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cosa nostra

Il gioco grande e osceno della mafia

DSCF2710di Roberto Scarpinato*
In quanto Procuratore Generale mi occupo delle misure di sicurezza nei confronti dei magistrati nelle tre province di Palermo, Trapani e Agrigento. Questa parte della mia attività è divenuta sempre più impegnativa perché in questi ultimi mesi si sta registrando una straordinaria escalation di minacce, di intimidazioni che credo non abbia precedenti e che riguarda un numero crescente di magistrati. Non si tratta solo dei magistrati di cui ha dato notizia la stampa nazionale – mi riferisco per esempio a Di Matteo, agli altri pm che si occupano del processo sulla cosiddetta trattativa, ai quali in questi giorni si è aggiunta Teresa Principato, che segue le indagini per la cattura di Matteo Messina Denaro – ma anche di altri pubblici ministeri e di magistrati della giudicante, soprattutto quelli che si occupano delle misure di prevenzione. La mia sensazione complessiva è che all’interno dell’universo mafioso stia accadendo qualcosa, che stia lievitando una insofferenza sempre maggiore di cui occorre decifrare le motivazioni complessive. L’idea che mi sono fatto è che occorre distinguere due tipi di pericoli. Un pericolo che viene dal presente, dall’attualità della mafia della Seconda Repubblica; e un pericolo di natura diversa che viene dal passato, cioè dalla mafia della prima Repubblica. L’interagire di questi due pericoli potrebbe creare una miscela esplosiva. I pericoli che vengono dal presente e hanno, a mio parere, una causale economica.

Anche la mafia soffre la crisi
La crisi economica che attanaglia tutto il paese ha messo in grave difficoltà anche la mafia siciliana in quanto ha ridotto drasticamente le entrate derivanti dalla predazione sistematica dei fondi pubblici realizzata in mille modi, grazie anche a ramificate relazioni collusive con il ceto politico-amministrativo (manipolazione di appalti e commesse pubbliche); e le entrate derivanti dalle estorsioni “a tappeto”. Nel 2007 gli investimenti pubblici avevano raggiunto 890 milioni di euro mentre nel 2012 si sono ridotti a 351 milioni e nei primi otto mesi del 2013 a 196 milioni. Quanto alle estorsioni si va riducendo sempre di più la platea numerica dei soggetti da estorcere. Sono migliaia le imprese che hanno chiuso i battenti e altre sopravvivono a stento tra mille difficoltà. La riduzione delle entrate ha un impatto notevole sulle spese correnti di ordinaria amministrazione dell’organizzazione. Mancano i soldi per mantenere le numerose famiglie dei carcerati, per pagare la mesata della manovalanza in libertà, per finanziare le spese legali. Cresce dunque giorno dopo giorno un’insofferenza che non si manifesta solo nei confronti della magistratura accusata, per esempio, di sequestrare e confiscare imprese e beni mettendo sul lastrico centinaia di famiglie; ma anche e soprattutto – e qui sta la novità – nei confronti della stessa classe dirigente di Cosa Nostra. Nei confronti di alcuni capi un tempo ritenuti carismatici, come Messina Denaro, monta la critica di pensare solo a se stessi e ai propri affari, disinteressandosi del popolo mafioso. Ad altri capi viene mossa la critica di esser troppo deboli, incapaci di “far abbassare le corna a una magistratura troppo ringalluzzita”.

Come nella società civile legale nei momenti di crisi economica e di scontento prende corpo la richiesta di uomini forti che assumano il comando e fermentano fenomeni di spontaneo ribellismo, così nel mondo mafioso cresce la richiesta di uomini forti che mettano da parte la strategia provenzaniana della sommersione che andava bene quanto gli affari giravano per tutti; uomini forti che sappiano battere i pugni sul tavolo. Contemporaneamente, vista la mancanza di una solida e autorevole leadership, si profila il pericolo di un “rompere le fila”, cioè che ognuno si senta legittimato ad autogestire a livello individuale e in ordine sparso minacce e intimidazioni ai magistrati. Cresce anche il rischio che qualche emergente si autoproponga come l’uomo forte della situazione compiendo gesti di rottura.

Per completare il quadro telegrafico sui pericoli che vengono dal presente, aggiungerei il soffiare sul fuoco di questo scontento popolare da parte di un mondo di colletti bianchi gravitanti nel mondo dell’imprenditoria collusa o contigua che, dietro le quinte, cavalca strumentalmente la crisi additando come corresponsabile una magistratura accusata di sequestrare e confiscare imprese un tempo floride che davano lavoro portandole al fallimento. Sono accuse infondate perché le imprese erano floride solo perché venivano gestire nell’illegalità evadendo il fisco, imponendosi sul mercato con metodi mafiosi, eppure fanno presa (…).

Il boss allude al ritorno alle maniere forti
Vengo ora a esaminare i pericoli che vengono dal passato, cioè dalle minacce e dai propositi di morte di Riina di cui la stampa nazionale ha dato ampie notizie. In sostanza Riina invoca un ritorno alle maniere forti, il compimento di gesti eclatanti di rottura per dare una lezione ad una magistratura che non intende fermarsi nelle indagini. Questo imput di Riina che viene dal vertice dell’organizzazione da parte di un capo che, seppure detenuto da 24 anni, secondo le regole di Cosa Nostra non è mai decaduto dalla carica, intercetta la voglia crescente del ritorno alle maniere forti che viene spontaneamente dal basso. Al di là degli scopi immediati e reconditi di Riina, le sue parole possono dunque essere interpretate all’interno dell’organizzazione come una investitura o un’ autorevole legittimazione all’azione di coloro che premono per un ritorno alle maniere forti, spostando così l’ago della bilancia a loro favore rispetto ai “moderati”. Riina ha continuato a manifestare quei propositi di morte anche dopo avere appreso dalla stampa che le sue parole erano state ascoltate. La situazione di instabilità politica è un ulteriore fattore di incremento del rischio. Veniamo ora all’analisi delle minacce di Riina, e qui sta la parte più difficile. In questi ultimi tempi mi veniva da pensare che in questo paese è come se fossimo prigionieri del nostro passato, un passato che pesa come un’enorme zavorra sul futuro. Siamo nell’Italia del 2014, la prima Repubblica è defunta da un quarto di secolo, la seconda è agli sgoccioli, il mondo è cambiato e noi siamo ancora qui a interrogarci, a misurarci con i pericoli di una possibile ripresa della strategia stragista. Costretti dunque a vivere con la testa rivolta all’indietro, perché se volti le spalle al passato, può colpirti a morte per ragioni che vengono da lontano e che restano indecifrabili a chi ignori la storia del nostro paese, la cruenta e segreta lotta per il potere che ha segnato la storia italiana. Quando abbiamo appreso dei propositi di morte di Riina ci siamo posti alcuni interrogativi che, a mio parere, non hanno trovato sinora risposte plausibili. Il primo nasce dal fatto che quelle minacce così reiterate non sembrano avere una causale apparente adeguata. Mi spiego: le stragi del 1992-‘93 erano una reazione alla conferma nel gennaio del 1992 della condanna del maxiprocesso da parte della Cassazione. Una vendetta nei confronti dei politici che non avevano mantenuto le promesse di impunità, di Falcone e Borsellino artefici di quel processo e – secondo una tesi accusatoria in corso di verifica e nel cui merito non entro – anche uno strumento per esercitare pressioni su alcuni vertici statali per indurli a concedere benefici processuali. Ma una strage che dovesse essere compiuta ora e che dovrebbe colpire Di Matteo o qualcuno degli altri magistrati che gestiscono il processo sulla “trattativa”, che scopo avrebbe?

