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I bulletti: a Barcellona i nuovi boss pascolano su Facebook

Guardateli bene sono la nuova leva della mafia a Barcellona Pozzo di Gotto: Alessio Alesci, Bartolo D’Amico e Marco Chiofalo sono tra gli arrestati dell’operazione Gotha 5 che ha mappato Cosa Nostra nel messinese. Loro tre giocavano a fare i boss anche sui social come nei peggiori stereotipi. Mentre continuiamo a parlare di ‘colletti bianchi’ e ‘mafiosi sommersi’ viviamo ancora in un Paese in cui il mafioso esibisce la propria sbruffonaggine con vanto. Per questo, forse sarebbe utile interrogarci tutti sui modelli culturali. Tutti.

Le loro gesta le ha raccontate bene Paolo Borrometi qui.

Sempre sull’attentato a Di Matteo

Un importante articolo di Riccardo Lo Verso:

Gli episodi sono sempre più circoscritti. È nel dicembre 2012 che la mafia avrebbe iniziato a progettare l’attentato al pubblico ministero di Palermo Nino Di Matteo. Si tratta dell’attentato di cui parla oggi Vito Galatolo, il boss che, prima ancora di pentirsi, si è voluto togliere un peso dalla coscienza. “Ci sono dietro gli stessi mandanti di Borsellino”, ha detto il capomafia aprendo scenari ancora più inquietanti.

Un direttorio ristretto di boss avrebbe deciso di sfidare lo Stato colpendo uno degli uomini simbolo della lotta a Cosa nostra. Oggi i boss che avrebbero fatto parte del piano, coordinato dallo stesso Galatolo, sono tutti in cella. Il progetto di morte è andato avanti per dua anni. Poi, il blitz Apocalisse di cinque mesi fa avrebbe evitato il peggio. Era pronto persino l’esplosivo che in questi giorni gli uomini della Dia hanno cercato senza successo nelle campagne di Monreale dove c’è la villetta di uno dei 95 arrestati del mega blitz di giugno.

Si scopre che ci furono grandi preparativi fra l’8 e il 9 dicembre di due anni fa per fare incontrare Girolamo Biondino – fratello di Salvatore, l’autista di Totò Riina – e Vito Galatolo. Entrambi sono finiti in carcere nel blitz Apocalisse del giugno scorso. Sono accusati il primo di essere il capo mandamento di San Lorenzo-Tommaso Natale e il secondo di avere guidato la famiglia dell’Acquasanta. Solo la prudenza di Biondino, che aveva già scontato una lunga pena, gli suggerì di defilarsi all’ultimo minuto. Forse aveva capito di essere pedinato. E così Galatolo avrebbe incontrato i rappresentanti delle famiglie di Partanna Mondello e Tommaso Natale. Il boss dell’Acquasanta che ha deciso di pentirsi colloca in quella stagione di summit l’inizio del progetto di uccidere Di Matteo.

Il rampollo di una delle più blasonate famiglie mafiose si trovava in città per seguire un processo. Era stato da poco scarcerato. Aveva, però, il divieto di soggiorno a Palermo e si era trasferito a Mestre. Con un apposito permesso gli era stato dato il via libera per presenziare alle udienze. L’organizzazione dell’incontro sarebbe stata affidata a due picciotti.

Alle ore 19:05 dell’8 dicembre di due anni viene intercettato in macchina Roberto Sardisco, braccio destro di Silvio Guerrera, considerato il reggente della famiglia di Tommaso Natale. A bordo di una Fiat 500 raggiungono un bar a Tommaso Natale. Sardisco scende dalla macchina e sale su un furgone. Alla guida c’è un altro indagato. Assieme arrivano al civico 61 di via Barcarello dove c’è la villetta di Mimmo Biondino. Entrano in casa. Pochi minuti dopo Sardisco telefona a Guerrera: “Domani alle dieci”. Secondo gli investigatori, è la conferma dell’appuntamento. Infine arriva una telefonata a casa di Galatolo dove l’uomo sta cenando con la moglie: “… telefonò Vito e ha detto che potete scendere che aspetta a noi per mangiare”.

