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cosa nostra

Lo chiamavano Marcello

Marcello_Dell_Utri_3Un consiglio a chi chiede perché sia poi impossibile un “governo di responsabilità” con il PDL: leggete gli atti del processo Dell’Utri condannato oggi:

“Marcello Dell’Utri, permettendo a Cosa nostra di ‘agganciare’ Silvio Berlusconi, ha permesso alla mafia di rafforzarsi economicamente, di ampliare i suoi interessi, il suo raggio d’azione, di tentare di condizionare scelte politiche governative in relazione al successivo ruolo politico assunto da Berlusconi”, ha detto Patronaggio nel corso della replica. “Questa condotta – ha ribadito – è stata perpetrata dall’imputato coscientemente, conoscendo e condividendo il metodo mafiosodell’organizzazione, perseguendo il fine personale del rafforzamento della sua posizione all’interno delle varie aziende e iniziative di Silvio Berlusconi”.

E ancora: “Occorre richiamare, proprio per la complessità di lettura dei rapporti tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi. Come emerge dalle concordi dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sentiti, l’imputato “mediò la rinnovata richiesta estorsiva di Salvatore Riina, che facendo pressioni e violenze sull’imprenditore milanese, intendeva ‘agganciare’ l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi“. 

Secondo l’accusa, Dell’Utri per 30 anni avrebbe avuto rapporti con Cosa nostra. In particolare avrebbe fatto un ‘patto’ per la protezione dell’ex premier Silvio Berlusconi. La sua lunga vicenda giudiziaria è iniziata quasi vent’anni fa, nel 1994 con la sua iscrizione nel registro degli indagati. Il 26 novembre del 1996 l’udienza preliminare, quando il gup ha rinviato a giudizio il politico. Il 5 novembre 1997 ha avuto inizio il processo di primo grado, presieduto da Leonardo Guarnotta, che si è concluso a fine 2004 con la condanna di Dell’Utri a 9 anni di carcere. Nel 2006 si è aperto il processo d’appello terminato nel 2010 con una nuova sentenza di condanna, questa volta a 7 anni di carcere.

Dell’Utri, secondo i giudici d’appello, è colpevole ma solo per le condotte antecedenti al 1992, anno a partire dal quale non risulterebbero più provati, per la corte, i suoi rapporti con la mafia. La sentenza della Cassazione, invece, arrivata il 9 marzo del 2012, ha in parte ribaltato il verdetto. I giudici annullano la sentenza con rinvio. Perchè sono ritenute provate le sue collusioni con Cosa nostra al 1977. Confermata, invece, l’assoluzione per le accuse successive al 1992 per le quali la sentenza è definitiva. Il18 luglio del 2012 ha avuto inizio il nuovo processo d’appello. E alla fine della requisitoria il pg Patronaggio ha chiesto la conferma della condanna a 7 anni del primo processo d’appello. Oggi la Camera di consiglio e la sentenza. 

Mafia messinese dentro EXPO

expo-internaDopo gli allarmi, le conferme. L’Expo si ritrova in casa un’azienda sospettata di avere rapporti poco chiari con uomini legati a Cosa nostra. Risultato: la Prefettura di Milano ha emesso un’interdittiva per la Ventura spa di Furnari, paese non lontano da Barcellona Pozzo di Gotto. Mafia messinese, dunque, da sempre alimentata da un brutto impasto tra criminalità, massoneria e grigi settori della buona borghesia locale. La ditta ha un’importante sede milanese nel comune di Pieve Emanuele.

Attualmente la società siciliana fa parte di un’associazione temporanea d’impresa che si è aggiudicata l’appalto fino ad ora più goloso di Expo, vale a dire la costruzione della cosiddetta piastra sulla quale sorgeranno gli edifici dell’esposizione. Il tesoretto ammonta a 165 milioni e 130mila euro, portato a casa con un ribasso del 43%. Una percentuale pazzesca che ha fatto drizzare le antenne della procura di Milano. A tirare il gruppo è la veneta Mantovani, come venete sono la Silev e la Coveco, dopodiché c’è la romana Socostramo e quindi la Ventura, società quest’ultima iscritta alla Compagnia delle opere, il braccio finanziario del movimento cattolico Comunione liberazione.

