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Le Ong scafisti delle foreste

Dicono che l’Amazzonia sia il polmone del mondo. È una di quelle frasi fatte che comunque contiene verità: su un pianeta che continua a bollire ogni anno di più (e luglio è stato nel mondo il mese più caldo nella storia) la foresta amazzonica è un tesoro da custodire con cura.

L’Amazzonia brucia. 74mila incendi nel 2019 (siamo al +84% rispetto all’anno precedente) e una crisi ambientale che non è solo brasiliana, come a qualcuno farebbe comodo credere, ma che interessa il mondo intero. E interessa a tutti quelli che hanno il cuore il proprio futuro: quindi a quasi tutti, si immagina.

Mentre l’Amazzonia brucia il presidente del Brasile Jair Bolsonaro riesce a dare l’ottimo esempio di come siano i sovranisti (tutti, di qualsiasi nazione) di fronte a una crisi ambientale: patetici. Del resto son quelli che della negazione della realtà fanno sempre il pilastro portante della propria propaganda e anche Bolsonaro si è affrettato a dire che no, che l’Amazzonia non brucia, che non è vero. Così quando l’Inpe, l’Istituto nazionale per la ricerca spaziale, ha comunicato che l’Amazzonia brucia più velocemente da quando si è insediato lui Bolsonaro non ha trovato di meglio che negare trattando i dati come “menzogne”. Negano, negano sempre, negano senza nessuna paura di essere ridicoli.

E quando non ha trovato più plausibile negare si è inventato che quegli incendi (badate bene, che prima per lui non esistevano) erano opera degli agricoltori che hanno bisogno di nuove terre. Ma non è finita qui: infine ha accusato persino le Ong, colpevoli di appiccare incendi perché il suo governo avrebbe tagliato del 40% i fondi. Le Ong scafisti delle foreste è una roba da mettersi le mani nei capelli.

Buon venerdì.

 

L’articolo Le Ong scafisti delle foreste proviene da Left.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2019/08/23/le-ong-scafisti-delle-foreste/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Convegno delle Famiglie di Verona: il conclave dei torvi


Il congresso della famiglia di Verona è conclave di torvi, che mescolano patriarcato e sovranismo, con un po’ di estremismo di destra e una strizzata d’occhio al bigottismo più bieco, quelli che si sta tra il Dio, la Patria e la Famiglia come una caccola incastrata tra i denti. Ma la questione è molto più seria di quello che potrebbe sembrare poiché una parte del Governo sembra convinta che tornare indietro di decenni sui diritti sia davvero una via percorribile.
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“Sembra un maschio, non è stupro”. La sentenza shock delle tre giudici (donne)

Ne scrive Repubblica. Troppo mascolina. Poco avvenente. E quindi è poco credibile che sia stata stuprata, più probabile che si sia inventata tutto. È un ragionamento che già indignerebbe se ascoltato in un bar, ma che letto in una sentenza fa un effetto ancora peggiore. Per di più se a firmarla sono tre giudici donne. Che scelgono, così, di assolvere in appello due giovani condannati in primo grado a cinque e tre anni per violenza sessuale. E nelle motivazioni scrivono che all’imputato principale “la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo “Vikingo” con allusione a una personalità tutt’altro che femminile quanto piuttosto mascolina”. Poi la chiosa: “Come la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare”. 

Il verdetto è stato annullato con rinvio dalla Cassazione come richiesto dal procuratore generale che ne ha evidenziate alcune incongruenze e vizi di legittimità. Per cui il processo di appello dovrà ora essere rifatto. Ma intanto la sentenza bocciata ha fatto saltare sulla sedia più di magistrato della Suprema Corte. Perché leggendone il testo sembra che a influire sulla decisione delle tre magistrate sia stato proprio l’aspetto fisico della donna.

Un passo indietro. Ancona, marzo 2015. Una ragazza di origini peruviane, 22 anni (la chiameremo Nina, nome di fantasia) si presenta in ospedale con la madre dicendo di avere subito una violenza sessuale alcuni giorni prima da parte di un coetaneo, mentre un amico di lui faceva da palo. Il gruppetto frequentava la scuola serale, dopo le lezioni i tre avevano deciso di bere una birra insieme. Le birre diventano parecchie, la giovane e uno dei due compagni si appartano più volte, hanno rapporti sessuali. Per gli imputati erano consensuali, per la parte offesa a un certo punto hanno smesso di esserlo, sia per l’eccesso di alcol sia per una esplicita manifestazione di dissenso. I medici riscontrano lesioni, compatibili con una violenza sessuale, e un’elevata quantità di benzodiazepine nel sangue che la vittima non ricorda di aver mai assunto. 