Ove pure quel processo dovesse concludersi con sentenze di condanna, si tratterebbe di pene detentive di pochi anni, assolutamente irrilevanti per uno come Riina che ha collezionato una serie di ergastoli. Dunque perché fermare un processo che avrebbe conseguenze processuali pratiche insignificanti per Riina? Direi di più: un’eventuale strage avrebbe effetti assolutamente contro producenti perché cristallerebbe nell’immaginario collettivo di gran parte della pubblica opinione la certezza che la strage è stata compiuta per impedire l’accertamento della verità, radicando così la certezza che la tesi accusatoria era fondata. Un boomerang quindi. Non appare plausibile poi la spiegazione che Riina non tollererebbe di essere dipinto – secondo la tesi accusatoria – come uno che avrebbe avuto rapporti sottobanco con esponenti dello Stato per condurre una trattativa, perché avere avuto quei rapporti equivarrebbe, secondo la sua mentalità, ad un atto di “sbirritudine”. Stando alla tesi accusatoria, Riina nel processo giganteggia come il grande capo che avrebbe costretto alcuni esponenti dello Stato a trattare in un rapporto di potenza a potenza, e secondo il disegno di “fare la guerra per fare la pace”. Il processo quindi non gli crea affatto un danno di immagine ma, al contrario, esalta, seppure nel male, la sua immagine. Ragionando per esclusione, tutti gli interrogativi restano aperti e per questo motivo sono a mio parere ancora più inquietanti perché non si riesce a trovare una spiegazione adeguata alla rabbia di Riina. A meno di non concludere che ci troviamo dinanzi a un comportamento irrazionale, al delirio di onnipotenza di un uomo condannato all’impotenza, e tenuto conto che non si riesce a trovare una spiegazione plausibile all’interno dello scenario processuale esistente e visibile – quello ricostruito nel processo della “trattativa” – non resta che ipotizzare che ciò che preoccupa Riina stia nel fuori scena. Cioè in un retroscena delle stragi del 1992-‘93 che non è ancora divenuto processuale, ma che si teme potrebbe divenirlo perché le indagini non si sono mai fermate e prima o poi qualche bocca che sinora è rimasta prudentemente chiusa potrebbe cominciare a parlare, soprattutto se dovesse aprirsi una fase di instabilità politico-istituzionale. Cosa si potrebbe celare di tanto misterioso e terribile nel fuori scena rimasto finora segreto da turbare i sonni di Riina al punto di incitare ripetutamente a compiere gesti eclatanti per scongiurare l’ evento della sua possibile emersione? A questo punto il discorso si fa complicato, perché non può essere più portato avanti mettendo in campo solo personaggi come Riina, Provenzano, ma occorre chiamare in causa quello che Falcone definì il “gioco grande” di cui la mafia ha sempre fatto parte.

La lotta per il potere si combatte nell’ombra
Falcone coniò quell’espressione per definire il gioco grande del potere dopo il fallito attentato all’Addaura del 1989, quando si rese conto che accanto ai mafiosi dell’ala militare avevano agito per il suo omicidio menti raffinatissime esterne alla mafia, i cui interessi convergevano con quelli della mafia. Falcone sapeva benissimo, sin da quando indagando sul riciclaggio internazionale si era imbattuto nel caso Sindona, nella P2, nell’omicidio Ambrosoli, nell’omicidio Calvi, che la lotta per il potere in Italia non si è svolta solo alla luce del sole, ma anche e soprattutto nell’ombra, utilizzando in alcuni momenti cruciali l’omicidio politico e le stragi, avvalendosi talora della mafia come braccio armato e della causale mafiosa come copertura per celare sottostanti causali politiche che dovevano restare segrete. Non esiste un solo paese europeo la cui storia sia segnata come quella italiana da una catena così lunga di stragi, omicidi politici, progetti eversivi dall’inizio della Repubblica al 1993. In questo gioco grande e sanguinoso del potere, la mafia ha svolto spesso un ruolo di coprotagonista in sinergia con altri poteri: pezzi deviati dello Stato, massoneria segreta, destra eversiva. Non è un caso che il capo mafia Luigi Ilardo, assassinato pochi giorni prima che iniziasse a collaborare con la magistratura rivelando i retroscena delle stragi del 1992-‘93 avesse anticipato che quel che era avvenuto era un discorso che veniva da lontano, aggiungendo che molti attentati in passato attribuiti alla mafia avevano causali complesse al di là della mafia (…).

Lo stragismo non segna solo la fine convulsa della prima repubblica nel 1992-1993, ma anche il suo inizio. La Prima Repubblica viene tenuta a battesimo dalla strage politico-mafiosa di Portella della Ginestra del 1 maggio 1947 che segna l’inizio della strategia della tensione e vede interagire gli stessi personaggi che saranno all’opera nei decenni successivi in altre stragi e progetti eversivi: mafiosi, mandanti politici, pezzi deviati dello Stato, massoni ed esponenti della destra eversiva. Da allora il gioco grande non ha mai subito interruzioni e ha visto spesso tra i suoi coprotagonisti la mafia. Nel 1970 la mafia viene coinvolta, come hanno raccontato Buscetta e Calderone, nel progetto del golpe Borghese che vide scendere in campo la stessa formazione del 1947. E ancora viene coinvolta nella strategia della tensione che insanguinerà il paese dal 1969 in poi. Alla fine del 1969 Cosa Nostra aveva programmato una serie di attentati che dovevano essere eseguiti con ordigni esplosivi da collocare in varie città italiane come Palermo, Catania ed Enna (…).

Potrei citare molti altri esempi, mi limito solo a ricordare che la strage del Rapido 904 consumata il 23 dicembre 1984 con 15 morti e 267 feriti, ebbe tra i suoi artefici Pippo Calò, i cui rapporti con la massoneria e con la destra eversiva sono stati processualmente provati. In tante, in troppe di queste stragi si sono verificati depistaggi e coperture degli esecutori materiali da parte di esponenti delle istituzioni certificate anche in sentenze definitive. È certo inquietante prendere atto che anche nelle indagini per le stragi del 1992-’93 si sono verificati depistaggi che ricordano quelli del passato: la sottrazione dell’agenda rossa di Borsellino, l’inquinamento con falsi collaboratori delle indagini sulla strage di via D’Amelio.

Perché ho voluto tracciare questo telegrafico excursus del gioco grande del potere e del protagonismo della mafia in questo gioco?

Perché vi sono molti elementi che inducono a ritenere che anche lo stragismo del 1992-‘93 sia stato un gioco grande nel quale si sono saldati convergendo – come in passato – interessi mafiosi e interessi di soggetti esterni che nel disegno stragista si sono inseriti orientandolo nei tempi, nei modi, negli obiettivi, in modo da conseguire obiettivi che inglobavano quelli mafiosi, ma avevano un respiro e un orizzonte più ampio.

Una “nuova strategia della tensione in Italia”
Mi limito a indicare alcuni elementi che peraltro sono noti agli specialisti della materia. Il 4 marzo 1992, otto giorni prima dell’omicidio di Salvo Lima, Elio Ciolini, già coinvolto nelle indagini per la strage di Bologna e detenuto in carcere, scrive una lettera al giudice istruttore Grassi il cui titolo è “Nuova strategia della tensione in Italia – Periodo marzo – luglio 1992”. Ciolini anticipa che nel periodo marzo-luglio sarebbero avvenuti fatti intesi a destabilizzare l’ordine pubblico come esplosioni dinamitarde, sequestro ed eventuale omicidio di esponente politico Dc ed eventuale omicidio del futuro presidente della Repubblica. Pochi giorni dopo l’omicidio Lima da lui preannunciato, il 18 marzo Ciolini rivela in un altro appunto che il piano era stato deciso da esponenti di massoneria, politica e mafia. (…)

Nella parte finale dell’appunto scrive: “Creare intimidazione nei confronti di quei soggetti e Istituzioni stato (forze di polizia ecc.) affinché non abbiano la volontà di farlo e distogliere l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, con un pericolo diverso e maggiore di quello della mafia”.

Si tratta non solo di una straordinaria anticipazione della tempistica e degli obiettivi della fase stragista che si consuma nel 1992 in Sicilia, ma anche dell’ anticipazione del successivo trasferimento della strategia stragista fuori dalla Sicilia, nel Centro Nord e della spiegazione dei motivi.

