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A proposito di dittatura sanitaria

L’allarme arriva dall’indagine “Mai dati!” presentata durante il Congresso nazionale dell’Associazione Luca Coscioni: in 15 ospedali il 100 % dei ginecologi è obiettore di coscienza. Ed è un dato che non compare nella Relazione sulla 194 del ministero della Salute

In Italia ci sono almeno 15 ospedali in cui il 100% dei ginecologi è obiettore di coscienza. È il dato principale che emerge dall’indagine “Mai dati!” presentata in anteprima durante il Congresso nazionale dell’Associazione Luca Coscioni, a cura di Chiara Lalli, docente di Storia della Medicina, e Sonia Montegiove, informatica e giornalista. Un dato che non compare nella Relazione sulla legge 194/78 del ministero della Salute, che, aggregando i dati per Regione, di fatto non rende pubbliche le percentuali di obiettori sulle singole strutture. Secondo la Relazione, infatti, il massimo di obiettori che risulta è dell’ 85,8%  in Sicilia.

L’indagine di Lalli e Montegiove, nata con l’obiettivo di appurare se la legge 194/78 sulla interruzione volontaria della gravidanza sia effettivamente applicata, evidenzia come la Relazione sulla stessa legge del Ministero della salute pubblicata lo scorso 16 settembre e i dati in essa contenuti restituiscano una fotografia poco utile, sfocata, parziale di quanto avviene realmente nelle strutture ospedaliere del nostro Paese.

Alla richiesta di accesso civico a tutte le Asl e alle aziende ospedaliere censite dal ministero della Salute, ha risposto circa il 60% (al 30 settembre 2021). I risultati dell’indagine saranno aggiornati non appena saranno disponibili tutte le risposte.

Tra i dati più interessanti emersi finora, le 15 strutture ospedaliere in cui il 100% dei ginecologi è obiettore e i 5 presidi in cui la totalità del personale ostetrico o degli anestesisti è obiettore. Ci sono poi 20 ospedali con una percentuale di medici obiettori che supera l’80%. E altri 13 quelli con una percentuale di personale medico e non medico e superal’80%.

Le Regioni in cui ci sono ospedali con il 100% di ginecologi obiettori di coscienza sono Lombardia, Liguria, Piemonte, Veneto, Toscana, Umbria, Marche, Basilicata, Campania, Puglia.

Ci sono molti modi per non attuare una legge: quello di rendere inaccessibili i dati per  verificarne l’attuazione è il più vigliacco eppure è molto popolare. Il diritto negato, tra l’altro, è scritto nero su bianco tra le leggi dello Stato. E forse sarebbe il caso di essere terribilmente concreti nell’attuazione dei diritti, oltre che nell’enunciazione.

Buon martedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Chi era Mikis Theodorakis, musicista partigiano in lotta contro la dittatura

Se da qualche parte c’è un posto riservato agli artisti che no, che non hanno semplicemente pensato a suonare o cantare o recitare o scrivere restando laterali al mondo che avevano intorno allora lì sicuramente da ieri c’è una stanza prenotata a nome di Mikis Theodorakis, il più grande compositore greco che ieri si è spento all’età di 96 anni dopo una lunga malattia, nella sua Atene.

Perché raccontare Mikis Theodorakis come semplice musicista sarebbe una narrazione monca che non tiene conto della complessità. E in un momento storico in cui si tende a negare e sminuire il ruolo politico dell’artista la vita di Theodorakis è un invito a parteggiare, sempre. Allora si dovrebbe dire che nel periodo in cui il musicista era iscritto al Conservatorio Odeon oltre alla musica Theodorakis decise di impegnarsi in prima persona nella resistenza del Fronte di Liberazione Nazionale del Partito Comunista Greco, entrando nell’Elas (l’esercito di liberazione greco). Furono gli anni in cui Theodorakis venne arrestato, carcerato, torturato fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. E mentre coltivava il suo talento musicale decide ancora, nonostante tutto, di mettersi a disposizione dell’esercito di liberazione durante la guerra civile del 1946. Ed è arresto di nuovo, di nuovo violenze e perfino un campo di concentramento a Icaria.