All’azienda, seguendo una prassi ormai consolidata, verrà sospeso il certificato antimafia e dunque anche la possibilità di operare per Expo. Sospensione, si badi, che sulla carta può essere temporanea, visto che l’interdittiva può essere impugnata davanti al Tar. Così come fece la milanese Edil Bianchi, colosso del cemento al quale nel 2008 il Prefetto tolse la possibilità di operare dopo che le indagini certificarno l’affidamento di diversi subappalti a ditte calabresi in odore di ‘ndrangheta. Una decisione che fu però ribaltata dal Tribunale amministrativo che rimise in moto i camion della società. Questo per dire che, naturalmente, la scelta del Prefetto non qualifica la Ventura spa come ditta mafiosa, ma solo indica un sospetto ed evidenzia un rischio d’infiltrazione.

Un rischio che va cercato nelle carte dell’indagine Gotha tre, la maxi-operazione del Ros che nel luglio scorso ha portato in carcere dodici persone, tra cui l’avvocato Rosario Cattafi, oggi pentito e ritenuto uno degli uomini chiave per svelare finalmente i segreti della trattativa Stato-mafia. La Dia e il prefetto di Milano, però, non si sono spinti così in alto. Molto più banalmente, analizzando tutte le carte di quell’indagine, hanno incrociato più volte il nome della ditta Ventura. Ditta che, va detto, non sarà mai coinvolta penalmente in quell’operazione. A inguaiare gli imprenditori saranno,però, le dichiarazioni di alcuni testimoni verbalizzate dagli investigatori. Saranno loro, infatti, a coinvolgere la Ventura nel giro delle imprese collegate ai boss e alla grande spartizione degli appalti pubblici in tutto il Messinese.

Protagonista e puparo del gioco è Salvatore Sam Di Salvo, origini canadesi, ma curriculum (mafioso) tutto messinese. E’ lui, secondo la ricostruzione dei carabinieri, ad avere i rapporti con i Ventura. E così si scopre che nel 2003, durante una perquisizione in casa di Di Salvo i magistrati trovano una serie di certificati Soa, alcuni intestati alla ditta Ventura. Ma agli atti viene messo anche altro: e cioè la partecipazione della ventura a un consorzio temporaneo di imprese composto da ditte tutte (o quasi) riconducibili ai Ventura.

Racconta, invece, l’imprenditore Maurizio Marchetta: “Salvatore Di Salvo mi ha invitato, tra il fine 2002 ed i primi mesi del 2003 (…) a partecipare ad una riunione presso gli uffici dell’impresa Ventura Giuseppe. A questa riunione (…) Aquilla e Di Salvo (…) dicevano di voler organizzare in maniera più attenta, cioè più precisa, le turbative delle aste. Loro volevano coinvolgere Ventura e Scirocco per le sue conoscenze di altri imprenditori siciliani e del Nord. Infatti a loro interessava raccogliere un numero maggiore di offerte per condurre la turbativa con minimi margini di errore ed aggiudicarsi con maggiore certezza gli appalti di loro interesse (…) Sia io che Pippo Ventura abbiamo espresso le nostre perplessità in ordine alla riuscita di questa organizzazione delle turbative”.

Nel dicembre 2012, un’inchiesta dell’Espresso aveva già messo in luce i rapporti opachi della Ventura con i professionisti dei clan. All’epoca, il numero del settimanale uscì il 6 dicembre, i vertici di Ventura risposero con un secco comunicato stampa dove si precisava “che non risulta coinvolgimento alcuno e ad alcun titolo di suoi soci o amministratori nelle indagini condotte dalle Procure della Repubblica evidenziate; come d’altro canto certificato da tutti gli organismi deputati allo scrutinio dei rigidi requisiti richiesti per l’aggiudicazione di gare d’appalto di tale rilevanza”. Una rigidità nel controllo, rivendicata nei giorni successivi, dalla stessa società che gestisce Expo 2015. Anche in quel caso si fece appello agli alti livelli di controllo. Conclusione: pochi giorni fa la decisione del Prefetto di escludere la Ventura per sospetti legami con i clan.

