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dignità

Il Pd e l’emendamento senza dignità al decreto dignità (*ora il PD dice di averlo “superato”)

**(aggiornamento: il PD dichiara di avere “superato” l’emendamento. Meglio così. Evidentemente il senso delle critiche ha qualche ragion d’essere)**

Non so se avete avuto modo ieri di seguire le mirabolanti gesta del Partito democratico a proposito degli emendamenti depositati sul decreto dignità di Di Maio. Un ripasso breve: alla vigilia dell’inizio della discussione nelle commissioni Finanze e Lavoro i deputati Pd Debora Serracchiani, Stefano Lepri, l’ex Sel Alessandro Zan, Marco Lacarra, Romina Mura, Antonio Viscomi, Carla Cantone (ex leader del sindacato dei pensionati Spi-Cgil) e Chiara Gribaudo (che nella nuova segreteria ha la delega al lavoro) hanno presentato un emendamento per cancellare l’articolo del decreto dignità che aumenta le mensilità degli indennizzi a favore dei lavoratori che vengono licenziati ingiustamente, portandole da 4 a 6 per le minime e da 24 a 36 per le massime.

Avete capito bene: il partito d’opposizione decide di intervenire su un (giusto) articolo che punisce gli abusi contro i lavoratori. Ma non è tutto: ad accorgersi del vergognoso emendamento è Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro nel governo Prodi II, da sempre molto attivo nella guerra al precariato ed è stato proprio lui a raccontare che l’innalzamento degli indennizzi fosse un obiettivo dello stesso Pd quando era al governo nella scorsa legislatura. Quindi, per dirla semplice, il Pd riesce non solo ad essere in contraddizione con i diritti dei lavoratori (questa non è un’inaspettata novità purtroppo) ma addirittura è in disaccordo con se stesso.

Non è finita qui: il segretario Martina e la stessa Serracchiani rispondono mostrando un loro emendamento che alzerebbe gli indennizzi. Peccato che quello si riferisca ai casi di conciliazione, che permettono al datore di lavoro di risparmiare e al dipendente di ottenere con più rapidità l’indennizzo, evitando la trafila al Tribunale del Lavoro. A una domanda insomma rispondono andando fuori tema. Alla grande.

E chi è felice dell’emendamento Pd? Confindustria, ovviamente, che ancora una volta ha sventolato la stessa risibile minaccia secondo la quale maggiori diritti dei lavoratori scoraggerebbero le assunzioni a tempo indeterminato secondo l’antico adagio per cui i lavoratori devono essere grati di essere schiavi e considerare il proprio impiego un privilegio. E il Pd, dopo avere perso vagonate di voti, insiste imperterrito a perderne ancora.

Non si tratta di mancata connessione sentimentale con il proprio popolo: qui siamo proprio all’iterazione del difendere la parte sbagliata, di fare la destra giocando a sinistra, di essere i protagonisti abusivi di una storia che viene tradita con la stessa superficialità che si addossa agli altri. Manca solo di prendere lezioni di solidarietà da Salvini. Distruggere un partito è difficile quasi come crearlo: ci state mettendo del tempo ma ci siete quasi riusciti.

Buon martedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/07/24/il-pd-e-lemendamento-senza-dignita-al-decreto-dignita/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La dignità dell’errore. E delle scuse

Filippo Chiarello aveva 38 anni, due bambini piccoli e un intervento da fare alla colecisti in laparoscopia. Nell’ospedale Santa Sofia di Palermo ci è entrato con l’idea di doverne uscire in pochi giorni, pronto ad affrontare una di quelle operazioni che di questi tempi sono routine. E invece è morto. E fino a qui sembrerebbe l’ennesima storia di malasanità pronta a finire sui giornali (locali, perché la sanità è sempre argomento molto poco pop) e ad aprire una sequela giudiziaria tra cartelle cliniche, scarichi di responsabilità e assicurazioni trincerate in difesa.

Invece qui le porte della sala operatoria si sono aperte davanti alla faccia addolorata di un medico che si è dichiarato colpevole di un errore: «Ho spalancato le porte della sala operatoria, ho allargato le braccia e ho detto che era colpa mia. Mi sono sentito morire dentro, sulle facce dei parenti ho visto la disperazione – racconta il medico che ha fatto l’intervento – e mi assumo la responsabilità ma ci tengo a far sapere che non ero distratto, ero concentrato. La verità è che può capitare e i rischi degli interventi in laparoscopia sono dietro l’angolo».