Quando nel 1950 Theodorakis si diploma al conservatorio è un uomo con una vitalità e un’esperienza che la musica può solo elevare. Viene il dubbio, a rileggerne la storia, che davvero l’arte porti addosso le cicatrici di una vita così intensa. Passano 3 anni e il nome di Theodorakis sbarca anche qui in Italia, con il suo Carnival che nel 1953 viene rappresentato all’Opera di Roma. Theodorakis è giovanissimo, appena ventisette anni, e si trasferisce a Parigi: è il periodo dell’esplosione nel mondo della danza, del teatro, del cinema e dello studio della musica popolare ellenica. Inizia la collaborazione con Yannis Ritsos e poi con Kambanellis, poeti che con Theodorakis mettono la parola nel processo di recupero e di rivitalizzazione della musica popolare. Dentro quei testi però c’è anche il loro presente, gli ideali, le lotte perché Theodorakis (e di questo gliene siamo grati) non è mai riuscito a non essere parte vitale del dibattito del suo Paese.

Quando nel 1963 degli estremisti di destra uccidono il politico Gregoris Lambrakis la chiamata all’attivismo politico è troppo forte e Theodorakis torna in patria, fondando il Movimento democratico Giovanile Grigoris Lambrakis e entrando in Parlamento. Con l’avvento del regime dei colonnelli la sua musica viene bandita dal Paese (perché è un’arma bianca potentissima e che spaventa il potere, anche la musica) e per tre anni da latitante vive confinato con moglie e figli in un piccolo villaggio nel Peloponneso. Solo le pressioni internazionali gli hanno permesso di vivere in esilio poi a Parigi. Per questo quando nel 1974 cade il regime viene accolto al suo ritorno come un eroe popolare (perché era un eroe popolare, mica solo un artista) e decide di impegnarsi di nuovo in prima persona. Viene candidato come sindaco di Atene, è ministro del governo di Constantie Mitsotakis e ancora nel 2010 aveva le forze per fondare un suo movimento politico, Spitha.

In tutto questo poi aggiungeteci l’arte: un lavoro smisurato che in Italia ha raccolto come interpreti Edmonda Aldini, Milva, Iva Zanicchi. Ha lavorato con Pablo Neruda nell’esecuzione del Canto General. Nel 1998 dirige la prima assoluta del suo lavoro che lo rende immortale: Zorba il greco con Vladimir Vasiliev e Gheorghe Iancu nell’Arena di Verona. Mentre il mondo cambiava anche la musica greca veniva trasportata dalla tradizione alla modernità. Non è forse innovazione artistica riuscire a declinare la tradizione nel presente? E in questo Mikis Theodorakis è stato uno dei più grandi di questo nostro tempo, in tutto il mondo.

Ora che è mancato, mettendo in fila le sue vicissitudini personali, politiche e artistiche ci si rende conto che il mondo piange una grave perdita ma custodisce un’enorme testimonianza: partecipare al proprio tempo è una missione che con l’arte diventa potentissima. E ora, insieme alla sua musica, non resta che sperare che non vada persa nemmeno la sua testimonianza.

L’articolo Chi era Mikis Theodorakis, musicista partigiano in lotta contro la dittatura proviene da Il Riformista.