Dopo le indagini, si apre il processo di primo grado che il 6 luglio 2016 condanna uno dei due, quello che ha avuto i rapporti con Nina, a cinque anni, e il suo amico che ha fatto da palo a tre. Gli imputati ricorrono e il 23 novembre 2017 la Corte d’Appello dà loro ragione. Li assolve perché non ritiene credibile la ricostruzione della parte offesa. Fino a qui, nulla di strano: normale dinamica processuale. Quello che non fa parte della dinamica processuale, prima anomalia, è che la parte offesa venga definita dalle giudici della Corte d’Appello di Ancona, nelle motivazioni, come “la scaltra peruviana”. 

Non bastasse questo, le tre componenti del collegio si lasciano andare a commenti e valutazioni fisiche forse dimenticando che il loro ruolo è sì quello del giudice, ma penale, e non di un concorso di bellezza. Tanto da arrivare a scrivere nelle conclusioni della sentenza che “in definitiva, non è possibile escludere che sia stata proprio Nina a organizzare la nottata “goliardica”, trovando una scusa con la madre, bevendo al pari degli altri per poi iniziare a provocare Melendez (al quale la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo di “Nina Vikingo”, con allusione a una personalità tutt’altro che femminile, quanto piuttosto mascolina, che la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare) inducendolo ad avere rapporti sessuali per una sorta di sfida”. Insomma, gli imputati devono essere assolti, così avevano stabilito le tre giudici marchigiane. Perché Nina, secondo loro, non poteva essere desiderata: sembrava un maschio.

(fonte)

Il mercato delle figurine

Savona alla Consob. Vi stupisce? Ma va. Quando un partito (ma vale anche per un governo, un movimento culturale o una coalizione) soffre di mancanza di classe dirigente perché si è completamente costruita su simboli, idoli e uomini-metafore da dare in pasto alla stampa è normale che poi i nomi che girino e rigirino siano sempre gli stessi. Che Savona sia ministro o presidente della Consob poco cambia. Non è il ruolo: basta che ci sia, che sia esposto in bella vista e che soddisfi gli stomaci dei fans.

Peccato che Savona alla Consob violi più di una di quelle regole che il Movimento 5 stelle ha tanto voluto in nome della meritocrazia, dell’onestà e della trasparenza.

Viola la legge Frattini (siamo nel 2004) che regola il conflitto d’interessi. È quella legge che impedisce a chi ha ricoperto un incarico di governo di ricoprire un ruolo dirigenziale pubblico senza che sia passato nemmeno un anno. Era stata pensata per mettere un freno ai tanti trombati che poi venivano regolarmente parcheggiati. E invece, niente.

La seconda legge violata è la Madia, siamo nel 2014, che stabilisce che i pensionati, come lo è Savona, non possono ricoprire incarichi dirigenziali dentro alcune amministrazioni pubbliche tra cui si cita, indovinate un po’, la Consob. Tutto bene? Non è finita qui.

La terza ragione di incompatibilità è che l’ex ministro è tuttora socio di Euklid, un fondo speculativo con sede Londra del quale era presidente fino a poco prima della nomina a ministro. Quelli dicono comunque che si tratta di un fondo londinese e dobbiamo stare tranquilli.

C’è altro: Paolo Savona, in otto mesi da ministro per gli Affari europei, non ha mai partecipato a una riunione con altri ministri Affari europei o commissari a Bruxelles. Per questo probabilmente si è stufato subito.

Su quanto conti invece far crescere una classe dirigente per non rimanere attaccati ai vecchi dinosauri ne parliamo un’altra volta. A sinistra siamo maestri, in questo.

Buon giovedì.

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Il mercato delle figurine

Savona alla Consob. Vi stupisce? Ma va. Quando un partito (ma vale anche per un governo, un movimento culturale o una coalizione) soffre di mancanza di classe dirigente perché si è completamente costruita su simboli, idoli e uomini-metafore da dare in pasto alla stampa è normale che poi i nomi che girino e rigirino siano sempre gli stessi. Che Savona sia ministro o presidente della Consob poco cambia. Non è il ruolo: basta che ci sia, che sia esposto in bella vista e che soddisfi gli stomaci dei fans.