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crisi

I saldi alla carlona

Le agenzie di stampa sono molte. Prendiamone una:

Partono male le vendite promozionali, o pre-saldi decisi dalla Regione Lombardia. Nella prima giornata di sconti il Codacons ha registrato, nella città diMilano un calo medio delle vendite del 70% rispetto alla prima giornata di saldi estivi dello scorso anno ed un afflusso di cittadini nei negozi inferiore del 75%. Il dato fortemente negativo è influenzato dal fatto che la maggioranza dei negozianti non ha aderito all’iniziativa, o perché non ha voluto o perché i tempi stretti dell’approvazione della legge non hanno consentito loro di prepararsi in tempo. Poche le vetrine con offerte di sconti.

Anche la maggioranza dei consumatori non è stata adeguatamente informata della partenza delle vendite promozionali. Insomma, conclude il Codacons, l’iniziativa si presenta come un autentico flop. I commercianti, infatti, avevano l’opportunità di guadagnare, ma non l’hanno sfruttata. Al di la del fallimento della prima giornata, restano valide le previsioni dell’associazione sull’andamento complessivo dei saldi. Rispetto a quelli estivi dello scorso anno il Codacons prevede, per la città di Milano un calo delle vendite del 10%, con una spesa a famiglia che non supererà i 200 euro, contro i 220 dello scorso anno. Infine, solo il 40% dei milanesi si avvarrà degli sconti di fine stagione.

Presentare una mozione per la liberalizzazione dei saldi (con maggioranza e un pezzo di minoranza insieme) nella stessa seduta della mozione di sfiducia a Formigoni era già un atto poco illuminato. Votarla (tutti, escluso noi, tanto per chiarire) senza riflettere sul commercio di vicinato e sui pareri dei commercianti è stato incauto. Se le ricette contro la crisi sono la liberalizzazione dei saldi alla carlona forse dobbiamo interrogarci. Ma sul serio. E magari partendo dal lavoro.

Il Paese dei suicidati

Leggo la notizia dei dati di suicidi di imprenditori dal Corriere e leggo i partiti che ci dicono di non potere rinunciare ai rimborsi pubblici perché altrimenti chiuderebbero. E (senza cadere nell’antipolitica o nel populismo) mi chiedo se non sia il caso di provare a parlarne tenendo bene a mente le diverse vie d’uscita scelte (e possibili) da due mondi con lo stesso problema. Di cosa sono vittima gli imprenditori suicidati? Ci può davvero bastare “la crisi” come risposta? La chiudiamo così? Io non credo che esistano formule magiche e forse non ho nemmeno le soluzioni pronte, mi piacerebbe però che il titolo di apertura dei giornali fossero i lavoratori (imprenditori, artigiani, operai, giovani: tutti) che muoiono di lavoro piuttosto che la contabilità sempre garantita dei partiti. Perché poi non affidiamoci ai luminari analisti per capire perché il partito di maggioranza è quello degli astenuti. E il compito di tenere alta l’attenzione è un dovere politico.

Dall’inizio del 2012 in Italia ci sono stati 23 suicidi di imprenditori. La statistica è stata stilata dalla Cgia di Mestre, che ha preso in esame i casi legati in qualche modo alla crisi economica. Ben 9 dei 23 complessivi (pari al 40% del totale) sono stati registrati solo in Veneto.

 AZIENDE IN GINOCCHIO – Secondo i dati diffusi dall’osservatorio mestrino, il 49,6% delle aziende chiude i battenti entro i primi 5 anni di vita e solo da inizio 2012. «La grave difficoltà che stanno vivendo le imprese, soprattutto quelle guidate da neoimprenditori – dichiara Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre – è causata da tasse, burocrazia, ma soprattutto mancanza di liquidità. Sono i principali ostacoli che costringono molti neoimprenditori a gettare la spugna anzitempo. È vero che molte persone, soprattutto giovani, tentano la via dell’autoimpresa senza avere il know how necessario, tuttavia è un segnale preoccupante anche alla luce delle tragedie che si stanno consumando in questi ultimi mesi».

I suicidi e i cittadini clandestini

Ne scrive Barbara Spinelli su Repubblica oggi, riprendendo quello che scrivevamo ieri e proponendo un tema che è politica.