Fonte

La dittatura degli irrilevanti

Catullo le chiamava nugae, erano sciocchezze, robe da poco che però hanno meritato di comporre la prima parte del suo Liber. Anche Petrarca aveva capito che con le cose da poco ci si poteva fare letteratura ma nessuno dei due poteva immaginare che gli irrilevanti avrebbero secoli dopo occupato tutte le prime pagine dei giornali, avrebbero monopolizzato il dibattito pubblico e avrebbero perfino acceso l’acquolina in bocca di due aspiranti presidenti del Consiglio come Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

Siamo alla dittatura, la dittatura, sì, degli irrilevanti. Sparuti gruppi che si credono molto furbi e con la voce molto grossa, che nella loro cerchia endogamica si sentono parte di un movimento epocale e credono di essere a fare la rivoluzione mentre pesano come il vociare dei ragazzetti in cortile che buttano il pallone contro la saracinesca fino allo zoccolo di qualche signora spazientita.

Un 3 per cento di no vax monopolizza le prime pagine

I più in voga sono i no vax: leggi i giornali e immagini che un’orda enorme di persone, una fiumana di bocche arrabbiate stia sovvertendo l’ordine mondiale. Se capita di leggerli sui social poi te li immagini bardati da scudieri pronti a ribaltare le piazze, convinti di essere dalla parte giusta della Storia, loro enorme maggioranza dei popoli di tutto il mondo rimpiccioliti dalla stampa che li boicotterebbe ogni secondo. Peccato che sia vero proprio il contrario: l’Università degli Studi di Milano, attraverso la ricerca ResPOnsE Covid-19 del Laboratorio Sps Trend, dice chiaramente che la stampa (che ha bisogno di terrorizzare non meno di quelli che critica perché vorrebbero governare usando l’arma della paura) continua volutamente a confondere quelli che non hanno intenzione di vaccinarsi con quelli che sono contrari all’obbligo vaccinale. Ma basta grattare un po’ tra i numeri (quei numeri che conviene a molti non analizzare per poter sputare fumo utile al caos), per vedere che i primi sarebbero passati dal 6 per cento dei mesi scorsi al 3 per cento odierno. Avete letto bene: il 3 per cento degli italiani meritano aperture di editoriali, blocco del Parlamento, spremitura di meningi altissime condite da un po’ di spirito di contraddizione travestito da filosofia. A posto così. Chissà cosa pensano Salvini e compagnia cantante vedendo quanta fatica (e quanta credibilità) devono continuare a consumare per raccogliere gli stessi voti che potrebbero conquistare con un’altra bella polemica sulle nocciole della Nutella. Questi tra l’altro sono scontenti per definizione e quindi si sposteranno sempre di più, saranno sempre più estremi e non è un caso che alla fine finiscano in piazza con quel nugolo flaccido di fascistelli a oltranza. A proposito: anche quelli a livello elettorale pesano come una corrente di minoranza di un’assemblea di condominio.

Il paradosso di Italia viva: sono uno zero virgola ma ha torto chi non li vota

Sempre rimanendo tra gli irrilevanti (e amici) non si può non registrare Renzi e la sua schiera: i sondaggi sono ormai roba da particella di sodio eppure lui e i suoi sfegatati colleghi non si sono resi conto di avere più senatori che elettori. Merito del giochetto di palazzo che gli ha lasciato come capitale un numero di parlamentari che alle prossime elezioni saranno un lontano ricordo eppure alcuni giornali e siti insistono nella loro buffa linea editoriale che consiste nel dirci che siamo stronzi noi e per questo Italia viva non sfonda. È colpa nostra. Quello, il Matteo che da sinistra sta galoppando verso destra, ogni mattina in cui si vede sui giornali si sente la Lady Gaga della politica nostrana e pompa il suo scollamento dalla realtà. Anche loro sembrano tantissimi, su Twitter addirittura spopolano feroci sembrando una fiumana. Peccato che rosellina08228745 non abbia sicuramente il certificato elettorale.