Il 9 dicembre gli investigatori sono pronti a monitorare gli spostamenti di tutti i protagonisti. Quattro minuti dopo le 9 Guerrera è in macchina. Sardisco passa sotto casa di Tommaso Masino Contino, in cella con l’accusa di essere il capo della famiglia di Partanna Mondello. Nel frattempo, Biondino esce di casa a piedi. Percorre le vie Barcarello, del Tritone e del Mandarino e sale sulla Citroen C4 di Guerrera. La macchina è imbottita di microspie. Biondino si informa: “Che c’è Vito?”. Risposta affermativa. Guerrera, però, spiega che “a Masino non l’ho potuto trovare”. Biondino si rammarica: “Ci voleva Masino… ci voleva per certi discorsi… Masino ci vuole perché sa tanti discorsi”. Poi inizia a innervosirsi: “Dove dobbiamo salire? Là? Neanche io lo so, dove vuoi posteggiare posteggi, dove ci portano queste teste di minchia… li prenderei a calci nel culo a queste teste di… entra là dentro… abbiamo tante cose… da discutere”.

Gli inquirenti li hanno seguito passo dopo passo. Dopo aver percorso le vie Rosario Nicoletti, Partanna Mondello ed Emilio Salgari si sono fermati in via Jack London. Sono scesi dalla macchina per entrare nel condominio al civico 31 di via Partanna Mondello. Dopo pochi minuti, però, Biondino e Guerrera escono. Salgono in macchina e vengono intercettati in via Lanza di Scalea. L’incontro è saltato. Biondino deve avere fiutato qualcosa. Forse i movimenti delle forze dell’ordine.

Nel pomeriggio della stessa giornata vengono monitorati nuovi spostamenti. C’è una novità importante: Biondino si è defilato. Guerrera e Contino si spostano a bordo di una Smart. “Dobbiamo andare in corso Tukory… è da stamattina che mi rompo i… – spiega Guerrera – mi stavano facendo attummuliari stamattina. Stamattina non ti ho potuto trovare… hanno una cosa urgente, subito”. Alle 17 e 30 arrivano in via Lincoln. E si spostano in macchina verso una zona Secondo gli investigatori, avrebbero incontrato da qualche parte Vito Galatolo.

Cosa c’era di così urgente da trattare? Probabilmente in pochi, pochissimi erano a conoscenza dell’argomento. Non a caso Galatolo avrebbe parlato di un numero ristretto di personaggi, legati anche ad altri mandamenti della città, che a loro volta avrebbero partecipato ad altri summit su cui adesso si dovrà fare luce.

Perché nel dicembre 2012 la mafia inizia a progettare un attentato contro Nino Di Matteo.C’entrano il processo e l’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia di cui il pubblico ministero si occupa assieme ai colleghi Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia? Le indiscrezioni che trapelano addensano l’ombra dei mandanti esterni. Soggetti diversi da Cosa nostra potrebbero avere deciso di servrsi dei boss per colpire loro obiettivi. Anche di questo avrebbe parlato Galatolo, figlio di Enzo, capomafia dell’Acquasanta coinvolto nelle stragi del’92 e in omicidi eccellenti come quello del giudice istruttore Rocco Chinnici.

Galatolo, 41 anni, detto “u picciriddu”, avrebbe deciso di vuotare il sacco temendo che che l’attentato potesse ancora essere realizzato. Troppo alto il rischio di subirene le conseguenze giudiziarie. Galatolo ha parlato anche dell’arrivo in città di un carico di esplosivo di cui, però, non c’è traccia. Gli investigatori lo hanno cercato in una villetta di Vincenzo Graziano. Già condannato per Mafia, Graziano aveva finito di scontare la pena nel 2012, ma è tornato in cella nel blitz Apocalisse con l’accusa di essere il regista del monopolio, realizzato d’intesa con Galatolo, nel settore delle slot machines e delle scommesse sportive on line. Gli veniva inoltre contestato, sulla base delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Sergio Flamia, di avere affiliato, assieme a Galatolo, mentre si trovavano in carcere, un nuovo uomo d’onore. Accuse che, però, non hanno retto al vaglio del Tribunale del Riesame e Graziano è stato scarcerato.

Del tritolo non c’è traccia. Qualcuno potrebbe avere già provveduto a ripulire i luogo dove era stato custodito. E poi ci sono le menti esterne. Quelle che, secondo Galatolo, avrebbero voluto la morte del giudice Borsellino e ora spingevano per assassinare Di Matteo.