(di Davide Milosa da Il Fatto Quotidiano)

Il colpevole dimenticato: Persinsala sullo spettacolo ‘L’innocenza di Giulio’

Riportare in prima pagina la verità e rispolverare la memoria degli italiani. L’intento di Giulio Cavalli, attore sotto scorta e consigliere regionale lombardo tra le fila di Sinistra Ecologia e Libertà, è chiaro. E, dopo un’ora e mezza di rappresentazione civile di cinquant’anni d’Italia, emerge trasfigurando l’essenza di un mondo che è stato e che forse ancora è. In L’innocenza di Giulio – Andreotti non è stato assolto, l’unico attore – ben spalleggiato dalla regia di Renato Sarti – sente il dovere morale di far presente la colpevolezza del sette volte primo ministro della Dc, nel parlamento italiano da più di sessant’anni: dall’Assemblea costituente a oggi. Rivive, in questo capolavoro di teatro impegnato, la faccia spesso occultata di Andreotti, l’alter ego dell’uomo in impermeabile e con la battuta sempre pronta. Cavalli chiede al pubblico, alla fine abbondante negli applausi e colpito fino alla commozione, una “collusione di dignità” per attraversare la vita del torbido timoniere e riportare alla luce quella condanna per associazione a delinquere con Cosa Nostra spazzata via in secondo grado, e poi in Cassazione, soltanto dalla prescrizione. Che ha sventato la sentenza, ma non cancellato i fatti.
“Occorre puntualizzare sempre”, non si stanca di ripetere Cavalli, impegnato in un monologo su un palco abbastanza disadorno: soltanto un video che proietta nomi e date e un inginocchiatoio su cui, Bibbia alla mano, genuflettersi per far scivolare via ogni accusa. “Altrimenti si tende a legittimare una politica che tesse rapporti con il malaffare”. Cavalli, che dello spettacolo ne ha poi fatto un libro (“L’innocenza di Giulio” – Edizioni Chiarelettere), rivanga il passato del Divo ricostruendo i suoi rapporti stretti con la Sicilia mafiosa, il suo comportamento sfuggente in occasione del rapimento di Aldo Moro, gli incroci con le peripezie del banchiere Sindona, gli ingranaggi tra politica, mafia e Vaticano, la sua estraneità all’omicidio del generale Dalla Chiesa, seguita dall’assenza al funerale. “Ma soltanto perché a questi preferisco i battesimi”, si affrettò a respingere le illazioni Andreotti.
Il video delle vittime della mafia dalla fine degli anni ’70 alle soglie del 2000, accompagnato da “I cento passi” dei Modena City Ramblers, è la più cruda e asciutta ricostruzione storica che non cita mai Belzebù, ma dà agli spettatori l’idea che la sua mano nella regia di questi omicidi ci sia stata, eccome. L’ultimo spettacolo del Teatro della Cooperativaè una completa ricostruzione storica della politica degli ultimi decenni. Peccato, però, che la situazione di oggi non sia poi tanto diversa.

Lo spettacolo continua: Teatro della Cooperativa
via Hermada, 8 – Milano
fino a sabato 16 giugno
orari: da mercoledì a sabato, ore 20.45

Produzione Bottega dei mestieri teatrali – Teatro della Cooperativa presentano:
L’innocenza di Giulio – Andreotti non è stato assolto
di e con Giulio Cavalli
con la collaborazione di Giancarlo Caselli e Carlo Lucarelli
regia Renato Sarti
musiche originali Stefano “Cisco” Bellotti

da persinsala

Licenziati dall’amico di Mangano

La notizia è stata derubricata ali trafiletti di cronaca ma LINKESTA riannoda i fili:

Sangue e manganelli a Basiano, nel milanese. La polizia ha caricato 90 lavoratori dell’Alma Group licenziati in tronco la scorsa settimana. Uno di loro è codice rosso all’Humanitas, mentre gli altri denunciano i «padroni». Cioè Natale Sartori, ex socio d’affari di Vittorio Mangano, vecchia conoscenza di Marcello Dell’Utri.

«I capi ci dicevano: ‘attenti a protestare che dietro di noi c’è la mafia’». Mohamed ha cinquant’anni. Viene dall’Egitto e ha un regolare permesso di soggiorno. Ha passato gli ultimi 15 a lavorare per 9 euro all’ora come facchino alla Gratico Srl di Basiano, nell’hinterland milanese, stabilimento dove si appoggiano le cooperative che si occupano di logistica e distribuzione alimentare per le grandi catene di supermercati come Il Gigante, Esselunga e Coop. […]

Del resto, Sartori era un amico e socio d’affari di Vittorio Mangano, il famoso stalliere di Arcore, in quella villa San Martino di proprietà dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Storie note. Gianni Barbacetto, giornalista del Fatto Quotidiano, ha definito Sartori come uno degli esponenti di spicco della «seconda generazione dei colletti bianchi di Cosa nostra».