I temi veri come la disoccupazione e la scuola non trovano spazio

Poi ci sono quelli che tornano utili alla propaganda: piccoli autori di reati nella provincia più profonda che servono a definire “gli stranieri” e allora finiscono nella centrifuga della politica nazionale per un piccione spennato al semaforo. Medici dubbiosi che diventano eroi per un’intervista rilasciata alla Gazzetta di Canicattì rilanciata con foga dai media nazionali. Perfino cretini fascistelli che hanno capito che un’effige di quel tempo possa regalagli 10 minuti di celebrità. Poi c’è, ne avevamo già scritto, tutto ciò che torna utile per creare una bolla del politicamente correttore che non esiste: se una maestra elementare di qualche sconosciuto borgo si permette di dire che non le piace Biancaneve può stare sicura di meritare almeno uno straccio di interrogazione parlamentare da Fratelli d’Italia con uno strepito in omaggio di Giorgia Meloni. Nel frattempo ci sarebbero dei numeri, veri, importanti, tanti come i lavoratori che non vedono futuro oppure tutto il mondo della scuola che si interroga sulla ripartenza della ripartenza che potrebbe non ripartire. Ma adesso no, adesso la dittatura che va per la maggiore è quella degli irrilevanti. Vuoi mettere la soddisfazione di creare qualcosa che non esiste in natura? Altro che giornalismo, qui siamo nel divino.

L’articolo La dittatura degli irrilevanti proviene da Tag43.it.

La dittatura Montesanitaria

Enrico Montesano in un video ha sostenuto che secondo una fonte «di rango» dell’Avis il sangue dei vaccinati anti Covid19 si sarebbe coagulato, tanto che i centri avrebbero gettato via le sacche. L’Avis naturalmente gli ha risposto, facendogli fare una figura barbina…

L’altro ieri Enrico Montesano, triste come possono essere tristi i comici quando non fanno più ridere, ha pensato di condividere un video in cui sputare i suoi soliti ridicoli complotti sulla pandemia. Sosteneva che secondo una fonte «di rango» dell’Avis il sangue dei vaccinati anti Covid19 si sarebbe coagulato, tanto che i centri avrebbero gettato via le sacche. Per chi non sapesse il comico che non fa ridere già da tempo si è ritagliato il suo piccolo palcoscenico tra la platea di no vax, negazionisti e complottisti vari.

L’Avis ha risposto direttamente sul suo sito facendo rimediare a Montesano una figura barbina: «Donare il sangue dopo aver ricevuto il vaccino contro il Covid non comporta alcun rischio né per il donatore stesso né per i pazienti a cui trasfonderlo. Affermare il contrario, come ha fatto il signor Enrico Montesano nel suo video, è un gesto altamente pericoloso per gli equilibri del nostro sistema sanitario, ma in particolare lesivo nei confronti di Avis e di tutti i donatori che, quotidianamente, compiono questo gesto di solidarietà, a garanzia del diritto di cura di ogni malato», ha scritto il presidente Gianpietro Briola, aggiungendo di comprendere «la voglia di notorietà e pure la convinzione delle proprie idee» (cattivi, eh) chiarendo che «temi come questo non devono basarsi su percezioni, paure o, peggio, diffamanti affermazioni».

Montesano, che come tutti i ribelli diventa pecora appena ha paura di essere toccato sul portafoglio, ha fatto un nuovo video in cui ritratta poi ci dice che comunque ha il diritto di avere le sue idee e che è un uomo libero e che la colpa è del governo e tutto il resto. Mi sono permesso di rispondergli con un commento (mi capita raramente di farlo) che diceva così:

«Vedi caro Montesano, l’aspetto più triste non è l’enorme boiata che hai sparato
su sangue che si coagula e sacche “buttate via”, recitata con la stanca boria che
contraddistingue un attore a corto di repertorio. L’aspetto più inquietante è che in un momento come questo l’Avis abbia dovuto spendere tempo e energie per
rispondere al letame che irresponsabilmente hai sparso per ottenere un qualche
timido applauso ammaestrato. E poi c’è un punto, ancora più sostanziale:
nonostante l’enorme figura barbina che sei riuscito a collezionare ancora spendi
un po’ di presunzione a parlare di “mezzi di informazione”, tu che scambi per
“informazione” il “sentito che” per moltiplicarlo ai tuoi fans. Vai controcorrente
come vanno controcorrente quelli che per distinguersi semplicemente dicono il
contrario, sapendo che è più facile spiccare tra i cretini che lì dove contano le
opinioni e le prove alle proprie tesi. Giochi a fare il protagonista di una scemotta
commediola che andrebbe in seconda serata scambiando la ridicolaggine per
comicità. E ancora scrivi “ho le mie idee” come se il fatto siano tue basti a
leggittimarle. Tu hai le tue idee. Noi abbiamo il diritto di additarle come cretine».