Quando il cittadino diventa un clandestino

RI­SA­LE a più di die­ci an­ni fa un ar­ti­co­lo di Paul Krug­man — uno dei più pro­fe­ti­ci — sul col­las­so del­la com­pa­gnia ener­ge­ti­ca En­ron. La Gran­de Cri­si che tra­ver­sia­mo fu pre­ce­du­ta da quel pri­mo cu­po se­gna­le, e in es­so l’e­co­no­mi­sta vi­de, sul New York Ti­mes del 29 gen­na­io 2002, la for­ma del­le co­se fu­tu­re. Quel­la sto­ria di fin­ta glo­ria mi­schia­ta a fro­de era ben più de­ci­si­va del­l’as­sal­to al Tra­de Cen­ter, che l’11 set­tem­bre 2001 ave­va se­mi­na­to mor­te e of­fe­so la po­ten­za Usa.

«Un gran­de even­to — era scrit­to — cam­bia ogni co­sa so­lo se cam­bia il mo­do in cui ve­di te stes­so. L’at­tac­co ter­ro­ri­sta non po­te­va far­lo, per­ché di es­so fum­mo vit­ti­me più che per­pe­tra­to­ri. L’11 set­tem­bre ci in­se­gnò mol­to sul wa­ha­bi­smo, ma non mol­to sul­l’a­me­ri­ca­ni­smo ».
La vi­cen­da En­ron mi­se fi­ne al­l’e­tà di in­no­cen­za del ca­pi­ta­li­smo, sve­lan­do le sre­go­la­tez­ze e il las­si­smo in cui era pre­ci­pi­ta­to. I sa­cer­do­ti di quel­l’e­tà era­no pri­gio­nie­ri di dog­mi, e nes­su­na do­man­da du­ra scal­fi­va la con­vin­zio­ne che que­sto fos­se il mi­glio­re dei mon­di pos­si­bi­li. Fu co­me il ter­re­mo­to di Li­sbo­na, che nel 1755 co­strin­se la fi­lo­so­fia eu­ro­pea ad ab­ban­do­na­re (gra­zie a Vol­tai­re, a Kant) l’ot­ti­mi­sti­ca fe­de nel­la Prov­vi­den­za. Nel­l’im­me­dia­to non uc­ci­se co­me l’11 set­tem­bre, ma sic­co­me non esi­ste sa­cer­do­te sen­za sa­cri­fi­ci cruen­ti an­che que­sto pre­sto cam­biò: fra il 2007 e og­gi la cri­si ha co­min­cia­to ad ave­re i suoi mor­ti, sot­to for­ma di sui­ci­di. So­no ini­zia­ti in Fran­cia, nel 2007-2008. Ora que­st’in­fe­li­ci­tà estre­ma, im­po­ten­te, lam­bi­sce Gre­cia e Ita­lia, col­pi­te dal­la re­ces­sio­ne e da mi­su­re che ren­do­no di­spe­ran­te il rap­por­to fra l’uo­mo e il la­vo­ro, l’uo­mo e la pro­pria vec­chia­ia, l’uo­mo e la li­ber­tà. Sen­za la­vo­ro, sen­za la pos­si­bi­li­tà di adem­pie­re gli ob­bli­ghi che più con­ta­no (ver­so i pro­pri fi­gli, la pro­pria di­gni­tà) la stes­sa li­ber­tà po­li­ti­ca s’ap­pan­na: di­ven­ti un emi­gran­te clan­de­sti­no in pa­tria, un tra­pian­ta­to.
Sui­ci­di di que­sto ti­po non so­no pa­to­lo­gie in­ti­me, di­slo­ca­zio­ni­del­l’a­ni­ma che nel­la mor­te cer­ca un suo me­to­do. In Fran­cia, in Gre­cia, in Ita­lia, so­no tut­ti le­ga­ti al­la cri­si. So­no com­mes­si da pen­sio­na­ti, la­vo­ra­to­ri, im­pren­di­to­ri pre­si nel­la gab­bia di de­bi­ti, mu­tui non rim­bor­sa­bi­li, azien­de fal­li­te. È si­gni­fi­ca­ti­vo che qua­si tut­ti si im­mo­li­no in piaz­za o nei po­sti di la­vo­ro, la­scian­do let­te­re-te­sta­men­ti che di­co­no l’in­di­ci­bi­le scel­ta. Di­mi­tris Chri­stou­las, il pen­sio­na­to che il 4 apri­le s’è tol­to la vi­ta in Syn­tag­ma Squa­re — la piaz­za del­le pro­te­ste — scri­ve che il go­ver­no, ri­bat­tez­za­to «go­ver­no col­la­bo­ra­zio­ni­sta di Tso­la­ko­glou » in ri­cor­do del Pre­mier che nel ’41-42 aprì le por­te ai na­zi­sti, «ha an­nien­ta­to la mia ca­pa­ci­tà di so­prav­vi­ven­za, ba­sa­ta su una pen­sio­ne di­gni­to­sa cui ave­vo con­tri­bui­to per 35 an­ni».