 

(continua su Left)

Buongiorni e eroi (del giorno)

Gli appuntamenti quotidiani per la mia combriccola di lettori diventano due. Oltre al buongiorno per Left (che è qui e viene sfornato tutte le mattine dal lunedì al venerdì) ci si trova anche nel tardo pomeriggio con ‘L’eroe del giorno‘ su Fanpage (più o meno qui).

Oggi si parla di FC Dolo 1909 e la dignità di un presidente.

Per il resto ci si ritrova qui. Giusto il tempo di scrollarsi di dosso le solite minacce e le litanie troppo sapienti che questa volta non permetteremo nemmeno che si accendano.

Buona lettura.

Prima si muore di vergogna e solo dopo di tumore

Non mi ha dato pace la lettera scritta da Patrizio Cairoli alla ministra Lorenzin in cui racconta del padre morto di tumore dopo cinquantasei ore passate al Pronto Soccorso dell’ospedale San Camillo a Roma.

“Mio padre è morto dopo 56 ore, passate interamente in pronto soccorso. – scrive Patrizio – Lo ripeto: cinquantasei ore in pronto soccorso, da malato terminale, nella sala dei codici bianchi e verdi, ovvero i casi meno gravi. Accanto aveva anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti che, di notte, cercavano solo un posto dove stare. Il peggio, poi, si verificava nell’orario delle visite: sala sovraffollata di parenti che portavano pizza e panini ai malati e che non perdevano l’occasione per gettare lo sguardo su mio padre. Abbiamo protestato, chiesto una stanza in reparto o in terapia intensiva, un posto più riparato. Ma non abbiamo ottenuto nulla. Allora sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l’altro”.

Ecco, io, cinquantasei ore da vedetta mentre un famigliare si consuma in un luogo di passaggio credo che sia un girone infernale che non si meriterebbe nessuno. E non c’entra la malattia, non conta la cura e la prevenzione e nemmeno la polemica politica: è la sensazione di un Paese che nemmeno negli ultimi istanti riesce a riscattarsi, anzi, se possibile, infierisce fino all’ultimo alito. È lo stesso sgomento che mi coglie quando incrocio gli occhi di anziani che si scusano per essere invecchiati troppo e troppo soli, quando ai disoccupati assale l’idea di essere sbagliati e falliti, quando un bambino chiede per favore di raccontargli com’è stare senza bombe.

Non è una notizia, questa, no. È una ferita. Una ferita che non guarisce nemmeno a leccarla con editoriali spinti o con umanità a chili per riparare il danno. È la nostra società profondamente ingiusta con i fragili. Semplicemente. Spaventosamente. È tutto qui.

(Il mio buongiorno per Left è qui)

A dare dignità alla sua morte c’erano la sua famiglia, un maglioncino e lo scotch

Non so se vi è capitato di leggere la struggente lettera di Patrizio Cairoli alla ministra Lorenzin in cui racconta delle condizioni in cui è morto suo padre. Conviene prestarci molta attenzione perché la salute è cura e dignità. Ed è un tema politicissimo:

«Signora ministra, sono passati circa tre mesi dal giorno in cui mio padre ha scoperto di avere un cancro a quello della sua morte; metà del tempo lo ha trascorso ad aspettare l’inizio della radioterapia, l’altro ad attendere miglioramenti che non sono mai arrivati. Nonostante la malattia, ci avevano prospettato anni di vita da trascorrere in modo dignitoso.

È stato sottoposto a radioterapia palliativa, ma di palliativo non aveva che il nome: mio padre aveva sempre più dolori alle ossa; alla fine, non riusciva più a camminare e anche le azioni più semplici, come alzarsi dal letto o scendere dalla macchina, erano diventate un calvario, nella totale indifferenza di medici che, oltre ad alzare le spalle e a chiedere di avere pazienza, non sapevano dire o fare altro, se non aumentare la dose di tachipirina. Ci avevano detto che, dopo qualche giorno, avremmo visto i benefici della terapia; poi, di fronte ai dolori sempre più forti avvertiti da mio padre, era diventato necessario aspettare ‘anche 3-4-5 mesi’. Nessuno ci ha aiutati a comprendere, nessuno ci ha detto quello che avremmo dovuto fare: rivolgerci a una struttura per malati terminali e garantire, con la terapia del dolore, una morte dignitosa a mio padre. Quando l’ho fatto, era ormai troppo tardi: il giorno dopo mio padre è finito in ospedale, al pronto soccorso del San Camillo (che non è l’ospedale dove era seguito), dove finalmente gli è stata somministrata la morfina.