E sapete cosa ha fatto Enrico Montesano il difensore della libertà di avere idee cretine? Mi ha bannato. Anzi, come direbbero loro, mi ha “censurato”, probabilmente perché sono contro i poteri forti. O probabilmente perché anche lui, come capita spesso, reclama solo il diritto di avere idee che siano confacenti alle sue. Il sovranismo delle opinioni, insomma.

E allora ho capito: ha ragione Montesano, siamo nel bel mezzo di una dittatura Montesanitaria.

(Se passate di lì salutatemelo, fategli leggere questo pezzo, raccontategli di un povero giornalista oscurato dal sistema, vittima del Montesanamente corretto)

Buon venerdì.

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Insozzare la Liberazione

Ci sono molti modi di insozzare il 25 aprile, ognuno con il proprio stile ma tutti tesi (come un braccio teso) per svilire e in fondo per provare a non scontentare i fascisti. Siamo ancora al punto in cui almeno si vergognano di leccare spudoratamente i fascisti e quindi provano ad accarezzarli di sponda. Almeno questo.

Giorgia Meloni se la gioca (come era immaginabile) trasfigurando la libertà di andare al ristorante e mette in mezzo partigiani (senza citarli, sia mai) e lavoratori provando a innescare la solita guerra tra disperazioni: “La libertà, mentre la celebriamo, non è più scontata – scrive – a oltre 70 anni dall’inizio della nostra Repubblica democratica, e ad oltre un anno dall’inizio della pandemia, il governo ancora pensa di potersi arrogare il diritto di decidere se e quando gli italiani possano uscire di casa. Appello a tutti coloro che credono nel valore della libertà: aiutateci ad abolire il coprifuoco“. Insomma: il coprifuoco è il nuovo fascismo, dice Giorgia Meloni. Complimenti.

A ruota arriva Salvini, che ormai è una Meloni in versione analcolica. Pubblica un video sui suoi social e urla: “Noi, donne e uomini liberi d’Italia, chiediamo la cancellazione dell’insensato COPRIFUOCO e la riapertura di TUTTE le attività nelle zone (gialle o bianche) in cui il virus sia sotto controllo’. Al momento le adesioni sono 7.750. Nel video pubblicato sul web, Salvini aggiunge: “Se saremo 10mila è un conto, se saremo 100mila o un milione… Oggi è la giornata della Liberazione. Io e la Lega daremo l’anima dentro al governo, perché le le battaglie si combattono stando dentro e non uscendo o scappando, cercando di limitare la prepotenza di chi vede solo rosso, divieti, chiusure e coprifuoco”. Insomma, una Giorgia Meloni al maschile con la differenza che lui sta al governo con quelli che vorrebbe pugnacemente combattere. Un eroe.

Pietro Ichino prova a allargare il campo riuscendoci male: “La Festa della Liberazione non può ridursi a un’acritica celebrazione dell’epopea partigiana: deve essere anche occasione per riflettere sulle responsabilità delle forze antifasciste nell’avvento della dittatura”. Benissimo: poi scriviamo un saggio sulla colpa degli ebrei che la Shoah se la sono andata a cercare.