Chri­stou­las non vuol «met­ter­si a pe­sca­re nel­la spaz­za­tu­ra» di che so­sten­tar­si, e av­ver­te: i gio­va­ni de­ru­ba­ti di fu­tu­ro im­pic­che­ran­no i re­spon­sa­bi­li co­me fe­ce­ro gli ita­lia­ni a Piaz­za­le Lo­re­to con Mus­so­li­ni. «Vi­sta la mia età avan­za­ta, non pos­so rea­gi­re in mo­do at­ti­vo.
Ma se un mio con­cit­ta­di­no af­fer­ras­se un Ka­la­sh­ni­kov, sa­rei pron­to a sta­re al suo fian­co». Le sta­ti­sti­che sui pri­mi cin­que me­si del 2011 cer­ti­fi­ca­no un in­cre­men­to di sui­ci­di del 40 per cen­to, ri­spet­to al­lo stes­so pe­rio­do del 2010.
Di­sa­stri si­mi­li ac­ca­do­no in Ita­lia. La Cgia, As­so­cia­zio­ne ar­ti­gia­ni e pic­co­le im­pre­se di Me­stre, an­nun­cia che nel 2008-2010 i sui­ci­di so­no cre­sciu­ti del 24,6%: so­no usci­ti dal mon­do im­pren­di­to­ri, la-vo­ra­to­ri di­pen­den­ti, pen­sio­na­ti. Nel 2008 i sui­ci­di eco­no­mi­ci so­no 150, nel 2010 so­no 187. C’è un «ef­fet­to imi­ta­zio­ne», spie­ga la Cgia, ma il ter­mi­ne è le­ni­ti­vo. Ci si con­so­lò co­sì nel 2008, quan­do si uc­ci­se­ro 24 di­pen­den­ti di Te­le­com-Fran­cia (una pri­ma av­vi­sa­glia era ve­nu­ta l’an­no pri­ma da Re­nault: tre sui­ci­di in 4 me­si). Il mo­ti­vo so­cia­le ven­ne sot­to­va­lu­ta­to, co­me nel 2002 si sot­to­va­lu­tò il crol­lo di En­ron, ro­vi­no­so per i fon­di pen­sio­ne di mi­glia­ia di la­vo­ra­to­ri. Giu­sep­pe Bor­to­lus­si, se­gre­ta­rio del­la Cgia, par­la di «per­di­ta di si­cu­rez­za, so­li­tu­di­ne, di­spe­ra­zio­ne, ri­bel­lio­ne con­tro un mon­do che si sta ri­ve­lan­do ci­ni­co, ino­spi­ta­le ». Go­ver­ni, gior­na­li­sti, eco­no­mi­sti do­vreb­be­ro smet­te­re le sa­cer­do­ta­li li­ta­nie sul­la «re­si­sten­za al cam­bia­men­to». Fa­par­te del lo­ro me­stie­re pro­va­re a ca­pi­re le se­gre­te mol­le del­l’uo­mo, non so­lo dei bi­lan­ci. Il sui­ci­da è un in­di­gna­to che nau­fra­ga per­ché non ri­co­no­sciu­to, non vi­sto.
An­che su que­sto Krug­man fu veg­gen­te, nel 2002: «Per chi non è di­ret­ta­men­te im­pli­ca­to — gran par­te dei po­li­ti­ci non lo è — non con­ta quel che ha fat­to, ma quel che fa». Man­cò in­fat­ti ogni esa­me cri­ti­co del pas­sa­to, del con­sen­so a tan­te sre­go­la­tez­ze. Un de­cen­nio è pas­sa­to, e l’ot­tu­sa rea­zio­ne del mi­ni­stro del Te­so­ro di Bush, Paul O’Neill, fa tut­to­ra scuo­la: «Le im­pre­se ven­go­no e van­no. È il ge­nio­del ca­pi­ta­li­smo». I sui­ci­di in Gre­cia o Ita­lia so­no una ri­bel­lio­ne con­tro il fa­ta­li­smo di que­sta de­fi­ni­zio­ne — ge­nio — che ve­de nel ca­pi­ta­li­smo una for­za di na­li­mi­ta­re­tu­ra, con­tro cui nul­la si può se non ca­der fuo­ri dal­la gio­stra im­paz­zi­ta. Un fal­so pro­fe­ta, Sa­muel Hun­ting­ton, pre­dis­se nel ’92 pros­si­mi scon­tri tra le ci­vil­tà. Lo scon­tro è den­tro le ci­vil­tà: la no­stra. I sui­ci­di ne so­no il sin­to­mo. Chi non ci cre­de va­da al­l’A­qui­la. Sal­va­to­re Set­tis ha vi­sto una Pom­pei del XXI se­co­lo ( Re­pub­bli­ca 7-4). Le ro­vi­ne del ter­re­mo­to so­no re­sta­te ta­li e qua­li, co­me in un rac­con­to di fan­ta­scien­za. Chi ha det­to che il ca­pi­ta­li­smo è mo­vi­men­to?