Marcello Dell’Utri il “coglionazzo”

Berlu-cappellone-800-800x540-680x365Prosegue nell’aula bunker l’interrogatorio di Angelo Siino:

Ha mai conosciuto Aldo Ercolano?
Si, era figlio del cognato di Santapaola, lo conoscevo nell’ambito della zona industriale di Catania. Eravamo abbastanza confidenti tra noi così come con altri personaggi della mafia catanese.
Lei ha conosciuto Salvo Andò?
No, me ne parlò l’Ercolano quando mi disse che era venuto nella zona industriale a raccomandare la questione socialista che era in atto allora: la questione dei voti che dovevano andare ai socialisti (votazioni ’87), era già successo in una votazione precedente. Si doveva votare per un personaggio che non contava, Tony Barba, ma era un segnale da dare ai politici per dire noi votiamo socialisti. Si trattava di elezioni regionali.
Lei ha mai sentito parlare da Ercolano o da altri di un progetto di uccidere Salvo Andò?
Non ricordo bene, poi l’Ercolano mi aveva detto che suo padre che allora reggeva il mandamento di Catania che era contrario a fare iniziative contro Andò.
Il pm gli contesta una sua dichiarazione del 24 novembre 1999 al processo di appello Capaci. In quella occasione Siino diceva che Ercolano gli aveva detto che Andò prima si era preso i voti e poi si diceva che era amico del dott. Falcone e quindi doveva essere eliminato.
Si ricordo, la mia esitazione era che i due periodi erano diversi. Di questo progetto se ne parlava dopo l’uccisione di Falcone, Salvo Andò si professava amico di Falcone ed era molto critico nei confronti dell’omicidio perpetrato a Capaci. In quella occasione Ercolano diceva che si doveva ammazzarlo così come Martelli perché si erano fottuti i voti e poi tiravano i calci come gli asini.
Da chi ebbe queste informazioni?
Io ero codetenuto con Francesco Mangion vice rappresentante della famiglia di Catania che, riferendosi a Ercolano mi diceva: ma questo manco lo conosce Salvo Andò, che va dicendo? Sono tutte fesserie. Io lo ascoltavo senza interesse.
Lima con lei ebbe mai a commentare l’incarico a ministero della Giustizia che Martelli conferì a Falcone.
Me lo commentò in parecchie circostanze, quando io mi lamentavo dei detenuti liberati e poi subito riarrestati lui mi diceva: ma tu hai capito quello che hanno combinato gli amici tuoi? Vedi quello che sta succedendo, pensavate che ‘u preside, che era Andreotti, non lo capiva questa situazione? Si sarebbe vendicato… quel cane rognoso, così chiamava Falcone, ora è diventato primo dirigente del ministero della giustizia.
Lima le esplicitò a quale situazione si riferisse?
Si era la questione del decreto che aveva riportato i miei amici mafiosi in galera, quelli che avevano creato l’accordo con Martelli per farlo votare.
Nino chiede con riferimento alla strage di via D’Amelio, lei nel periodo successivo ebbe a commentare o ascoltare commenti da esponenti di uomini di Cosa Nostra.
Si, avvenne in più occasioni, furono soprattutto Pippo Calò e Bernardo Brusca a lamentarsi dicendo chi fu quella bella mente che gli venne in mente di fare questa cosa? Io non sapevo nulla. Sia Brusca che il Calò si lamentavano che loro non avevano saputo niente ed era stato il personaggio che si era preso questa responsabilità. Io dicevo: non lo so non sono alla mia altezza, non so chi possa avere dato questo input.
Brusca e Calò si lamentavano di qualcosa in particolare?