I registi del piano avevano previsto che dopo la prima fase, si doveva distogliere l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, creando un pericolo diverso e maggiore. A tale fine le stragi dovevano essere effettuate al Centro Nord, dovevano essere attribuite non più alla mafia ma a fantomatiche sigle eversive (e infatti vengono rivendicate con la sigla Falange armata) portando il terrore in tutto il paese con effetti destabilizzanti dell’intero sistema politico che si voleva portare al collasso. Come faceva Ciolini a sapere con così largo    anticipo tutto quanto sarebbe poi in effetti accaduto? Pochi giorni dopo l’omicidio Lima, il 19 marzo 1992 veniva pubblicato su una rivista vicina ai servizi segreti un articolo nel quale si rivelava che quell’omicidio era solo l’incipit di una strategia della tensione che aveva obiettivi e ispiratori politici. L’articolo descriveva un piano di destabilizzazione la cui esistenza e configurazione sarebbero state rivelate nei medesimi termini, solo alcuni mesi dopo, da alcuni collaboratori di giustizia. Costoro dichiaravano che verso la fine del 1991 si erano tenute delle riunioni tra i vertici regionali di Cosa Nostra nelle campagne di Enna in esito alle quali si era deciso di aderire a un progetto di destabilizzazione politica che aveva tra i suoi artefici esponenti della massoneria deviata, del mondo politico e della imprenditoria (…).

Chi e perché aveva deciso che Falcone, invece di essere facilmente ucciso a Roma con colpi di arma da fuoco, doveva essere assassinato a Palermo con un’enorme quantità di esplosivo in grado di uccidere insieme a lui anche un numero elevato di altre vittime? Nessun collaboratore è stato mai in grado di spiegare il motivo di quel cambio di strategia e chi la suggerì. Riina è tra i pochissimi a sapere la verità. Proseguendo nella indicazione degli elementi di emersione del gioco grande sotteso alla strategia stragista, possiamo ricordare che il 21 e 22 maggio 1992 l’agenzia di stampa vicina ai servizi sopra menzionata anticipò in due articoli che stava per verificarsi un bel botto esterno per influenzare l’elezione del presidente della Repubblica in corso di svolgimento.

Giovanni Brusca, uno degli esecutori materiali della strage di Capaci, ha dichiarato in dibattimento che la tempistica della strage aveva consentito di conseguire l’obiettivo di mettere fuori gioco Giulio Andreotti dalla corsa alla presidenza della Repubblica.

I quesiti senza risposta nel biennio delle bombe
Chi aveva suggerito a Riina oltre che le modalità esecutive anche la tempistica? Riina sa la verità. E ancora è interessante constatare come dopo che Claudio Martelli, Ministro della Giustizia, aveva varato il decreto Falcone che introduceva il 41 bis anche per i mafiosi, si siano mossi contro di lui contemporaneamente i mafiosi che progettarono un attentato, ed alcuni esponenti della P2 che iniziarono una campagna di stampa nei suoi confronti rivelando circostanze decisive circa il suo coinvolgimento nella vicenda del Conto Protezione che determinarono l’inizio di un procedimento penale e le sue conseguenti dimissioni. Si tratta di una singolare coincidenza di tempi o di una sinergia non casuale? Poco dopo le dimissioni giunse una telefonata della Falange Armata con la quale si comunicava che Martelli doveva essere grato che per lui era stato perseguita la via politica anziché quella militare. E ancora: chi era il soggetto esterno a Cosa Nostra che, come ha rivelato Gaspare Spatuzza, assistette al caricamento dell’esplosivo nell’autovettura utilizzata per la strage di via D’Amelio? Perché dopo il rapimento del figlio del collaboratore di Giustizia Santino Di Matteo, la moglie del Di Matteo in una conversazione intercettata del 14.12.1993 scongiurò il marito di non parlare degli “infiltrati” nella strage di via D’Amelio? Chi erano quegli infiltrati? E chi suggerì di scegliere per gli attentati consumati a Roma nella notte tra il 27 e il 28 luglio le Chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro? È un caso che quelle chiese avessero il nome di battesimo di Giovanni Spadolini e di Giorgio Napoletano, rispettivamente presidenti del Senato e della Camera? È un caso che Spadolini nel 1992 avesse fatto riferimento in varie interviste a un resoconto dei servizi segreti su rapporti intessuti di recente tra la mafia siciliana e alcuni settori della vecchia e nuova P2 e svesse indicato i vertici P2 come un grave pericolo per la democrazia? Come si spiega che nella stessa notte si verificò un black out dei centralini di alcune sedi di governo? Perché l’allora premier Carlo Azeglio Ciampi maturò, come lui stesso ha dichiarato, la convinzione che fosse in atto un progetto di colpo di Stato, convocando in via straordinaria il Consiglio supremo di difesa? Cosa si cela dietro lo strano suicidio in carcere di Antonino Gioé, esecutore della strage di Capaci, depositario di scottanti segreti e in contatto con i servizi, il 29.7.1993 due giorni dopo le stragi di Milano e Roma? É vero che, come afferma il collaboratore Di Matteo, Gioè stava per iniziare a collaborare con la giustizia? Perché e chi dispose un’esercitazione militare tra il 9 e l’11 novembre 1993 per l’ipotesi di guerra civile? E cioè proprio nello stesso periodo in cui veniva progettata la strage allo stadio Olimpico? Potrei continuare con decine di quesiti inquietanti, ma mi fermo qui.

Credo che quanto ho sin qui frammentariamente ricordato dia il senso di un possibile fuori scena, di un “gioco grande” che da sempre aleggia intorno alle ricostruzioni processuali sin qui effettuate come una matrioska più grande che contiene matriosche più piccole.

Un gioco grande che qualcuno teme possa di-svelarsi e irrompere sulla scena processuale se dovesse cedere qualche punto del sistema che sino a oggi e riuscito a blindare nel segreto i retroscena della stagione 1992-‘93.

Spero fortemente che abbiano ragione coloro che ritengono che le minacce di Riina siano solo lo sfogo e il delirio di onnipotenza di un uomo ridotto all’impotenza. Perché se così invece non fosse, quelle minacce suonerebbero come una sorta di chiamata alle armi per tutti coloro che come Riina e più di Riina hanno interesse a che questa parte della storia resti per sempre segreta, e che sulla scena restino solo un’icona assoluta del male di mafia come Riina e solitari paladini del bene come Falcone e Borsellino, da celebrare nelle cerimonie ufficiali senza porsi troppe domande scomode alle quali non si può dare risposta. A quelle domande la magistratura palermitana continuerà a cercare di dare risposta, costi quel che costi.

*Intervento di Roberto Scarpinato al convegno “A che punto sono la mafia e l’antimafia? Noi stiamo con Nino Di Matteo” (Palermo 12 gennaio 2014)

Le lettere di Provenzano partono da Reggio (Calabria)

BERNARDO-PROVENZANO-facebookA proposito dei rapporti di Cosa Nostra e ‘Ndrangheta nell’era Provenzano Pasquale Violi per Il Quotidiano della Calabria ha scritto un pezzo da ritagliare e tenere nella cartelletta degli articoli importanti:

di Pasquale Violi – 28 dicembre 2013

Nel lungo periodo della sua latitanza , il super boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, spedì alcune lettere risultate imbucate a Reggio. E i pentiti parlano dei suoi rapporti con i calabresi.