Il sui­ci­dio stu­dia­to nel­l’800 da Emi­le Dur­kheim è l’au­toaf­fon­da­men­to del cit­ta­di­no cui so­no strap­pa­ti non so­lo i di­rit­ti ma gli ob­bli­ghi stes­si del­la cit­ta­di­nan­za: la li­be­ra sot­to­mis­sio­ne al­la ne­ces­si­tà del la­vo­ro, il sen­tir­si par­te di una so­cie­tà, di un or­di­ne pro­fes­sio­na­le, di un sin­da­ca­to che in­clu­da e in­te­gri. A dif­fe­ren­za del sui­ci­dio in­ti­mi­sta, o del­l’im­mo­la­zio­ne al­trui­sta, Dur­kheim lo chia­ma sui­ci­dio ano­mi­co. La sua ra­di­ce è nel­l’a­no­mia: nel­lo sva­ni­re di nor­me che ogni cri­si com­por­ta. Nel­l’im­pu­ni­tà di cui go­do­no gli ini­zia­ti che di nor­me fan­no a me­no.
In que­st’a­no­mia vi­via­mo, sen­za più gli av­vo­ca­ti del­l’in­di­vi­duo che so­no sta­ti i sin­da­ca­ti, gli or­di­ni pro­fes­sio­na­li, le chie­se, i par­ti­ti. La cor­ru­zio­ne di que­sti ul­ti­mi è una man­na, per chi vuol fa­re un de­ser­to e chia­mar­lo pa­ce. Gre­cia e Ita­lia ne so­no ma­la­te, e non a ca­so è qui che il cit­ta­di­no tra­mu­ta­to in clien­te non spe­ra più di es­se­re udi­to. «Mai gli uo­mi­ni con­sen­ti­reb­be­ro a i pro­pri de­si­de­ri se si cre­des­se­ro au­to­riz­za­ti a su­pe­ra­re il li­mi­te lo­ro as­se­gna­to. Ma per le ra­gio­ni sud­det­te non pos­so­no det­tar­si da so­li que­sta leg­ge di giu­sti­zia. Do­vran­no per­ciò ri­ce­ver­la da una au­to­ri­tà che ri­spet­ta­no e al­la qua­le si in­chi­na­no spon­ta­nea­men­te. Sol­tan­to la so­cie­tà, sia di­ret­ta­men­te e nel suo in­sie­me, sia me­dian­te uno dei suoi or­ga­ni è ca­pa­ce di svol­ge­re que­sta fun­zio­ne mo­de­ra­tri­ce, sol­tan­to es­sa è quel po­te­re mo­ra­le su­pe­rio­re di cui l’in­di­vi­duo ac­cet­ta l’au­to­ri­tà. Sol­tan­to es­sa ha l’au­to­ri­tà ne­ces­sa­ria a con­fe­ri­re il di­rit­to e a se­gna­re al­le pas­sio­ni il li­mi­te ol­tre il qua­le non de­vo­no an­da­re». (Dur­kheim, Il sui­ci­dio, 1897).
Del­la so­cie­tà fan­no par­te par­ti­ti, sin­da­ca­ti, im­pren­di­to­ri, go­ver­nan­ti: tut­ti si so­no ri­ve­la­ti in­ca­pa­ci di os­ser­va­re e dun­que im­por­re le nor­me, tut­ti so­no por­ta­to­ri di ano­mia. Per que­sto leg­gi e tu­te­le so­no co­sì im­por­tan­ti. Di­ce­va nel­l’800 il cat­to­li­co Hen­ri La­cor­dai­re: «Tra il for­te e il de­bo­le, tra il ric­co e il po­ve­ro, tra il pa­dro­ne e il ser­vi­to­re: quel che op­pri­me è la li­ber­tà, quel che af­fran­ca è la leg­ge».
Di leg­ge, di nò­mos, han­no bi­so­gno i cit­ta­di­ni gre­ci e ita­lia­ni, apo­li­di in pa­tria. Se è ve­ro che vi­via­mo tra­sfor­ma­zio­ni pla­ne­ta­rie, ur­ge sa­pe­re che es­se sca­te­na­no sem­pre un au­men­to di sui­ci­di: se­con­do Dur­kheim an­che i boom eco­no­mi­ci de­mo­ra­liz­za­no.
Dob­bia­mo in­fi­ne sa­pe­re che Ca­mus ave­va ra­gio­ne: la ri­vol­ta è la ri­spo­sta, l’u­ni­ca for­se, al sui­ci­dio (il pae­se «si sal­va al pia­no ter­ra », di­ce Er­ri De Lu­ca). Quan­do è po­si­ti­va, la ri­vol­ta ten­de a rein­tro­dur­re il sen­so del­la leg­ge lì do­ve s’è in­se­dia­ta l’a­no­mia.