Arrivato a Milano dalla Sicilia negli ’50 e ’60, Sartori, rolex submarine al polso, occhiali da vista Cartier, villa in Sardegna a San Teodoro, è stato titolare fino al 1994 della Cisa group, rete di società e cooperative che già all’epoca offrivano servizi alle imprese, soprattutto pulizie, facchinaggio, trasporti: lavoravano anche per Publitalia. Poi l’azienda ha cessato l’attività, come spiegano i dati della camera di commercio.

Dopo una condanna a 4 anni e 9 mesi per «corruzione continuata», Sartori è comunque tutt’ora un punto di riferimento per la logistica in Italia. Si è costruito un impero. Nel 2010 a Montopoli, in provincia di Pisa, la Cgil gli ha fatto la guerra quando aveva vinto un appalto della Conad per un magazzino di circa 50 mila metri quadri. I sindacati denunciarono «la tratta di migranti».

Lavoratori stranieri, per di più egiziani e pakistani che arrivavano dalla Lombardia per lavorare in Toscana. «Un segno evidente» spiegarono da Filt e Cisl «del rischio di traffico di lavoratori legati all’intermediazione di manodopera». L’affare con la Conad saltò, tra la soddisfrazione pure del Partito Democratico che da quelle parti è partito di governo: «Ha vinto la legalità, non la mafia».

Sartori è titolare insieme con la figlia Cristina e alla moglie Giargiana Provvidenza di diverse aziende che spaziano dall’alimentare ai bar fino alla ristrutturazione di immobili. Un impero nel servizio di distribuzione di catering, ma pure nell’immobiliare. Tra questa pure la Antichi Sapori Srl, Futura Srl, Immobitalia, Oversize, Eurologistica, Sistema Srl, Elco, F&P Holding.

Il giro d’affari è milionario. Basti pensare che la Italtrans, altra azienda che opera alla Gartico e che si appoggia alla Bergamasca, nel solo 2010 ha fatturato 140 milioni di euro, con una quota del 40% per le attività logistiche. Non solo. Gli affari sono pure all’estero. La signora Provvidenza risulta socia pure di una società di logistica in Romania, la Ge.Ho.Re.Ca distribution.

Il caso di Montopoli può essere solo un esempio del modo in cui opera Alma Group. La storia di Mohamed, infatti, fa scuola in questo spicchio di Brianza che cerca di combattere la crisi economica. Sono centinaia i lavoratori stranieri che ogni giorno cercano di portare a casa uno stipendio dignitoso.

È una «guerra fra poveri», con le società consortili che cercano manodopera sempre più a basso costo. C’è chi denuncia mancanza di norme di sicurezza. Altri che parlano di intimidazioni, giri poco chiari. Casi di «caporalato». A Pioltello, in un magazzino di smistamento l’anno scorso ci hanno trovato 25 chili di cocaina. Chi ci lavorava? Anche qui, tra i consorzi spunta la Alma Group.

Già allora Sartori si difese. E il legale della società, Francesco Marasà, già avvocato di Bernardo Provenzano e di Mangano, tutelò la società nelle sedi opportune. Ma i Cobas continua a fare muro.  «Continueremo a protestare», dice Fabio Zerbini che segue i lavoratori anche con assistenza legale. «Domani saremo qui per trovare una soluzione».

Chi ha ammazzato Falcone e Borsellino

Chi ha la vera responsabilita’ di quelle uccisioni, secondo Scarpinato? “Un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole e che affollano i migliori salotti: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei servizi segreti e della polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi apicali dell’economia e della finanza e molti altri”. “Tutte responsabilita’ penali certificate da sentenze definitive -rammenta ancora il procuratore generale di Caltanissetta- costate lacrime e sangue, e tuttavia rimosse da una retorica pubblica e da un sistema dei media che, tranne poche eccezioni, illumina a viva luce solo la faccia del pianeta mafioso abitata dalla mafia popolare, quella del racket e degli stupefacenti, elevando una parte a simbolo del tutto”. Frammenti di verita’, purtroppo, emergono “solo a distanza di decenni dagli eventi, dopo essere stati estratti con il forcipe delle indagini penali a imbarazzati e riottosi custodi di segreti consumatisi in quel ‘fuori scena’ della storia, da sempre bandito dalle cerimonie ufficiali”. Il sasso nello stagno plumbeo delle commemorazioni di Stato e’ tirato.