TRATTATIVA STATO – MAFIA Da latitante il super boss di Cosa Nostra spediva missive dalla città di Reggio

Provenzano, lettere dalla Calabria I collaboratori: “Rapporti con LamonteDe Stefano e un ricercato di San Luca

Reggio Calabria – Il 3 Aprile del 1994 Simone Castello, uomo fidato di Bernardo Provenzano, imbucò la prima delle due lettere che lo “zio Binnu” gli aveva chiesto di spedire da Reggio Calabria. Aprile ’94 e Luglio ’94, date che nel panorama della criminalità che viaggia sull’asse Sicilia-Calabria indicano il rapporto stretto che c’era e c’è tra “cosa nostra” e ‘ndrangheta. Il boss dei boss Bernardo Provenzano aveva le idee chiare sulla sua latitanza, sul fatto che non dovesse avere rapporti con nessuno e che la tecnologia lo avrebbe fatto cadere nelle mani delle forze dell’ordine. E’ rimasto latitante dal settembre del 1963 fino all’aprile del 2006 quando venne scovato in una masseria di Corleone, il suo regno. Per 43 anni è stato un’ombra che ha guidato il vertice della mafia siciliana insieme a Totò Riina. Oggi le sue lettere, i suoi pizzini, sono legate al fascicolo del processo sulla trattativa “stato mafia”, tra quelle missive anche quelle spedite da Reggio Calabria da Simone Castello, l’insospettabile uomo di “zio Binnu”. Ma perché spedire delle lettere indirizzate ai suoi generali da oltre lo stretto?
I motivi, che spiegheranno i pentiti, sono due: il depistaggio creato per far credere che Provenzano non fosse in Sicilia, e i contatti con gli uomini del clan della ‘ndrangheta che pure erano in affari con i corleonesi. E di questi contatti tra “cosa nostra” e ‘ndrangheta ne parlano due pentiti chiave della mafia siciliana: Angelo Siino e Luigi Ilardo. Il primo parla proprio del permesso chiesto a Bernardo Provenzano di poter andare a trattare con i calabresi. <<Io avevo chiesto a Giuseppe Madonia di poter incontrare questi calabresi – racconta il super pentito Angelo Siino ai magistrati della Dda di Palermo – siamo intorno al 1991. Dovevo incontrare tale Natale Iamonte che era il capo della mafia di Melito Porto Salvo e Piddu Madonia mi disse di sì ma che dovevamo informare anche lo “zio Binnu” che poi arrivò l’autorizzazione che mi ricordo dovevamo andare per sistemare un’impresa, sono certo di questo>>. Ma il pentito Siino ai magistrati dell’antimafia siciliana fa anche un’altra confidenza: <<Io avevo chiesto un incontro con i calabresi – riferisce il collaboratore di giustizia – e sapevo che Giuseppe Madonia aveva amicizie importanti in Calabria, le mie si erano essiccate con la morte di Paolo De Stefano>>.

A confermare i rapporti tra gli uomini della ‘ndrangheta e i corleonesi ci ha pensato anche Luigi Illardo, fidatissimo di Provenzano e persona a cui il super boss, che per 43 anni è rimasto latitante, ha inviato diverse lettere in codice. <<C’erano stati degli omicidi lì a Catania ma anche dopo a Gela – ha detto il pentito Luigi Ilardo – poi da me vennero Franco Romeo e Nitto Santapaola e Santapaola mi disse che dovevo stare attento perché Calderone (ndr il boss Giuseppe Calderone) voleva fottere me e mio cognato, allora facemmo arrivare degli amici calabresi, erano tre, uno lo conoscevo, tale Ciccio “Turro”, gli altri no, erano tutti di Reggio Calabria e stavano con me sempre, avevano sempre la pistola. Allora io quando c’erano questi iniziai a girare per cercare Calderone, era chiaro che se io guidavo la motocicletta allora avrebbe dovuto sparare Ciccio “Turru”, il calabrese. Poi seppi che tutto era iniziato perché mio zio era contrario alla droga e invece c’era stato un accordo tra Badalamenti, Bontate e Inzerillo>>. Ma è nell’azione di fuoco che Luigi Ilardo racconta dell’intervento dei calabresi. <<Tramite Santapaola riuscimmo ad avere un appuntamento con Calderone dalle parti di Acireale – riferisce il collaboratore di giustizia – allora organizzammo due gruppi e in uno c’erano i calabresi, Ciccio “Turro” e un latitante della zona di San Luca che io chiamavo Mico. Fu Turro a sparare a Calderone con una 38>>. Poi più volte ancora i due collaboratori di giustizia fanno riferimento ai legami con la Calabria e Luigi Ilardo racconta di quando fu lui, per comunicare con il super boss Bernardo Provenzano, incaricò Simone Castello di spedire una lettera, nel luglio 1994, da Reggio Calabria.

IL CASO 

Favori reciprochi tra siciliani e reggini  

I “killer” scambiati tra clan

Di Pasquale Violi

Reggio Calabria – Se il latitante di San Luca “Mico” è stato al fianco dei siciliani nell’omicidio del boss Calderone a Catania è il segno che cosa nostra e ‘ndrangheta si scambiano i “favori”, si “prestano” anche i killer. Un rapporto quello tra siciliani e calabresi che nel tempo si è cementato anche grazie ai traffici di droga e agli affari milionari fatti tra l’Italia, la Spagna e il Sud America. Ma il rapporto tra i clan della ‘ndrangheta e quelli della mafia ha origine lontane, molto lontane. Probabilmente uno dei primi episodi della letteratura criminale risale al 1967, precisamente al 23 Giugno del 1967, data di inizio della faida di Locri tra i Cordì e i Cataldo in cui morirono tre persone tra cui Domenico Cordì. Si parlò di sgarri per il contrabbando di sigarette come movente dell’agguato, ma quello che più conta è che secondo le informative delle forze dell’ordine tra i killer di quell’azione c’erano Tommaso “Masino” Scaduto, uomo delle famiglie di mafia di Bagheria e Angelo Di Cristina, boss che tra gli anni ’70 e ’80 avrà un peso criminale enorme nelle dinamiche di cosa nostra. Ma a riferire di scambio di favore a suon di calibro 7,65 è anche il pentito di Siderno Giuseppe Costa che ai magistrati di Reggio Calabria racconta di un omicidio commissionato dal boss Badalamenti. << I palermitani di Badalamenti – riferisce il collaboratore – ci chiesero di sparare ad uno scopino che lavorava a Siderno, lo facemmo e così potemmo iniziare un traffico di droga con i siciliani. All’epoca avevo rapporti con Vincenzo Mazzaferro ed insieme organizzammo due rapine ad istituti di credito tra Marina Jonica, io ho procurato armi e appoggio logistico, poi però entrammo in contrasto perché nel caso della seconda rapina mi diede una parte molto esigua del ricavato, mentre nel primo caso avevamo fatto a metà ciascuno. Poi avemmo questioni per un traffico di droga con la Sicilia. Mazzaferro su richiesta dei palermitani parenti di Badalamenti aveva chiesto di sparare ad uno scopino che lavorava a Siderno, la cosa fu fatta, fu usata una 127, ma quel tizio fu solo ferito ma i palermitani furono soddisfatti lo stesso e potemmo per questo iniziare un traffico droga con loro, ma Mazzaferro mi chiese i soldi in anticipo per un carico di droga e allora non se ne fece più niente>>. Infine è Rocco Varacalli, pentito di Natile a confermare i rapporti ‘ndrangheta-cosa nostra. <<Sono a conoscenza – dice il collaboratore – che Bernardo Provenzano e Totò Riina avevano frequentazioni con Cordì detto il “ragioniere”. So anche che Provenzano e Riina erano conoscenti del capo società del locale di San Luca>>.

Proprio questa frequentazione spiegherebbe il ruolo di pacificatori dei capi indiscussi della mafia siciliana nella guerra di Reggio Calabria tra la famiglia dei De Stefano e quella degli Imerti costata la vita a 966 persone tra il 1985 e il 1991. Poi le dichiarazioni del collaboratore entrano nella leggenda. <<Il citato Riina – racconta Varacalli – vestito da monaco si è recato in San Luca per fermare una faida che stava nascendo tra le famiglie locali>>. Tra il 2005 ed il 2012 almeno tre grosse operazioni antidroga, tra cui “Perseo” e “Dionisio” hanno evidenziato lo stretto rapporto di affari tra i clan calabresi e la mafia siciliana legata a Provenzano e Matteo Messina Denaro.