Qui, la situazione si è aggravata velocemente. Mio padre è morto dopo 56 ore, passate interamente in pronto soccorso. Lo ripeto: cinquantasei ore in pronto soccorso, da malato terminale, nella sala dei codici bianchi e verdi, ovvero i casi meno gravi. Accanto aveva anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti che, di notte, cercavano solo un posto dove stare. Il peggio, poi, si verificava nell’orario delle visite: sala sovraffollata di parenti che portavano pizza e panini ai malati e che non perdevano l’occasione per gettare lo sguardo su mio padre. Abbiamo protestato, chiesto una stanza in reparto o in terapia intensiva, un posto più riparato. Ma non abbiamo ottenuto nulla. Allora sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l’altro.

Invece abbiamo dovuto insistere per ottenere un paravento, non di più, perché gli altri “servono per garantire la privacy durante le visite”; una persona che sta morendo, invece, non ne ha diritto: ci hanno detto che eravamo persino fortunati. Così, ci siamo dovuti ingegnare: abbiamo preso un maglioncino e, con lo scotch, lo abbiamo tenuto sospeso tra il muro e il paravento; il resto della visuale lo abbiamo coperto con i nostri corpi, formando una barriera.

Sarebbe dovuto morire a casa, soffrendo il meno possibile. E’ deceduto in un pronto soccorso, dove a dare dignità alla sua morte c’erano la sua famiglia, un maglioncino e lo scotch. È successo a Roma, Capitale d’Italia.»

Ricostruire

Io devo confessare, dopo questa giornata passata a scrivere e leggere dei morti sepolti e dei vivi sfilati alle macerie, che se c’è una forza che mi commuove è quella di chi si dice pronto a ricostruire mentre ancora non ha finito di contare i danni. Questi che decidono di rispondere ai giornalisti con una dignità che gli gocciola per tutto il corpo nonostante non abbia più nemmeno un pezzo di cassetto di un comodino, questi per cui il destino è l’obbligo di trovare la forza di continuare, che sembrano avere già considerata passata la disperazione.

Li ammiro mentre rimangono solidi mentre tutto intorno si sbriciola. Ecco io davvero volo via davanti a questi naviganti con lo sguardo lunghissimo nonostante si muova anche la terraferma. È una magia, la dignità.

“Dignità”: una parola (e un libro) per difenderla

Se posso, ve lo consiglio:

indexCome davanti ad una famosa pizzeria napoletana, c’è sempre ressa alla porta della parola dignità. Si tratti di magnificare la gustosità del “fritto misto” o la prelibatezza della “bottarga” o l’eleganza dell'”abito ladino” o il decoro del “mercato rionale” di Messina o la rispettabilità di piante e di animali, la parola chiamata a illustrare tutto questo bene è sempre la stessa: dignità. È polvere magica, per la cronaca cittadina, quella che emana dal suono e dal segno di questa parola, buona a trascinare nel prestigio e nell’eccellenza qualunque oggetto di pensiero si voglia abbinare ad essa. E in questa manipolazione la parola rischia di smarrire il suo proprio, più autentico significato; rischia di assumere una funzione tutta ed esclusivamente cosmetica, tipograficamente non dissimile da quella del carattere in grassetto o del punto esclamativo. Di fronte ad un tale scempio semantico e culturale non resta che mettersi a ripercorrere la storia di questa parola, la storia di un lungo cammino per vie, viottoli e sentieri sulle terre della filosofia, della politica, della letteratura, della religione, del diritto. Dignità ieri, dignità oggi. Ieri, a cingere di alloro gli eroi e i sapienti delle polis greche. Oggi, dote inviolabile, ma anche mandato etico imperativo, assegnati ad ogni essere umano…

Il libro lo trovate qui. (Il cammino della dignità. Peripezie, fascino, manipolazioni di una parola)

Chi guadagna sulle carceri-lager

Lirio Abbate per L’Espresso:

NU_appello_madre_figlio_carceratoMentre in galera le condizioni sono sempre più disumane, emergono le spese folli dei super dirigenti: foresterie con Jacuzzi in terrazzo, tivù da sessanta pollici e tappeti persiani (ma anche scopini da bagno pagati 250 euro l’uno)
Il vitto di un detenuto costa allo Stato meno di quattro euro al giorno, una somma che dovrebbe garantire tre pasti quotidiani. Ma non sempre le imprese che si aggiudicano gli appalti per cifre così basse riescono a garantire quantità e qualità del cibo che viene distribuito nelle celle. E così i reclusi devono arrangiarsi, con i viveri che ricevono dalle famiglie o con le merci acquistate a carissimo prezzo negli spacci delle case di pena.