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Impara dalla Mafia

E’ il titolo di un libro edito in Europa (in Italia pubblicato da Rizzoli col titolo: ”La regola del Padrino. Lezioni di Cosa Nostra per i business“). Marco Nurra me ne aveva parlato su twitter mentre se l’era ritrovato tra le mani in aeroporto. Del favoreggiamento culturale alla mafia ne avevamo già parlato qui e ora il dibattito continua sul blog di MarcoE infine l’amara constatazione che ‘Mafia‘ è un marchio che all’estero vende, un po’ come il famoso e ormai privo di significato ‘Made in Italy‘.  Al mio ritorno a Madrid ho scoperto che il libro di Ferrante è in bella vista un po’ ovunque (e io sono di quelli che entrano in tutte librerie che incontra). Mi chiedo che visibilità abbiano dato a questo libro in Italia, pubblicato da Rizzoli col titolo: ”La regola del Padrino. Lezioni di Cosa Nostra per i business“.

Qualcuno l’ha visto in libreria? Cosa ne pensate dei prodotti culturali che ammiccano alla Mafia?

Il resto qui.

Mi ripeto, il giorno che finalmente riusciremo a scrivere e sancire il reato di favoreggiamento culturale alla mafia forse ci sentiremo tutti più civili.

(E intanto il libro IL CASALESE lotta contro la censura che vorrebbe imporre Nicola Cosentino, per dire).

 

Il figlio di Provenzano che gioca alla verginella

Ma il figlio di Provenzano, dove vuole andare a parare? I figli dei mafiosi crescono. E crescono diversamente da come crescevano in passato. Vogliono essere intervistati. Escono allo scoperto, vanno in televisione, accettano il contraddittorio, lanciano appelli, si avventurano per strade mediatiche sconosciute, offrono la loro versione dei fatti, stabiliscono paragoni fra eventi lontani nel tempo, lasciano intendere di saperla lunga, si impongono all’attenzione dell’ opinione pubblica come gli insostituibili interlocutori di quanti sono alla ricerca della verità. O di quanti sono- istituzionalmente- preposti alla ricerca della verità. Se lo chiede Saverio Lodato e in fondo è la domanda che mi gironzola in testa in questi giorni: perché i figli dei mafiosi (e Bernardo Provenzano è la feccia tra quella schiera) hanno imparato portamenti civilissimi che chiedono solidarietà senza passare dalle scuse e senza sentire il dovere morale della dissociazione. “La mafia le fa schifo?” gli chiedeva la giornalista e lui con faccia televisiva ha risposto “tutti i tipi di violenza mi danno fastidio”. No, Angelo Provenzano, a noi fa schifo la mafia e fa schifo quello che tuo padre nella mafia è stato. Per l’analisi delle sue parole basta leggere Saverio qui.

Tranquilli, hanno ragione: da noi a Lodi la mafia non esiste

Lodi è una piccola città a forma di paesello che fa finta di essere in provincia di Lodi. Marudo è un paesello che nemmeno finge di essere provincia ma si ritrova in provincia di Lodi. A Lodi la mafia non esiste e comunque se esiste non se ne parla perché è maleducazione. Qui è passato praticamente indenne Giampiero Fiorani che, in fondo, è una brava persona che fatto del bene per la propria città. Dicono i benpensanti che nelle ultime operazioni di ‘ndrangheta Lodi è stata schivata: è vero, il boss dei gelesi collegati a Ri ha nzivillo scorrazza come un lodigiano qualunque nel centro di Lodivecchio. La mafia è così: se non ne scrivi o ne parli, in fondo non esiste.

