persone uccise e fatte sparire nel cimitero di Rosarno minacciando i dipendenti. «I corpi di mio nonno Angelo e di mia zia Annunziata – ha detto la pentita -, uccisi entrambi per punizione perchè avevano relazioni extraconiugali, in realtà non sono stati portati lontano da Rosarno. Si sono sempre trovati nel cimitero del paese in loculi senza nome dove venivano tumulati di notte».   Un ultimo riferimento la pentita l’ha fatto al giro di carte di credito clonate gestito dalla cosca. «Carte – ha detto – intestate a clienti statunitensi che le hanno utilizzate in alberghi e ristoranti della Lombardia. Ne ho avuto una anch’io e l’ho usata un paio di volte prima che il titolare la revocasse dopo avere notato spese che non aveva effettuato».

Ecco, per chi voleva una lezione di mafia (e antimafia) qui gli elementi ci sono tutti.