L’insolvenza mascherata della Grecia

Lo chiamano salvataggio, ma l’insolvenza mascherata proposta ai privati attraverso la rinuncia al 70 per cento del valore di crediti e interessi e l’intervento del fondo salva stati, porterà la Grecia, nella migliore delle ipotesi, ad avere un rapporto debito/pil al 120 per cento nel 2020. Nella peggiore delle ipotesi al 160 per cento. Per giustificare il commissariamento di un paese da parte della Troika ci vorrebbe un vero salvataggio.
Dall’emergenza freddo dei giorni scorsi dobbiamo imparare che occorre avere previsioni meteo più precise e che bisogna diversificare le fonti di energia, oggi troppo concentrate sul gas, incentivando le rinnovabili.
Monti si dice invidioso della riforma del lavoro spagnola. Ma possiamo fare meglio della Spagna aggredendo davvero il dualismo del mercato del lavoro: nuovi spunti dal confronto in corso sul sito Nada es gratis. Non va bene ridurre i costi dei licenziamenti durante una recessione.
Con i bassi prezzi di borsa, alcuni gruppi di controllo -come la famiglia Benetton- lanciano Opa per il delisting, cioè per togliere la società dal mercato. A loro conviene. Per gli azionisti di minoranza, invece, prima di aderire è bene valutare le prospettive dell’impresa e ricordare le scottature prese in passato. Nei mercati finanziari la speculazione si batte con una maggiore informazione, non con la Tobin tax, com’era nelle intenzioni del suo ideatore. La tassa sulle transazioni di titoli, infatti, non attenua la pressione speculativa, aumenta la volatilità e, se applicata soltanto in alcuni mercati, li penalizza pesantemente.
L’analisi e i commenti sul sito la voce.info. E ne vale la pena.

Dov’è l’Africa

Sarà che c’è Africa in ogni parte del mondo e in quasi tutte le propagande ma oggi mi è venuta la voglia di non scrivere ma rileggere Saramago. Perché le ultime righe sono un manifesto intellettuale.