LO SCRITTO

<< In quelle zone si trattano grosse partite di soldi falsi>>

Di Pasquale Violi

Reggio Calabria – Ecco uno stralcio della lettera che Luigi Ilardo nel luglio del 1994 per il tramite di Simone Castello spedì a Bernardo Provenzano da Reggio Calabria. <<Carissimo zio è con gioia che ti scrivo queste righe, nella speranza che godi di ottima salute …. Abbiamo saputo che in quelle zone, persone vicine a V. stanno trattando delle grosse partite di soldi falsi da 50.000. Se c’è la possibilità saremo propensi ad acquistarne qualche grossa partita purchè ci vengono dati di prima mano, anche perché ci sono nostri amici che hanno avuto fatto delle grosse richieste. Purtroppo la crisi non è solo nel settore produttivo della nazione, bensì in tutti i settori e quindi un po’ tutti ne risentiamo. Se ci fosse la possibilità di far lavorare qualche ragazzo gelese, molte cose potrebbero cambiare. Per quanto concerne gli altri discorsi, tutto sembra andare per il verso, anche se qualche zone di ombra è pur sempre rimasta per quei discorsi che tu sai e riguardano i riesani C. e Decaro. Con la stima e l’affetto di sempre ti abbraccio, rimanendo sempre a tua completa disposizione f/ Gino>>.

Fonte: Il Quotidiano della Calabria” – Sabato 28 Dicembre 2013

Tratto da: 19luglio1992.com

Perché ha parlato Totò Riina

Un’opinione e un suggerimento arriva dalla bella intervista di Andrea Purgatori a Sergio Lari, procuratore capo di Caltanissetta su HP:

Secondo voi le esternazioni di Riina sono solo uno sfogo nel chiuso di un carcere di massima sicurezza o sono state raccolte come una precisa indicazione anche all’esterno, da Cosa Nostra?
“Mah, il paradosso è stato proprio rendere pubbliche quelle frasi che Riina ha rivolto a un detenuto pugliese con cui stava passeggiando nel cortile del carcere, con una terminologia e una modalità che ci fanno chiaramente pensare che non sapesse di essere intercettato. Infatti, nei colloqui coi familiari è completamente un’altra persona e si guarda bene dal fare dichiarazioni confessorie come quelle registrate in quell’ora d’aria in cui si accredita la responsabilità delle stragi del ’92, dice come le ha fatte e si vanta di essere il numero uno in quanto a stragi commesse. Averle pubblicate ha reso noto anche al popolo di Cosa Nostra quello che pensa e farebbe Totò Riina”.

Lei che conosce bene la sua psicologia, crede davvero che mentre diceva quelle cose si sentisse al riparo da una possibile intercettazione?
“Guardi, io l’ho interrogato due volte e credo di essermi fatto un’idea molto chiara della sua personalità. Riina ha un’alta considerazione di se stesso. Ma le frasi che ha pronunciato, le sue vanterie, soprattutto con un detenuto che non fa parte dell’organizzazione, sinceramente devo dire che non rientrano nei canoni comportamentali di un Capo dei capi di Cosa Nostra”.

Quindi, è lecito porsi qualunque domanda sul perché le abbia dette.
“Esattamente. E’ lecito porsi qualunque domanda. Ma bisogna anche considerare che da vent’anni è rinchiuso in regime di carcere duro e ci risulta che consideri quel detenuto come una persona di cui si può fidare. Ci sta che dopo vent’anni anche uno come lui abbia avuto un cedimento e si sia lasciato andare come mai avrebbe fatto prima”.

Ma perché?

Ma perché mentre si continua a parlare tra falchi e colombe della condanna per evasione fiscale di Silvio Berlusconi nessuno si è accorto (o ha voluto accorgersi) delle motivazioni allegate alla sentenza di condanna per Marcello Dell’Utri dove l’evasore Berlusconi viene riconosciuto inopportunamente vicino a Cosa Nostra?

Perché nessuno ha dato peso politico al fatto che  “è stato acclarato definitivamente che Dell’Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e (dal mafioso palermitano Gaetano) Cinà a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell’Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l’assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi”?

Perché, al di là della frode fiscale, non si parla del fatto che “in virtù di tale patto – l’incontro- i contraenti (Cosa nostra da una parte e Silvio Berlusconi dall’altra) e il mediatore contrattiale (Marcello Dell’Utri), legati tra loro da rapporti personali, hanno conseguito un risultato concreto e tangibile, costituito dalla garanzia della protezione personale dell’imprenditore mediante l’esborso di somme di denaro che quest’ultimo ha versato a Cosa nostra tramite Marcello Dell’Utri che, mediando i termini dell’accordo, ha consentito che l’associazione mafiosa rafforzasse e consolidasse il proprio potere sul territorio mediante l’ingresso nelle proprie casse di ingenti somme di denaro”?

Perché non si dice che Berlusconi pagò 100 milioni di lire al mafioso Cinà per avere protezione?

Perché il centrosinistra è così lontano dalla legalità come non mai e vorrebbe insegnarci che chi la rincorre è solo un’anima bella? Quanto comodo fa tutto questo silenzio sulla sentenza Dell’Utri? A chi?

Stanotte conto le domande. Mica le pecore.

Ma di cosa stiamo parlando

Tutto inizia, secondo quanto scritto dai giudici, con un incontro nel maggio del 1974 organizzato dallo stesso Dell’Utri nel proprio ufficio,  in cui erano presenti Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi,  Berlusconi e Dell’Utri stesso. Nel corso di quella riunione fu “siglato questo patto”, che ebbe inizio proprio con l’arrivo di Mangano ad Arcore. «L’incontro – è scritto nel provvedimento – ha costituito la genesi del rapporto che ha legato l’imprenditore e la mafia con la mediazione di Dell’Utri». «In virtù di tale patto – proseguono i giudici, i contraenti (Cosa nostra da una parte e Silvio Berlusconi dall’altra) e il mediatore contrattuale (Marcello Dell’Utri), hanno conseguito un risultato concreto e tangibile costituito dalla garanzia della protezione personale all’imprenditore tramite l’esborso di somme di denaro che quest’ultimo ha versato a Cosa nostra tramite Dell’Utri, che mediando i termini dell’accordo, ha consentito che l’associazione mafiosa rafforzasse e consolidasse il proprio potere  sul territorio mediante l’ingresso nelle proprie casse di ingenti somme di denaro»

Il giudizio che si legge nei confronti di Berlusconi nelle oltre 400 pagine delle motivazioni, è durissimo, soprattutto alla luce del ruolo di uomo di stato ricoperto dal Cav.: «l’imprenditore milanese, abbandonando qualsiasi proposito (da cui non è parso ma sfiorato) di farsi proteggere da rimedi istituzionali, è rientrato sotto l’ombrello di protezione mafiosa assumendo Vittorio Mangano ad Arcore e non sottraendosi mai all’obbligo di versare ingenti somme di denaro alla mafia, quale corrispettivo della protezione. Mangano – concludono i giudici –  divenne così lo stalliere di Arcore “non tanto per la nota passione per i cavalli” ma “per garantire un presidio mafioso nella villa dell’imprenditore milanese».

(qui)

A Marsala si spara

E quando si ricomincia a sparare non è mai una buona notizia. E la politica reagisce, vero?

È stata un’esecuzione mafiosa. A riferirlo sono gli investigatori della Squadra Mobile di Trapani, che tuttora sono al lavoro per scoprire il movente e soprattutto i mandanti dell’omicidio avvenuto questa mattina in contrada Samperi a Marsala. Si tratta di Baldassare Marino, un imprenditore del settore edile di 67 anni, con precedenti per associazione a delinquere di stampo mafioso. Marino è stato raggiunto al torace e alle gambe da numerosi colpi di fucile esplosi a distanza ravvicinata mentre si trovava a bordo della sua Opel Astra.

Secondo le ricostruzioni degli inquirenti guidati dal Vice Questore Giovanni Leuci, l’uomo avrebbe cercato invano di scappare, in quanto lo sportello del lato guida della vettura era già aperto. Ad avvertire la polizia, sono stati i dipendenti dell’autofficina Car Diesel,  poco distante dalla zona dell’efferato delitto. Secondo i rilievi del medico legale, l’omicidio si è consumato nella notte.
Molto probabilmente, la vittima aveva un appuntamento nel luogo dove è stato ucciso, una sorta di incontro chiarificatore conclusosi in una vera e propria tragedia.
Le indagini sono coordinate dal pubblico ministero Antonella Trainito.
Ciò che veramente non possono trascurare gli investigatori, è una croce realizzata con tralci di viti, che verosimilmente potrebbe trattarsi di un segnale in codice mafioso.
Baldassare Marino era socio di una ditta di calcestruzzi sita in contrada Strasatti, una zona di periferia molto isolata.