Si non capivano chi e perché aveva deciso una cosa del genere.  Ho avuto modo di parlarne a Termini Imerese, lì ho incontrato Brusca, Calò e Montalto che mi dissero che non sapevano chi fosse stato il personaggio che aveva deciso di uccidere Borsellino, c’erano dei problemi che avevano portato all’accelerazione dell’uccisione di Borsellino. Confermo questa mia dichiarazione, c’era un sacco di gente che diceva che le cose dopo l’uccisione di Falcone si erano quietate e quindi perché avevano fatto quest’altra cosa che aveva portato al 41bis a tante persone? Questo me lo aveva detto Bernardo Brusca e Pippo Calò.
Ci furono altri commenti?
Non ricordo.
Lei ha conosciuto Marcello Dell’Utri?
Si l’ho conosciuto per una circostanza casuale, i fratelli Dell’Utri erano 3, uno di questi era compagno mio di scuola media, gli altri due erano liceali. Erano delle persone che sapevano giocare bene a calcio. Ho avuto modo di conoscerli. Con il fratello piccolo, che poi morì, ero compagno di scuola e avevo più confidenza.
Lei ha mai incontrato a Milano Marcello Dell’Utri?
Si una volta che andai a Milano usciva da un edificio di costruzione del periodo fascista insieme ad altri personaggi che sapevo essere residenti a Milano, o vicini o membri di Cosa Nostra. Io ero andato a Milano e successivamente in Svizzera con Stefano Bontate, siamo nel periodo antecedente agli anni’80, nel periodo in cui c’era Sindona a Palermo.
Quando vide scendere Marcello Dell’Utri riesce a indicare quella scena?
La scena la potrei dipingere, ma non ricordo con chi era, mi pare con personaggi di Cosa Nostra palermitana ma non ricordo chi fossero.
Lei il 15 settembre del ’97 ha riferito: in genere io attendevo in macchina il Bontade, vidi scendere il Bontate, un fratello Martello, forse Alessandro, Mimmo Teresi e uno dei fratelli Dell’Utri che mi fu presentato come Marcello.
Confermo.
Lei ha mai saputo se Marcello Dell’Utri avesse avuto rapporti finanziari con Vito Ciancimino?
Si c’è stato un momento che l’hanno avuti ma Ciancimino lo definiva un coglionazzo, mi venne detto anche da Stefano Bontate. Io dicevo: questo si è comprato la Venchi Unica, poi la Bresciana costruzioni, aveva fatto degli affari con Vito Ciancimino che era legato a un personaggio di Villabate, un consigliere comunale di Palermo della sua corrente. Questo me lo disse Vito Ciancimino e si riferiva ad affari avuti precedentemente a quel momento (fine anni ’70) li aveva avuto nella prima metà degli anni ’70. Anche Stefano Bontate mi parlò di questi rapporti tra Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri. Eravamo in una via famosa di Milano.
Lei nel verbale del ’97 disse: Stefano Bontate mi aveva detto di affari tra Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri nell’edilizia.
Si, la Bresciana costruzioni.
Lei quando era detenuto in relazione alle elezioni del 1994 ha avuto modo di parlare con mafiosi di rango così da avere notizie sulle indicazioni di Cosa Nostra?
Ho avuto modo di avere parecchi contatti all’interno del carcere di Termini Imerese, quando usciva il primo turno d’ora d’aria passava dalle celle e io ero soddisfatto perché tutti gli uomini di alto rango di Cosa Nostra passavano da me per avere consigli da me su questioni politiche ed altro. Io ero stato presentato da un certo Guarneri di Canicattì come uomo d’onore. In quelle occasioni mi venivano chieste indicazioni o mi dicevano quello che dovevano fare. Avevano detto a mia moglie che io dovevo far votare Forza Italia. Io avevo cercato di sminuire la cosa perché non volevo che mia moglie si occupasse di quella cosa. Io sempre con i limiti del 41bis ho avuto modo di sentire altre persone e di fare rinioni e quindi dissi a tutti che si doveva votare per Forza Italia. Anche all’aula bunker di Caltanissetta all’udienza preliminare Leopardo con Piddu Madonia mi disse: Angelo per chi dobbiamo votare? Io dissi forte Forza Italia, ma anche per Violante, per sviare l’attenzione.