AFRICA di José Saramago (l’articolo originale qui http://caderno.josesaramago.org/2009/08/12/um-rei-assim/)

In Africa, si dice, i morti sono neri e le armi bianche. Sarebbe difficile trovare una sintesi più adeguata della successione di disastri che è stata e continua a essere, da secoli, l’esistenza nel continente africano. Il luogo del mondo in cui si dice sia nata l’umanità non era certamente il paradiso terrestre quando i primi “esploratori” europei vi ci sono sbarcati (al contrario di quello che dice il mito biblico. Adamo non è stato espulso dall’eden, semplicemente non c’è mai entrato), ma, con l’arrivo dell’uomo bianco si sono spalancate, per i neri, le porte dell’inferno. Queste porte continuano a essere implacabilmente aperte, generazioni su generazioni di africani sono state sacrificate dinanzi alla mal celata indifferenza o all’impudente complicità dell’opinione pubblica mondiale. Un milione di neri morti per la guerra, per la fame o per malattie che sarebbero potute essere curate, peserà sempre meno sul bilancio di qualsiasi paese dominatore e occuperà meno spazio nei notiziari rispetto alle quindici vittime di un serial killer. Sappiamo che l’orrore, in tutte le sue forme, le più crudeli, le più atroci e infami, incombe e rabbuia tutti i giorni, come una maledizione, il nostro disgraziato pianeta, ma l’Africa sembra essere diventata la sua zona preferita, il suo laboratorio sperimentale, il luogo in cui l’orrore si sente più a suo agio nel commettere nefandezze che giudicheremmo inconcepibili, come se i popoli africani fossero stati segnati alla nascita da un destino di cavie, su cui, per definizione, ogni genere di violenza è permessa, tutte le torture giustificate, tutti i crimini assolti. Al contrario di quello che molti si ostinano a credere non ci sarà un tribunale di Dio o della Storia a giudicare le atrocità commesse dagli uomini sugli uomini. Il futuro, sempre così disponibile nel decretare questa tipologia di amnistia generale che è l’oblio mascherato da perdono, è anche bravo nell’approvare, tacitamente o esplicitamente, a seconda della convenienza dei piani economici, militari e politici, l’immunità a vita per gli autori diretti e indiretti dei più mostruosi gesti contro la carne e lo spirito. È un errore consegnare al futuro l’incarico di giudicare i responsabili della sofferenza delle vittime di oggi, perchè questo futuro non smetterà di avere le sue vittime e allo stesso modo non saprà resistere alla tentazione di rimandare a un altro futuro ancora più lontano il meraviglioso momento della giustizia universale a cui molti di noi fingono di credere come la maniera più facile, e anche più ipocrita, di eludere responsabilità che spettano solo noi, e a questo presente che siamo. Si può capire qualcuno che si scusi dicendo: “Non sapevo”, ma è inaccettabile che si dica: “Preferisco non sapere”. Il funzionamento del mondo ha smesso di essere il mistero che era, le leve del male sono sotto gli occhi di tutti, per le mani che le governano ormai non ci sono più guanti a sufficienza per nascondere le macchie di sangue. Dovrebbe essere quindi facile per chiunque scegliere tra il lato della verità e quello della menzogna, tra il rispetto umano e il disprezzo per l’altro, tra quelli che sono a favore della vita e quelli contro. Tristemente le cose non vanno sempre così. L’egoismo personale, la pigrizia, la mancanza di generosità, le piccole vigliaccherie quotidiane, tutto questo ha contribuito a questa pericolosa forma di cecità mentale che consiste nello stare al mondo senza vederlo, o vederne solo quello che, in quel momento, è più utile ai nostri interessi. In questi casi non possiamo desiderare altro che la coscienza venga a strattonarci con violenza per un braccio chiedendoci a bruciapelo: “Dove vai? Cosa fai? Chi credi di essere?”. Un’insurrezione di coscienze libere è quello di cui avremmo bisogno. Sarà ancora possibile?