Mafia capoccia: a Roma le cosche pascolano

ostiaPartendo dagli stabilimenti balneari di Ostia, annichilita da più di 100 arresti e dall’emersione di intrecci e alleanze mafiose, la penetrazione delle mafie a Roma grazie a decenni di silenzio

Di Pietro Orsatti e Silvia Cerami

Anticipazione del servizio in uscita sul prossimo numero de I Siciliani giovani e pubblicato in contemporanea da AntimafiaDuemila e sul blog di Pietro Orsatti.

I marmi dell’Eur, la tenuta del Presidente della Repubblica, i dormitori costruiti dai palazzinari, pochi chilometri e il mare di Ostia, il lido di Roma. Il Kursaal de I Vitelloni e il Plinius sono mezzi vuoti, i proprietari degli stabilimenti balneari non festeggiano. Pochi passi per attraversare il canale dei Pescatori e via verso il salotto buono. A segnarlo villa Papagni affacciata sul Tirreno, con i suoi putti e stucchi pacchiani, che un imprenditore e qualche suo amico amministratore sognavano di trasformare in casinò. E alle spalle Ostia che non vuol più essere borgatara, con i wine bar dell’happy hour, le vetrine griffate e persino l’area pedonale. Qui si fa lo “struscio” tutto l’anno, ma oggi no. Anche se si è in piena stagione. Nessuno si fa vedere, nessuno ha voglia di parlare. Come se fosse un set abbandonato, dove resta solo l’attesa, la tensione.

Due operazioni a meno di quindici giorni di distanza l’una dall’altra hanno portato ad un centinaio di arresti. Colpito il clan degli “zingari” vicino ai Casamonica, che dalla periferia est della Capitale sono scesi a prendersi Ostia, pezzi della vecchia Banda della Magliana, ex Nar riciclati nella criminalità organizzata, addirittura uomini di spicco della famiglia di Cosa nostra dei Caruana-Cutrera. Famiglie a cui da vent’anni non si può dire di no, gli Spada, i Fasciani, i Triassi. Una triade che ha creato una “pace armata” per spartirsi gli affari. E poi le ispezioni all’ufficio tecnico del Municipio, affacciato proprio sulla spiaggia dei Triassi, gli indagati, i vertici sospesi per appalti e concessioni a favore dei clan. E quella parola, Mafia, che a Roma si ha da sempre difficoltà a pronunciare. Invece ora si sussurra, gira fra i tavolini dei bar, negli sguardi delle persone.

La guerra che nessuno voleva vedere

«Dallo scorso anno era evidente che si era alzato il livello, che c’era chi puntava più in alto e gli equilibri rischiavano di saltare», racconta uno “sbirro” che da anni osserva l’evolversi della Roma criminale. Da quando, con due esecuzioni spietate, Francesco Antonini e Giovanni Galleoni sono stati ammazzati. Gli investigatori ritengono, oggi, proprio dagli Spada. Due quarantenni cresciuti all’ombra della Banda della Magliana, quella che si dava per estinta negli anni ’90 e che invece c’è ancora.

«Non era un regolamento di conti di poco peso, ma l’inizio della guerra». E la guerra non è solo a Ostia, ma sta insanguinando, da quasi tre anni, tutta la Capitale: da Tor Sapienza a Tor Bella Monaca, daBoccea alla Cassia e alla Flaminia, giù fino alla Laurentina e alla PontinaPiù di 60 morti in 30 mesi. A Ostia però gli equilibri, le alleanze e i confini, sono ravvicinati e visibili. Microcosmo dove è possibile tutto e tutto avviene davanti agli occhi di questa città nella città. «I fatti, meglio sarebbe dire i cadaveri che insanguinano la Capitale, danno ragione a chi sostiene l’esistenza in Roma di una criminalità organizzata operante secondo gli stilemi delle associazioni mafiose». Non l’hanno scritto oggi. Si leggeva già nel 1991 nel capitolo dedicato a Roma della relazione della commissione Antimafia presieduta da Gerardo Chiaromonte.

“Baficchio” e “Sorcanera”, come erano chiamati nel giro Antonini e Galleoni, sono morti a meno di un chilometro a ovest dalla Rotonda della dolce vita, nel territorio degli “zingari” di piazza Gasparri. Qui il sole brucia i cassonetti già anneriti dalle fiamme, tende enormi nascondono terrazzi scrostati dalla salsedine, tutte le saracinesche sono serrate. I bagnanti sono poco più in là, ma oggi le strade sono deserte. Un pit bull ringhia dietro gli ondulati, solo una vecchia vestita di nero si affaccia dalla porta sormontata da un capitello con aquila e leone di un negozio abusivo trasformato in abitazione. Meglio restare a casa, meglio nascondersi. Agli angoli delle strade solo le sentinelle: marsupio in vita e occhi attenti. Controllano chi entra e chi esce. Non per lo spaccio, non per due giornalisti, non per verificare l’arrivo delle Forze dell’Ordine, ma per il timore che, visto il numero e la qualità degli arresti delle ultime settimane, ai nemici venga la tentazione di pareggiare i conti. Qui a ‘Ostia Nuova’, nel quartiere degli Spada, si sorveglia per paura.

«È dagli anni ’80 che non si respirava un clima del genere sul litorale, ma nonostante i morti per strada, i negozi e i capanni incendiati, nessuno si è allarmato più di tanto. Fino a quando non sono scattati i blitz. Allora tutti a mostrare preoccupazione, non per il quartiere, ma per l’immagine di Ostia e per il quieto vivere». Non ha peli sulla lingua il cinquantenne nato e cresciuto a due passi dal mare, ma che vive da trent’anni metà della sua vita a Roma in un ministero. Trenino e metro, la mattina. Metro e trenino la sera. E poi via a passo spedito e testa bassa, fino al confine del Bronx attorno a piazza Gasparri, lì a due passi dal teatro di Affabulazione, uno dei primi luoghi occupati a Roma già negli anni ’70 e da sempre fortino nell’abbandono di Ostia Ponente. «Se ne sono accorti, finalmente. C’è la mafia. Ci sono i tossici e si spara, ma la mafia non è solo qui nel ghetto, non ha solo la faccia coatta. Gira con il vestito buono e fa affari con tutti».

Gli affari dietro gli ombrelloni

Scommesse clandestine, estorsioni, usura, ma non solo. A Ostia si fanno gli affari, quelli grossi. Basta guardare poco più in là. Dietro due palazzoni popolari appiccicati e la piscina abusiva pericolante, ecco l’hotel quattro stelle, il lungomare. Con il cartello “divieto di balneazione” e il bagnino pronto a sorridere ai bambini in acqua. Quattordici chilometri di concessioni e di stabilimenti in grado di fruttare 60 milioni di euro a stagione.

Pochi metri a destra il porto turistico di Roma. Quello che «porterà ricchezza». Oltre 900 posti barca, 2000 posti auto, possibilità d’attracco per mega yacht da settanta metri. Un centinaio di milioni di euro spesi. E poi bar, locali, negozi di lusso. Oggi i pochi che sono aperti vendono vestitini “made in China”, di barche non se ne vedono molte, ma si pensa ad ampliarlo lo stesso. Il raddoppio lo vogliono i balneari e gli imprenditori del cemento, anche se il porto è stato un fallimento e infatti è fallito con tanto di libri in tribunale. Storia storta fin dall’inizio. I calcinacci per costruirlo furono svelati da una mareggiata, stavano lì sotto la sabbia. Quanto al direttore, Mauro Balini, «sin dalle prime conversazioni registrate sulla sua utenza – scrive il Gip nell’ordinanza dell’operazione “Nuova Alba” che ha portato a più di 50 arresti il 26 luglio scorso e dove dopo anni si contesta per la prima volta il reato di associazione mafiosa – è stato possibile avere conferma dell’esistenza di un ambiente economico-finanziario inquietante, all’interno del quale agivano appartenenti alla criminalità organizzata interessati ai rilevanti movimenti di capitali e ai grossi investimenti che si stavano realizzando nel territorio di Ostia Lido».