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Calcedonio Di Giovanni: Cosa Nostra esportata a San Marino

Sequestrati beni per mezzo miliardo di euro all’imprenditore monrealese Calcedonio Di Giovanni, la sua scalata al successo grazie alla mafia.Operazione della Dia di Palermo e Trapani: tra i beni sequestrati, centinaia di villette del villaggio Kartibubbo

Il suo successo sarebbe stato legato “indissolubilmente intrecciato con i destini delle famiglie mafiose di Mazara del Vallo”. La sezione misure di prevenzione del Tribunale di Trapani accoglie la proposta della Dia di Palermo e Trapani e mette sotto sequestro l’impero economico dell’imprenditore monrealese Calcedonio Di Giovanni: un valore strabiliante di 500 milioni di euro. Tra questi, ci sono anche un centinaio di case nel villaggio vacanze Kartibubbo a Campobello di Mazara. Ed è proprio a Kartibubbo che, secondo l’accusa, sarebbe emerso “il collegamento di Di Giovanni con uno dei principali artefici del riciclaggio internazionale, ossia Vito Roberto Palazzolo”.  (…)

Di Giovanni, viene descritto come “imprenditore spregiudicato” entrato in affari anche con mafiosi di Castelvetrano, ad esempio Filippo Guttadauro, cognato di Matteo Messina Denaro, e in contatto con Pino Mandalari, il commercialista di Totò Riina.

(…) Per tracciare la presunta pericolosità sociale di Di Giovanni gli uomini della Dia raccontano il suo recente tentativo di sottrarre il patrimonio alla scure delle misure di prevenzione. Quattro mesi fa, nel giugno 2014, avrebbe costituito in Inghilterra la società “Titano real estate limited” che si occupa di gestione di villaggi turistici con domicilio fiscale italiano nel villaggio Kartibubbo. L’amministratore della società, un mazarese, il mese scorso ha aumentato il capitale. Si è passati dagli originari 100 euro agli 11 milioni di euro versati dal socio “Compagnia immobiliare del Titano” con sede a San Marino. I soldi riguardano il ramo di azienda costituito da un centinaio di immobili nel villaggio turistico. Una manovra organizzata da Di Giovanni, sostiene l’accusa, per evitare il sequestro e mantenere saldo in mano il potere.

Ed invece il sequestro si è abbattuto sul patrimonio che comprende decine e decine di terreni e case in provincia di Trapani e Palermo. E una sfilza di società: “Titano real estate limited, “Compagnia immobiliare del Titano”, Il Cormorano, Fimmco, “Campobello park corporation, “Immobiliare La Mantide”, “Associazione orchidea club, “Selinunte country beach, alcune quote del “Selene residence” di Campobello di Mazara, “Parco di Cusa vita e vacanze, Dental house, Numidia srl. (…)

E’ cosa vecchia andare d’accordo con la mafia

GENCO-RUSSO-2Giusto qualche settimana fa, ripensando ai vari Dell’Utri, Cosentino e gli altri compari belli candidati impunemente in politica nonostante una compromessa storia personale, ripensavo al silenzio intorno al boss Giuseppe Genco Russo e giusto oggi incappo in un articolo interessante e ben fatto di Rey Brambilla:

Era terribilmente a disagio durante la tribuna politica del 1960, quando un giornalista gli chiese i motivi per cui il suo partito avesse candidato un boss mafioso nelle liste siciliane.
Non si sta parlando di Silvio Berlusconi e “Forza Italia”, ma di Aldo Moro e la “Democrazia Cristiana”: il partito dello scudo crociato aveva candidato Giuseppe Genco Russo, riconosciuto super boss mafioso, nel seggio di Mussomeli (Caltanisetta), promuovendolo a consigliere.
L’opinione pubblica italiana si stupisce per la presenza in parlamento di Luigi Cesaro (politico dai risaputi legami con la camorra) e di altri politici indagati per mafia: episodi inquietanti ma riguardanti uomini collusi con la mafia e non dei boss come Giuseppe Genco Russo.
Altrettanto umiliante è individuare la figura del boss e riflettere come un personaggio simile possa aver rappresentato le istituzioni: un uomo rude, grasso, volgare e fiero di esibire le più bieche abitudini contadine (sputare per terra, esibire scarpe sporche, essere sgrammaticati) ma nello stesso tempo egocentrico (al punto di essere ribattezzato “la Lollobrigida” dagli stessi criminali, per un’attitudine a farsi fotografare).

Perché la Democrazia Cristiana incappò in uno scandalo di tale portata?

Il resto è qui.

Alle donne di Cosa Nostra mancano i soldi

Sta succedendo qualcosa (di buono) a Palermo dove i numerosi arresti recenti di uomini di Cosa Nostra hanno portato l’organizzazione al limite del crac finanziario spingendo le mogli degli arrestati a lamentarsi per il mancato pagamento di contributi mensili che la mafia assicura alle famiglie dei propri componenti. Ed è una buona notizia perché più di tutto la mafia teme l’essere intaccata nella credibilità e questo suo recente non riuscire “ad onorare gli impegni” potrebbe trasformarsi in un segnale importante. Perché quando le mafie non saranno nemmeno convenienti allora, solo allora, potremo parlare di un futuro ottimista.