Un incendio chiamato Europa

La prima questione è quella democratica. Chi comanda in Europa?  La seconda questione riguarda l’efficacia delle scelte fin qui adottate. La terza questione riguarda l’atteggiamento delle forze politiche e dell’opinione pubblica di casa nostra. Su queste tre questioni si gioca la foto di Vasto e soprattutto il copione dei prossimi anni. E anche se le risposte sono complesse e cariche di responsabilità le domande sono chiare e esigibili. Perché come scrive Gennaro Migliore tranne alcuni esempi, in pochi si sono posti il problema di solidarizzare con i greci e criticare le scelte della Troika (Bce, Commissione e Fmi). Quasi nessuno, poi, ha collegato quelle scelte a ciò che sta già accadendo in Italia ed in altri paesi in crisi. Di questa laconicità, di questa insopportabile afasia italiana, soffre l’intero campo delle forze democratiche europee, che a partire da alcune forze legate al Pse e ai Verdi europei (Hollande in Francia, la Spd e i Grunen in Germania), aprono un fronte di contestazione e, soprattutto, una concreta prospettiva di cambiamento. Lo voglio dire in particolare al Pd ma ancor con più forza all’Idv, vista la sua posizione di opposizione parlamentare: non si faccia l’errore di considerare la Grecia lontana, di votare il pareggio di bilancio in Costituzione e poi immaginare che a casa nostra quelle immagini di disperazione non si vedranno. Oggi, l’alternativa in Italia ed in Europa si potrà costruire solo con un’operazione di verità, togliendo il velo del nuovo stile alle vecchie e tragiche politiche di austerità liberiste. Il modo in cui ci affacciamo alla Grecia è il filo rosso che decide con chi stare chi e cosa fare cosa.

L’ingrediente per lo sviluppo economico: l’umanità

Massimo Gramellini nel suo editoriale di oggi lo dice senza mezzi termini e, finalmente, alza la discussione. Perché in mezzo alle battute dei ministri, ai sorrisi compiaciuti di qualche berluscones non ancora estinto e di alcuni democratici con un’irrefrenabile strabismo liberista ci siamo dimenticati delle fragilità e delle solitudini. E mentre si gioca (come scrive bene Alessandro Gilioli) a fare i liberisti con il culo degli altri vogliono farci credere che la solidarietà è una debolezza e i deboli un costo non sostenibile e fastidioso. Adesso vuoi vedere che il “restiamo umani” di Vittorio Arrigoni non è solo questione di razze e territorio ma un grido d’allarme più alto e vasto? Perché il gioco dei duri che ce l’hanno duro l’abbiamo inventato noi in Lombardia qualche decennio fa riuscendo a costruire classi sempre più distanti, incazzate tra loro e difficilmente dialoganti, e la strategia del “divide et impera” conviene sempre a chi impera. Gli altri rimangono lacerati, più che divisi.

Desiderava fare qualcosa che non lasciasse possibilità di ritorno. Desiderava distruggere brutalmente tutto il passato dei suoi ultimi sette anni. Era la vertigine. L’ottenebrante, irresistibile desiderio di cadere. La vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cadere in mezzo alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso. (Milan Kundera)

Crescita! Crescita!

Si dice che una classe dirigente, un governo – una guida – è l’espressione di una cultura popolare. Ma un popolo non cresce solo con se stesso, senza una guida credibile. Il nostro paese ha un passato di terra divisa, spartita tra signori, papi, re e reucci, una dittatura fascista che l’ha portato alla rovina e alla tragedia, cinquant’anni di dominio democristiano all’insegna del bizantinismo e della falsità, dove per comunicare una cosa si affermava il suo contrario, quindici anni di un grottesco sultanato nel quale è stata esaltata la disonestà, la condotta mafiosa, il vilipendio della Costituzione nata da una dura guerra di liberazione. Oggi un popolo storicamente educato da secoli di esempi negativi, che non ha avuto la possibilità di creare un’idea di stato e di comunità, assiste per l’ennesima volta alle performance di una casta di potere blindata nel suo privilegio che si permette di decidere sulla lunghezza della vita lavorativa altrui. Si obietta che riducendo lo stipendio, il rimborso spese, il vitalizio dei parlamentari (realmente, non il gossip mediatico su 1.300 euro lordi) non si coprirebbe certo il mostruoso buco in bilancio. E quindi si continua così, con una casta che mentre favorisce se stessa e la propria intoccabilità impone sacrifici pesanti agli altri in nome della crescita. Di fatto col suo esempio dice, con parole apparentemente contrarie che evocano “rigore” ed “equità”: invidiateci, imitateci, imparate a fare i furbi, a disprezzare il vostro prossimo, a calpestare i deboli e a nutrire i ricchi. Noi siamo eterni, il nostro avvenire è fuori discussione, ma abbiamo l’idea fissa di favorire i licenziamenti facili, perché i diritti altrui sono merce di scambio, sono polvere. I nostri invece sono sacri. Il capo di un governo composto da superbaroni universitari inamovibili, che viaggiano da un incarico all’altro, si presenta per l’ennesima volta in televisione dove, con stile salottiero, definisce “monotono” il lavoro fisso, annuncia che i giovani devono abituarsi a cambiare, perché il posto fisso possono scordarselo. Come se parlasse ai rampolli privilegiati della sua personale élite, mentre sta umiliando chi il lavoro non solo non può cambiarlo, ma neanche trovarlo, anche a costo di appellarsi alla Madonna di San Luca per tutta la vita. Questo è l’esempio per il paese, l’esempio per la crescita. Questa è la guida.Una guida indegna di questo nome, guida al nichilismo e all’egoismo. Guida di uomini di paglia, di uomini di niente. (Maurizio Baldrati per Nazione Indiana)