Ed è lui si legge «a mantenere importanti rapporti con elevate personalità anche militari; è Balini a trattare con Cmc Ravenna; con Epd Limited London; con Italia Navigando, avvalendosi di significativi intermediari. Accedere a lui equivale ad accedere ai piani alti, e scalzare i suoi abituali collaboratori equivale ad inserirsi nel circuito degli affari presentabili».

È grande il mondo guardato attraverso la rete di affari del porto di Roma che emergono dall’inchiesta. La Cmc Ravenna, con partner e attività in mezzo mondo, è una coop che i occupa di edilizia, trasporti, logistica portuale, gestione dei rifiuti. Un colosso, come lo sono Epd London (azienda ad alta tecnologia inglese) e Italia Navigando, società del Gruppo Invitalia, l’Agenzia Nazionale per l’Attrazione degli Investimenti e lo Sviluppo d’Impresa, che si occupa di investimenti e promozione dei porti turistici nel nostro Paese.

Il porto, che è porta di accesso via mare a Roma e via privilegiata, e nascosta, per armi e droga. Il 30 per cento della coca passa da queste coste. Un affare da decine di milioni di euro al mese, cifre colossali, perché ogni carico che entra sulla piazza romana rende fino a quattrocento volte il prezzo pagato dagli importatori che lo fanno arrivare dalla Colombia, dalla Bolivia, dal Venezuela, dalle coste dell’Africa, passando per Gioia Tauro e il lido della Capitale.

Alle spalle l’Idroscalo con i cantieri super esclusivi, tra le carcasse d’auto e i divani abbandonati, nella terra di nessuno dove è stato massacrato Pier Paolo Pasolini. Il monumento per ricordarlo l’hanno dovuto chiudere dentro la riserva della Lipu, che troppe volte l’avevano distrutto.

Da sempre una zona che fa gola a tanti. Un’area tutta da rivoluzionare. Pontile, porto turistico, persino un lungomare artificiale da costruire. Erano i tempi entusiastici dell’ex sindaco Gianni Alemanno per il mega progetto “Waterfront”. Previsti investimenti faraonici, che il Lido è «un monte d’oro», spiegava l’allora presidente del Municipio, Giacomo Vizzani. Oggi al X Municipio si tagliano pure i fondi per gli insegnati di sostegno per il disavanzo lasciato dalla scorsa amministrazione, ma che importa.

Il porto da gestire e da ampliare significa soldi, tanti soldi che le organizzazioni criminali vogliono controllare. Soldi da mettere accanto agli affari che da sempre fanno ricca Ostia, quelli degli stabilimenti balneari. E quindi non stupisce leggere nelle carte dell’inchiesta in corso, che un esponente dellafamiglia Giacometti, sodalizio già entrato nel 2004 nell’inchiesta Anco Marzio, che contestò l’associazione mafiosa, poi rigettata dal tribunale di Roma – avrebbe contattato «una persona presentatagli dal senatore Luigi Grillo», proprio per accedere all’affare delle concessioni balneari, data la preoccupazione per la nuova normativa europea, che impone dal 2015 l’affidamento delle spiagge demaniali solo attraverso gare pubbliche.

La porta di Roma

Ostia, bocca per sfamare il corpo di Roma. Con le mafie tradizionali, i colletti bianchi e i delinquenti locali che si sono mossi in libertà per decenni, reinvestendo il denaro di Cosa nostra, camorra e ’ndrangheta. Dividendosi il controllo, spartendosi i soldi.

Ostia con il suo “sindaco ombra”, “Don” Carmine, a capo dei Fasciani. Già strozzino con la Banda della Magliana, vanta amicizie trasversali: dalla camorra di Michele ‘o Pazzo’ Senese, al mondo eversivo degli ex Nar di Gennaro Mokbel, passando per Paolo Papalini, il fratello presidente dell’Assobalneari. Quello che ha concesso le concessioni per gli stabilimenti e firmato “determinazioni dirigenziali” per “lavori di somma urgenza” che appaltano 14 milioni di opere senza gara. “Don” Carmine, fuori e dentro del carcere, è sempre riuscito a gestire i suoi affari, soprattutto il narcotraffico.

L’élite di Cosa Nostra

E poi i fratelli “er Mafia”, Vito e Vincenzo Triassi, considerati luogotenenti della famiglia Caruana-Cuntrera, i Rotschild della mafia. La presenza dei Cuntrea – Caruana a Ostia, già certa negli anni ’70, ma oggi con un peso ben maggiore, non è un dato di poco conto. È gente di cerniera fra i siciliani e i cugini della Cosa nostra americana. Originari dell’agrigentino e già molto attivi nel contrabbando nell’immediato Dopoguerra, con probabili collegamenti con la rete messa in piedi da Lucky Luciano e dai corsi e i marsigliesi, spostarono il baricentro del proprio business trasferendosi fra Canada, Venezuela e Brasile prima dello scoppio della prima guerra di mafia negli anni ’50. Diventarono quindi asse portante del narcotraffico fra Sicilia e Usa, anticipando perfino la ‘ndrangheta nell’affare della cocaina, tanto da aprire un rapporto preferenziale con i narcos colombiani del cartello di Calì. Implicati poi nella Pizza Connection e in altri traffici internazionali, rientrarono negli anni ’70 in Sicilia (mantenendo le basi all’estero) e insediando una famiglia di Cosa nostra proprio a Ostia. Coinvolti nella French Connection, su cui indagarono fra gli altri Giovanni Falcone e Ciaccio Montalto, giocarono probabilmente un ruolo negli eventi che portarono all’assassinio del giudice francese Pierre Michel nel 1981.

Per misurare il loro peso criminale è importante osservare quale ruolo ricoprirono nella seconda guerra di mafia. In prima battuta si schierarono con i palermitani di Stefano Bontade e degli Inzerillo per poi saltare sulle barricate dei corleonesi guidati da Totò Riina. Una delle famiglie che ha pagato meno la dittatura dei “viddani” di Corleone e anzi ha accresciuto il proprio business con la “mattanza”. Oggi vederli centrali, se pur in ritirata a davanti all’offensiva degli Spada e soprattutto dei Fasciani, fa pensare. Fa pensare soprattutto perché Ostia è una delle porte di accesso per il traffico europeo della cocaina e ancora dell’eroina. Perché hanno cercato e trovato alleanze con pezzi della vecchia Banda della Magliana..

“Alba Nuova” e le altre inchieste che stanno interessando il litorale romano sembrano colpire tutti, ma i Cuntrea – Caruana, pur accusando in qualche modo il colpo, da una uscita di scena anche per via giudiziaria dei rivali Fasciani e Spada hanno tutto da guadagnare. Anche perché difficilmente si sono prestati a essere braccio dei colletti bianchi locali. Ostia conta, ma è solo un tassello di una trama ampia e complessa, una particolarità che il pentito di Cosa nostra Gaspare Spatuzza descrive con inquietante esattezza: «La cosa che ho notato che rispetto alla mafia, la mafia palermitana o siciliana che sia, a Roma hanno tutta un’altra mentalità, nel senso che non si vogliono sporcare le mani direttamente; il romano cerca di farsi proteggere le spalle; agire in seconda fila e però investire più…per avere più proventi possibile. Quindi cerca di non apparire ed esporsi (…) Sono ancora più criminali della manovalanza….perché fin quando sei sulla sfera ‘braccio armato’ e ‘braccio operativo’, diciamo, viene più facile localizzarli, ma dietro le quinte…». :

I “pudori” delle istituzioni

Timidamente intanto si comincia a prendere atto della escalation militare e affaristica delle mafie che insanguina non solo sul litorale, ma tutta la Capitale. Timidamente, anche se oramai, dopo decine di morti in “regolamenti di conti”, è impossibile non parlare di guerra di mafia. Dal centro alla periferia. Dai romani della “Banda” fino agli “scissionisti” e i Casalesi, dalla ‘ndrangheta a Cosa nostra che investono in attività commerciali e immobili di pregio in centro, ai Casamonica e alle loro enclave diventate fortini, fino ad arrivare agli stranieri che operano attraverso una sorta di rete di subappalti criminali. Una timidezza che porta il Prefetto Giuseppe Pecoraro al termine della riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza a parlare di «fatti e comportamenti riconducibili alla criminalità organizzata», salvo poi nascondere la mano con un pilatesco «non parliamo di colletti bianchi, non mi sento di includerli».