Questa storia che sto per raccontare è una storia da tre soldi e, per molti, una delle solite invenzioni dei professionisti antimafia. Per questo sono sicuro che verrò convocato al più presto per pagare le mie falsità.
Ma andiamo con ordine. A Marudo in provincia di Lodi c’è bella fabbrichetta a forma di cartiera. In alcuni locali in affitto c’è la lei di una bella coppia di famiglia da Mulino Bianco. Lei sposa lui, cavallo bianco, castello e tutti felici e contenti, residenti a San Angelo Lodigiano. Un giorno, però, sfogliando con commozione il proprio album di nozze lei riconosce tra i propri invitati la crema degli arrestati e latitanti casalesi e gelesi. Proprio un bel regalo di nozze, a Lodi dove la mafia è un’invenzione e la provincia ne è immune. Lui, messo alle strette, si dice che in questi giorni si sia redento. Non proprio per amore, ma forse per i trent’anni di condanna che gli ciondolano sul gozzo. E comincia a parlare, l’infame. È amico intimo di Casalesi non proprio modello di giustizia e legalità, se la spassa con i 4 ridicoli picciotti di Lodivecchio che giocano a fare i boss gelesi amici di Rinzivillo e che probabilmente si incontrano ancora tutti come ai vecchi tempi (fino a qualche tempo fa al ristorante Cà Bianca di Castiraga Vidardo). Lei trema per l’eroismo parlante del marito convertito. Casalesi, gelesi e un pizzico di Calabria. Nessuno sa, nessuno ne parla. L’importante è che scorra tranquilla la vita della provincia immune dalle mafie in questo soleggiato ferragosto. Adesso aspettiamo che ne parlino tutti o smentiscano. O no?

*Siccome rimane immutato il mio disprezzo per qualsiasi consorteria criminale ma allo stesso modo ci tengo alla gente che lavora; mi preme precisare che l’azienda a cui si fa riferimento nell’articolo nulla ha a che vedere con la Lodigiana Maceri srl. Se non per una “prossimità geografica”. Tanto dovevo, per onestà intellettuale, ad un paese che (come spesso succede in queste zone) si ritrova a dover “subire” la presenza di questi personaggi che pascolano nell’oscurità.

La mafia che gocciola dai polsini del Re

La notizia dei 100 milioni versati da Silvio Berlusconi alla mafia secondo il foglio dattiloscritto e controfirmato da Vito Ciancimino secondo quanto scritto da Felice Cavallaro sul Corriere della Sera sarebbe una notizia solo in un Paese con la memoria andata in prescrizione dove un Governo ricattabile gioca a confondere i fatti con le opinioni, e a curare il cancro delle mafie con i cerotti. Quindi è una notizia.

Eppure, nell’Italia dell’informazione trasformata in vassoio per raccogliere le bave del re, l’ultima rivelazione di Massimo Ciancimino (e, per la prima volta, di sua madre Epifania Scardino) è passata come una brezza di ferragosto perfettamente inscatolata tra i “complotti” e le “invenzioni” che sono la ciclica difesa del fedele Ghedini a tutela servile del premier. Non importa nemmeno che l’anziana moglie di Don Vito dica «Si, mio marito incontrava negli anni Settanta Berlusconi a Milano… Ma alla fine si sentì tradito dal Cavaliere…». Eppure di un assegno di 25 milioni dato dal Cavaliere ai Ciancimino se ne parla ormai da sei anni, dopo un’intercettazione in cui il figlio Massimo parla della regalìa berlusconiana alla sorella dichiarando di avere ricevuto quei soldi direttamente dalle mani di Pino Lipari. Sarebbe una notizia, in un Paese normale. In questo ferragosto di battibecchi e divorzi è diventata invece una voce di corridoio.

O forse non è una notizia perché la memoria non si è appassita come qualcuno vorrebbe e ci si ricorda che nel processo Dell’Utri si legge che ogni anno arrivavano milioni in regalo direttamente da Arcore. Dichiarazioni di più pentiti ma (poiché il cecchino Feltri ci insegna che solo la “carta canta”) anche ben documentati: durante le indagini negli anni novanta sulla famiglia mafiosa di San Lorenzo infatti si ritrova un appunto nel libro mastro del pizzo che dice “Can 5 5milioni reg”. O forse ci si ricorda perfettamente che che i fratelli Graviano furono spediti a Milano a partire dal ’92 dove “avevano contatti importanti” e dove incontrarono più volte anche Marcellino Dell’Utri. Lo dice il pentito Gaspare Spatuzza ma (siccome vi diranno che Spatuzza non è credibile e i pentiti non possono deviare il corso della politica) lo dice anche l’ex funzionario della DC Tullio Cannella, politico per nulla pentito. E ci si ricorda che Gaetano Cinà, uomo d’onore della famiglia di Malaspina (un clan vicinissimo a Provenzano), visitava spesso gli uffici di Milano 2 e l’ex fattore di Arcore Vittorio Mangano sia un condannato mafioso con il tratto per niente eroico della vile omertà.