Sulla codardia e vigliaccheria dei mafiosi

Un bell’articolo di Giorgio Bongiovanni:

Colgo l’occasione per esprimere una volta per tutte un concetto basato su fatti conosciuti a tutti: la mafia è vigliacca, gli uomini mafiosi sono assassini e codardi, individui che hanno paura.
I mafiosi, com’è noto, hanno una gerarchia militare, per esempio Cosa Nostra si divide in soldati, capidecina, capi famiglia e capi mandamento facenti parte della cosiddetta Cupola, fino ad arrivare a Totò Riina, capo dei capi. Ebbene tutti loro, nessun grado escluso, sono un branco di vigliacchi e codardi. Anche lo stesso Leoluca Bagarella, considerato un mito tra i killer di Cosa Nostra perché autore di centinaia di omicidi, rientra in questa categoria. Quasi mai questi soggetti hanno affrontato le loro vittime ad armi pari dimostrando il coraggio di affrontarle faccia a faccia, come in un vero duello. Basti pensare che per uccidere un solo uomo, solitamente i mafiosi preparano un gruppo di fuoco composto da almeno cinque killer.

Con il termine duello intendo, come raccontano la cultura e la storia, un modo di confrontarsi di due nemici che alla fine non potendo più tollerarsi vicendevolmente arrivano alla sfida diretta. Un metodo violento di confronto, che porta alla morte dell’avversario, ma senza dubbio più nobile e corretto dei metodi usati dalla mafia per eliminare i propri nemici. Vince il più forte sia esso più rapido con la pistola o con la spada. Diversamente, invece, negli omicidi di mafia i killer uccidono a tradimento, alle spalle, senza nemmeno dare la possibilità alla vittima di difendersi. Come è successo ad esempio, nelle stragi del ’92 o nell’assassinio del Generale dalla Chiesa entrambe esecuzioni a tradimento. Fu necessario, al boss Nino Madonia, un agguato per uccidere a colpi di kalashnikov il Generale e sua moglie Emanuela Setti Carraro, morta con lui, mentre percorrevano via Isidoro Carini, seguiti dall’agente di scorta Domenico Russo. Colpire alle spalle con questa azione vigliacca era l’unico modo, perché non avrebbe mai avuto il coraggio di affrontare il Generale faccia a faccia. Così come Aldo Ercolano che colpì alla nuca, da dietro, con cinque colpi di pistola il giornalista Pippo Fava mentre stava andando a prendere sua nipote a teatro e poi fuggì, senza che Fava avesse il tempo di capire chi gli aveva sparato.
Tutte le mafie, da Cosa Nostra, all’Ndrangheta, dalla Camorra alla Sacra Corona Unita, fino alle più grandi organizzazioni criminali internazionali del Latino America, come Los Zetas (narcos messicani, ndr) hanno come denominatore comune ammazzare a tradimento, con vigliaccheria.
Quindi mi rivolgo ai giovani di tutta Italia e del mondo: State sempre lontani da questa gente. Non solo perché sono mafiosi e criminali ma anche perché sono gente senza onore, senza anima e soprattutto non è vero che sono coraggiosi. Hanno dalla loro parte l’alto senso della criminalità, questo è vero, il fatto che sono sanguinari, ma non sono leali, né sinceri, non sono altro che codardi e vigliacchi e per usare una frase storica di Leonardo Sciascia Sono nient’altro che dei quaquaraquà.

“La vera storia della vicenda Berlusconi? Mafia, mafia, mafia, soldi, mafia”

emilio-1I pm che indagano sulla trattativa Stato-mafia hanno interrogato Fede dopo che dalla procura di Monza è arrivata la registrazione di una conversazione. Un file realizzato con il telefonino da Gaetano Ferri, personal trainer di Fede, che nel luglio del 2012 registra una conversazione con l’ex direttore del Tg4, all’insaputa di quest’ultimo. Nella registrazione si sente Fede che spiega alcuni passaggi dei collegamenti tra Arcore, Dell’Utri e Cosa Nostra. “C’è stato un momento in cui c’era timore e loro avevano messo Mangano attraverso Marcello” spiega Fede al suo interlocutore. Che ribatte: “Però era tutto Dell’Utri che faceva girare”. “Si, si era tutto Dell’Utri, era Dell’Utri che investiva” risponde Fede.