La banda mai diventata ex

Si ha la sensazione di essere precipitati nel passato. Ostia, Roma. Per tornare verso il centro si percorre la Cristoforo Colombo. Qui a poche centinaia di metri dalla zona residenziale bene dell’Ardeatino, con le finestre vista parco e i palazzi in cortina, qualche giorno fa un uomo è entrato in un centro estetico. «C’è Cinzia?», ha domandato. La donna, Cinzia Pugliese, si è presentata e l’uomo con tutta calma ha estratto una pistola e l’ha gambizzata. Il procuratore Giuseppe Pignatone parla di un possibile collegamento con il clan Fasciani. E la Pugliese non era certo una sconosciuta. Per anni infatti avrebbe avuto una relazione con Angelo Angelotti, ucciso il 28 aprile dello scorso anno a Spinaceto durante una rapina. Angelo Angelotti, uomo di spicco della vecchia Banda della Magliana, quello che avrebbe organizzato l’imboscata nel 1990 in via del Pellegrino a Enrico De Pedis, il capo, “Renatino”.

«La Banda della Magliana esiste ancora, ha usato e continua ad usare i soldi di chi è morto o è finito in galera. Forse non ha più bisogno di sparare. O almeno, di sparare spesso», raccontava nel 2010 davanti alle telecamere un altro ex della Banda, Antonio Mancini. Oggi è difficile dargli del millantatore o dell’allarmista.

Hanno preso “‘u profissuri”

Domenico Rancadorelatitante da circa 19 anni, è stato arrestato a Londra dalla polizia inglese su indicazione della polizia italiana. Rancadore, detto “‘u profissuri” ed inserito nell’elenco dei latitanti pericolosi, è ritenuto responsabile di associazione mafiosa ed estorsione.

Esponente di spicco di “Cosa nostra”, Rancadore è un pluripregiudicato palermitano di 64 anni, e deve scontare 7 anni di reclusione per i reati di associazione di tipo mafioso, estorsione ed altri gravi delitti. L’operazione è avvenuta attraverso precisi dati investigativi forniti dal Servizio Centrale Operativo e dalla Squadra Mobile di Potenza che hanno consentito agli investigatori inglesi, grazie alla collaborazione del Servizio per la Cooperazione Internazionale di Polizia, di localizzare il luogo dove il ricercato trascorreva la latitanza. Rancadore è stato arrestato ieri sera mentre faceva rientro nella sua abitazione dove viveva con la moglie di origine inglese. Nella circostanza ha tentato la fuga ma è stato immediatamente bloccato. Rancadore era ricercato dal 1994 e per la sua caratura criminale era inserito nell’elenco dei latitanti pericolosi del Ministero dell’Interno. Dal 1998, le sue ricerche sono state estese in campo internazionale. Nella capitale inglese gestiva una agenzia di viaggi e conduceva una vita agiata. Numerosi collaboratori di giustizia lo hanno indicato come esponente di spicco della “famiglia” mafiosa palermitana, con funzioni di vertice nel “mandamento” di Caccamo. In particolare negli anni ’90, egli ha rivestito il ruolo di capo di “cosa nostra” in Trabia. L’operazione è il frutto di un importante rapporto di cooperazione internazionale di polizia assicurata attraverso Interpol.

Quel magistrato antimafia deve morire

Mentre si scrivono fiumi di parole  su D’Alema e Renzi e sulla simpatia della capogruppo Lombardi a Palermo un altro magistrato subisce minacce:

Al palazzo di giustizia di Palermo l’allerta è al massimo livello, come non accadeva da anni. A preoccupare non è solo l’ultima lettera anonima che nei giorni scorsi ha annunciato un attentato contro il pm Nino Di Matteo. Ci sono anche due intercettazioni in carcere, effettuate dalla squadra mobile, a rendere incadescente il clima attorno ai magistrati del pool antimafia: sono dialoghi fra i boss e i loro familiari, che svelano senza mezzi termini la collera di Cosa nostra contro uno dei protagonisti dell’ultima stagione di arresti. E’ il sostituto procuratore Francesco Del Bene.
A febbraio, un capomafia della Noce, intercettato, si è sfogato con un familiare: “Quel Del Bene è troppo zelante, deve buttare il sangue, deve morire”. Un mese dopo, anche un boss dello Zen ha affidato un altro messaggio inquietante a un parente: “Quel pm è sempre presente in aula, sta rompendo…”. Così, attraverso familiari e parenti, gli sfoghi degli ultimi padrini finiti in cella sono arrivati fuori. Ecco perché al palazzo di giustizia c’è preoccupazione. Le due intercettazioni sono state oggetto di una riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza presieduta dal prefetto. E la sorveglianza attorno a Francesco Del Bene, affidata ai carabinieri, è stata intensificata.

Io spero che qualcuno al governo oggi si stia rendendo conto della crescente aria di intimidazioni su Palermo e di cos’è successo in questo Paese quando Cosa Nostra ha ingrossato la voce durante “vuoti” istituzionale. Me lo auguro davvero.

 

Matteo Messina Denaro che organizza l’America’s Cup

Beni per un valore complessivo di oltre 30 milioni di euro sono stati sequestrati agli imprenditori edili trapanesi Francesco e Vincenzo Morici, padre e figlio, di 79 e 50 anni, ritenuti dagli investigatori appartenenti al ‘cartello’ legato al boss latitante Matteo Messina Denaro e che per un decennio avrebbe condizionato appalti pubblici a Trapani. Il sequestro ha riguardato anche societa’ impegnate nel cantiere del porto di Trapani. Per gli inqirenti, nelle commesse venivano usati materiali non conformi, tali da pregiudicare la durata delle opere.

L’operazione, denominata “Corrupti Mores” ed eseguita dagli agenti della Divisione Anticrimine della Questura di Trapani e dai finanzieri del nucleo di Polizia Tributaria a Trapani, Roma, Milano, Gorizia e Pordenone con la collaborazione dei reparti territoriali delle fiamme gialle e della Divisione anticrimine della Questura di Roma, scaturisce da un provvedimento emesso dal presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Trapani su proposta del questore Carmine Esposito. Il sequestro ha colpito 142 beni immobili, 37 beni mobili registrati, 36 conti correnti e rapporti bancari, 9 partecipazioni societarie e 6 societa’, sequestrate e sottoposte ad amministrazione giudiziaria, tra cui il cantiere sull area portuale di Trapani. Secondo gli inquirenti, i Morici appartengono a un gruppo di imprenditori utilizzati da Cosa nostra per condizionare, a partire dal 2001 e per circa un decennio, le fasi di aggiudicazione di importanti appalti pubblici a Trapani, l’esecuzione di opere e le relative forniture. Gli elementi che hanno portato al sequestro sono emersi dalle carte del processo per concorso esterno in associazione mafiosa a carico del senatore trapanese del Pdl Antonio D Ali’, in corso davanti al gup di Palermo.

Il gruppo dei Morici si sarebbe accordato con Cosa nostra per aggiudicarsi la gara di strutturazione del porto tra il 2001 e il 2005 in occasione della preregata della Coppa America “Louis Vuitton act 8 e 9” e, da alcune intercettazioni, emergerebbe, scrivono gli inquirenti, l’esistenza di intese con il boss mafioso Francesco Pace, esponenti politici e altre imprese partecipanti, per favorire i Morici nell aggiudicazione e utilizzare materiali non conformi, tali da alterare la stabilita’ dell’opera nel tempo. Il vertice mafioso, secondo gli investigatori, avrebbe gestito, tramite i Morici, e altri imprenditori contigui, i meccanismi di controllo illecito sull aggiudicazione dei lavori pubblici e sulla esecuzione del lavori, prevedendo che l’impresa aggiudicataria versasse una percentuale ai funzionari pubblici corrotti ed alla famiglia.