Nonostante il premier si affanni a scrivere pizzini a Cicchitto in cui gli raccomanda in Aula di parlare di mafia (avendo già altri nel partito che si occupano a parlare “con la mafia”), nonostante anche nel centrosinistra qualcuno insista per scambiare la mafia come sceneggiatura buona per le fiction piuttosto che cancro delle istituzioni, oggi Cosa Nostra può guardare dall’alto i frutti della propria strategia di tensione e poi cooperazione con le istituzioni: tra il ’95 e il 2001 sono state approvate alcune leggi che sono fatti, mica opinioni. Sono state chiuse le carceri di massima sicurezza di Pianosa e dell’Asinara. Con la scusa della privacy si è imposta la distruzione dei tabulati telefonici più vecchi di cinque anni. In modo bipartisan è stata riformata la legge sui collaboratori di giustizia con il risultato di una diminuzione sensibile dei pentiti (calpestando il modello di Falcone e Borsellino). Si è pressoché smantellato il 41 bis e con la riforma del “giusto” processo si è concessa la facoltà di non rispondere, elevando l’omertà ad un (eroico) diritto di stato. Alcuni parlamentari hanno anche provato a parlare di “dissociazione” mafiosa. Il ministro Alfano ha proposto una riforma che consentirebbe alle difese di chiamarei in tribunale un numero illimitato di testimoni, per ingolfare ancora meglio la palude dei processi. L’onorevole Gaetano Pecorella ha proposto il ricorso alla Convenzione Europea per la revisione dei processi (guarda caso, idea del vecchio Vito Ciancimino per annullare la sentenza del maxi processo di Palermo). Sempre ricalcando l’idea del vecchio boss Don Vito la Lega propone l’elezione dei giudici. Ad abbattere le difficoltà del riciclaggio ci ha pensato lo “scudo fiscale”.

Cosa dobbiamo aspettare perché sia un diritto (e soprattuto un dovere) raccontare e dire del rapporto adultero tra le mafie e questa Seconda Repubblica? Quando si riuscirà a gridare che il marcio di questo Stato sta uscendo dai polsini dei nostri governanti?

Mafia é mafia. Senza sinonimi, senza moderazioni.

Il fallito attentato a Crocetta è la foto della loro indegnità

Le notizie dell’ultimo ed ennesimo attentato pianificato ai danni del sindaco di Gela e deputato al Parlamento Europeo Rosario Crocetta  dimostrano, se ce ne fosse bisogno, la pavidità e la bassezza umana della mafia gelese di fronte alla schiena dritta e lo sguardo fiero della buona politica per la legalità coltivata con impegno e senza proclami.

Con Rosario ho l’onore di avere cominciato una battaglia politica e culturale contro questo cancro indegno che avvelena il nostro paese nascondendosi tra le pieghe dell’indifferenza e dell’irresponsabilità.

Con Rosario ho imparato a sopportare le difficoltà della mia vita violentata nella tranquillità fino a costringermi all’essere scortato, osservando la sua dignità nell’affrontare i pericoli a cui e’ quotidianamente esposto.

Con Rosario ho capito l’importanza di essere vigili, prima che vigilati.

Per questo lo abbraccio restituendogli tutta la forza che mi ha sempre assicurato. Sappia la mafia gelese (che sia Stidda o Cosa Nostra) che quest’ultimo ululato vigliacco ci rafforza nella nostra voglia di contrastarla, raccontarla e rinchiuderla nella latrina che e’ l’unico suo luogo possibile, con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione a dispetto di  qualsiasi pallottola e qualsiasi bomba; in Italia, in Sicilia, e personalmente ancora di più nelle pieghe lombarde in cui tenta malamente di nascondersi. Sappiamo i nomi, sappiamo le facce, e da oggi le urleremo ancora più forte. Senza paura.

Giulio Cavalli