Poi il giornalista si pone una domanda retorica con risposta annessa: “Chi può parlare? Solo Dell’Utri. E devo dire che in questo Mangano è stato un eroe: è morto per non parlare”. Quindi il giornalista fornisce al suo personal trainer la sua estrema sintesi di quarant’anni di potere economico e politico: “La vera storia della vicenda Berlusconi? Mafia, mafia, mafia, soldi, mafia”.

Parola di Emilio Fede.

La mafia e i cavalli di Mangano. Ancora.

La Direzione distrettuale antimafia di Milano colpisce la mafia in ciò che le sta più a cuore: il denaro. E lo fa con il maxi sequestro di 124 immobili, tre società e 81 conti correnti gestiti, per l’accusa, da due professionisti: i fratelli Rocco e Domenico Cristodaro, 47 e 43 anni, di origine calabrese, che gli investigatori ritengono i ‘contabili’ della famiglia Mangano.

L’operazione, condotta da guardia di Finanza, squadra mobile e carabinieri, è la diretta conseguenza di quella che nel settembre scorso portò all’arresto del genero e della figlia di Vittorio Mangano e all’iscrizione dei due professionisti per associazione a delinquere di stampo mafioso. Così gli investigatori hanno eseguito un sequestro a fini di confisca di appartamenti, denaro, ma anche orti, appezzamenti di terreno, frutteti, maneggi e un’azienda agricola a Crema, la ‘Fazenda Rocco’. Qui, i finanzieri, oltre a scoprire ampi uffici arredati in modo lussuoso con stile spagnolo, hanno trovato una sorta di zoo: cammelli, zebre, lama, antilopi, oltre ad animali comuni che erano tenuti nella massima cura. E, in un locale, alcune magnifiche carrozze antiche.

I fratelli Cristodaro sono titolari di due studi di consulenza contabile a Milano e in provincia di Cremona e sono appunto sospettati di essere i reali proprietari e gestori del patrimonio accumulato nel corso degli anni grazie all’attività del clan dei Mangano.

Il provvedimento di sequestro è stato emesso dalla sezione delle misure di prevenzione del tribunale di Milano, su richiesta del procuratore aggiunto Ilda Boccassini, a capo della Dda, e dal pm Alessandra Dolci ed ha portato al sequestro di beni a Milano e in provincia di Biella per un ammontare di oltre cinque milioni di euro.

I due fratelli Cristodaro erano già finiti nel mirino di indagini condotte da varie forze di polizia, tra le quali i finanzieri della tenenza della guardia di Crema. I militari cremaschi aveva individuato un reticolo di società riconducibili ai due professionisti che erano state usate per una frode fiscale da 128 milioni di euro di base imponibile evasa e fatture false per oltre 94 milioni. Operazioni che, secondo gli investigatori, servivano per riciclare il denaro che proveniva dalle attività illegali e che poi era nuovamente messo a disposizione delle organizzazioni criminali.

Del resto, sottolineava il gip nell’ordinanza che portò in carcere Cinzia Mangano, la figlia del boss defunto, in Lombardia siamo di fronte a una “mafia imprenditoriale”. “L’associazione contestata corrisponde alla mafia imprenditoriale – scriveva il magistrato – cioè  a un’associazione che si avvale della forza dalla storia e dalla fama della realtà criminale a cui appartiene… non per realizzare in via esclusiva evidenti azioni illegali, bensì per entrare nel tessuto economico della zona d’appartenenza e trarne un beneficio economico”.

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Gli applausi al funerale del boss

A Paternò il funerale del boss Salvatore Leanza (detto Turi) accende per le strade l’improvviso (ma davvero?) applauso solidale di alcuni cittadini. Un pezzo di città si trasforma in un omertoso abbraccio per l’uomo crivellato da colpi di pistola in viale dei Platani. Salvatore Leanza era stato condannato per l’omicidio avvenuto nel 1979 di Alfio Avellino, che all’epoca gestiva una radio privata ad Adrano.

C’è tanto d lavorare. Tanto.