La bugia del Governo Monti

Liberalizzare e privatizzare. In questo modo ripartiremo e ricondurremo, finalmente, i conti al livello tale da recuperare lo spread. Non importa che il “rigore” (all’equità penseremo dopo, c’è tempo…) nei conti non sia servito assolutamente a nulla, visto che sui mercati i titoli italiani valgono esattamente quanto prima della manovra che avrebbe dovuto salvare l’Italia. Liberalizziamo e privatizziamo, ma sì, dài.

Allora, privatizziamo, visto che da qualche parte occorre partire, i servizi per il lavoro. Tanto, sono inefficienti e, comunque, il lavoro non si trova. Affidiamolo ai privati, che, invece, loro, miracolosamente, il lavoro lo trovano. Certo, la liberalizzazione imporrà di legalizzare la richiesta di pagamento al disoccupato per la ricerca di lavoro. Però, vuoi mettere l’ebbrezza di pagare per lavorare, in un mondo privatizzato e liberalizzato?

Cos’altro privatizzare? Ah, sì, la sanità. Tanto, per metà già lo è. Eliminiamo dalla busta paga il contributo al sistema sanitario nazionale. Chi lavora versi ad un’assicurazione (ovviamente privatizzata e liberalizzata) il necessario per pagarsi le cure. Chi non lavora paghi il servizio privatizzato e liberalizzato per cercare lavoro e così, poi, pagare l’assicurazione privatizzata e liberalizzata, per ottenere le prestazioni dall’ospedale privatizzato e liberalizzato. Semplice, no? E se nel frattempo non trova lavoro? Desiste.

Poi, è opportuno privatizzare e liberalizzare la scuola. Tanto un terzo quasi è già nelle mani dei privati. Che, ovviamente, non c’è da discutere, insegnano meglio e con maggiore efficienza della scuola pubblica. Certo, ci sarà da pagare una retta. Ma, la riduzione delle tasse sul lavoro, consentirà di mettere da parte i soldi per un piano d’accumulo, da aprire presso una banca privatizzata e liberalizzata, per pagare i costi dell’istruzione privatizzata e liberalizzata. Chi non ha il lavoro? Desiste. Come sia possibile fingere di non vedere quello che descrive Luigi Oliveri rimane un mistero delle mediazioni politiche bipartisan del nuovo asse centro centro centrodestra centrocentrosinistra.

Partigiani contro la crisi

Se l’Ue diventerà un punto di riferimento politico, scientifico, culturale, per i “nuovi partigiani” di questo secolo avrà ancora un ruolo da svolgere nel mondo. Soprattutto se saprà dimostrare che si può “vivere meglio con meno”, se saprà mantenere alta la qualità della vita ed i diritti sociali . In breve, se sapremo utilizzare la crisi per modificare profondamente questo modello di accumulazione capitalistica, disarmare la finanza e fare emergere i nuovi bisogni sociali e ambientali. Lo scrive (bene) Tonino Perna.