Una situazione che condiziona la vita delle oltre 65 mila persone rinchiuse nelle prigioni italiane, in strutture che dovrebbe ospitarne al massimo 47 mila. Allo stesso tempo, però, alcuni magistrati al vertice dell’amministrazione penitenziaria godono di benefit scandalosi: hanno diritto ad appartamenti anche nel centro di Roma con un canone di sei euro al giorno, acqua, luce, gas e pulizie compresi, che non tutti però pagano. Un privilegio che, come nel caso di Gianni Tinebra da sette anni procuratore generale a Catania, mantengono anche dopo avere lasciato l’incarico. E per arredare queste foresterie non si risparmia sui lussi: sul tetto-terrazza di una è stata installata una Jacuzzi con idromassagio, in salotto ci sono tv da sessanta pollici costate duemila euro, sui pavimenti tappeti persiani e si arriva alla follia di far pagare 250 euro lo scopino di un bagno.

L’elenco di queste spese “fuori norma” è stato depositato ai pm di Roma e alla Corte dei Conti che hanno avviato indagini. Ma è solo uno dei paradossi di un sistema carcerario che continua a essere una vergogna italiana. I nostri penitenziari sono una discarica di esseri umani dove non solo è negata ogni possibilità di rieducazione ma viene umiliata anche la dignità delle persone. «Più volte ho denunciato l’insostenibilità di queste condizioni ma i miei appelli sono caduti nel vuoto», ha dichiarato il presidente Giorgio Napolitano nella storica visita a San Vittore del 7 febbraio. Il dramma è stato praticamente ignorato dalla campagna elettorale, con l’unica eccezione dei Radicali, soli a portare avanti una battaglia di civiltà per l’amnistia: un provvedimento che il capo dello Stato ha detto di essere stato pronto a firmare «non una ma dieci volte».

A testimoniare quanto sia paradossale la situazione bastano pochi dati: ogni anno lo Stato destina due miliardi e ottocento milioni per l’amministrazione penitenziaria, ma l’88 per cento finisce negli stipendi del personale. Un altro 7,3 per cento viene impegnato per il vitto dei detenuti e così rimane meno del 5 per cento per qualunque altra necessità: 140 milioni per la benzina, le vetture, le divise, gli arredi, la manutenzione e le ristrutturazioni. Insomma, non ci sono fondi per mettere mano alle terribili condizioni delle prigioni, spesso ancora ospitate in monasteri ottocenteschi o vetuste fortezze. Se si investisse poco meno di 200 milioni di euro sulla ristrutturazione, come spiegano funzionari del Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria, si potrebbero ottenere subito nuovi posti per garantire spazi a 69 mila detenuti, solo per il circuito maschile: basterebbe puntare su un ampliamento degli istituti, senza impegnarsi nella costruzione di altre carceri.

La direzione generale risorse del Dap ha fatto un calcolo di quanto servirebbe per fronteggiare l’emergenza edilizia. La proposta è stata illustrata nei mesi scorsi al Consiglio d’Europa che si è svolto a Roma. Secondo il Dap oggi il valore convenzionale degli immobili è di circa cinque miliardi di euro: ci vorrebbero 50 milioni l’anno per la manutenzione ordinaria e 150 per quella straordinaria. La cronica carenza di stanziamenti oggi ha azzerato gli investimenti per nuovi padiglioni e l’assenza di manutenzione ha determinato la chiusura o il completo abbandono di intere sezioni che «attualmente si trovano in condizioni strutturali e igieniche assolutamente incompatibili con le finalità penitenziarie per cui gli spazi a disposizione dei detenuti si sono ulteriormente ridotti».

Ma invece di fare passi avanti, si continua a precipitare nel baratro. Perché sulla carta c’è «un numero eccessivo di istituti»: sono 206, ma di questi 120 hanno meno di duecento posti e 63 addirittura meno di cento. E le strutture piccole si trasformano in uno spreco di risorse, richiedono un numero più alto di agenti e personale rispetto al numero di reclusi. In teoria, l’Italia ha il miglior rapporto tra metro cubo di edifici e detenuti, senza però che questo dato statistico si trasformi in un miglioramento delle condizioni. Tutt’altro: secondo le analisi del Formez ci sono in media 140 reclusi per cento posti letto. Persone obbligate a vivere per ventidue ore al giorno in celle claustrofobiche, con tre-quattro brande sovrapposte, bagni minuscoli e pochissime docce.

(continua qui)

Manca poco

“La danza è santa, sensuale, ed è un modo per essere molto potente e un po’ pericoloso, senza essere violento.”

Eve Ensler

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