Il sindaco di Codogno Francesco Passerini dimostra di essere più pandemico della pandemia rifiutando di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini con motivazioni che fanno spavento: “Codogno diede l’onoreficenza a Mussolini nel 1924, fu una iniziativa nazionale dell’Anci del tempo. E’ un atto storico, come quando Napoleone ha dormito a Codogno e poi andò a Lodi a far guerra. Non è che poi è venuto giù il palazzo dove dormì. Abbiamo anche alcune strutture che ricordano il periodo fascista, come Villa Biancardi che è ancora lì. E per fortuna. Non si può pensare di cancellare e demolire tutto perché costruito da una parte della storia ‘particolare’”. Insomma erano particolari, mica fascisti.

Fenomenale anche il sindaco di Salò: “Dopo la caduta del Fascismo – dice all’opposizione che chiedeva simbolicamente di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini – sui banchi dove state ora accomodati, si sono seduti uomini che di antifascismo e lotta partigiana potevano sicuramente fregiarsi di sapere tanto, tanto più di Voi, e di Noi, avendo fatto parte personalmente di quella lotta, avendoci messo la faccia e, avendo spesso, rischiato la vita per gli ideali in cui credevano. Eppure queste persone non si posero, allora, il problema della Cittadinanza onoraria”. Insomma: se non l’hanno fatto gli altri io mi sento assolto.

Sceglie la linea del banalissimo e goffo provocatore anche il professore universitario Riccardo Puglisi, star presso se stesso su Twitter, che ci butta un po’ di liberismo d’accatto: “Mi sembra di capire che parecchi partigiani comunisti volessero passare direttamente dalla liberazione alla dittatura del proletariato”. Che spessore, ma dai.

Infine lui, Renzi: “Oggi è festa di libertà. Memoria di chi ha combattuto per salvarci, impegno per il futuro. Rileggere oggi le lettere dei condannati a morte della resistenza commuove e spalanca l’anima”. Non è festa di libertà ma festa della Liberazione dal nazifascismo, ma figurati se riesce a dirlo. E scrive “resistenza” in minuscolo, genio. Però la festa della libertà, se gli può interessare, si festeggia proprio domani in Sudafrica. Sempre che non abbia impegni dal principe saudita.

Buon lunedì.

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Diritti di Cristello

Mi sembra che si parli molto poco, troppo poco, con quel silenzio cortese che si crea di solito per inzerbinarsi a qualche potente, della storia di Riccardo Cristello, che da 21 anni lavora all’ex Ilva di Taranto, che è stato operaio in magazzino e poi tecnico controllo costi dell’acciaieria, che ha aiutato anche in amministrazione per le fatture e che dopo una vita vissuta all’interno dell’azienda senza mai nemmeno una virgola fuori posto ora si ritrova disoccupato, licenziato per “giusta causa” solo che a guardarla da fuori la causa sembra tutt’altro che giusta.

La colpa di Cristello sarebbe quella di avere condiviso sul suo Facebook (e ci potete scommettere che Riccardo non sia propriamente un influencer capace di raggiungere milioni di persone) una lettera non sua, arrivata da un gruppo watshapp, in cui si invitava a seguire in televisione la fiction Svegliati amore mio (un programma con Sabrina Ferilli, eh, mica un pericoloso documentario di giornalismo di inchiesta) in cui si denunciano i danni che il siderurgico provoca in termini di salute pubblica. Sia chiaro: la serie televisiva non è sull’ex Ilva e non ha riferimenti su niente.

Seduto sul divano Riccardo Cristello e sua moglie devono avere pensato che valesse la pena sprecare una serata per un argomento così vicino alla loro vita e alla vita dei loro concittadini, in quella Taranto dove quasi tutti hanno un amico o un parente ucciso dalla gestione criminale dell’acciaieria, ben prima che arrivasse ArcelorMittal a gestirla.

«Dopo anni di rapporti umani vissuti nella fabbrica, mi hanno chiamato la domenica delle Palme dicendomi che c’era un problema di numero e che dovevo rimanere in cassa integrazione per una settimana. In verità mi stavano sospendendo per poi licenziarmi, senza nessun avvertimento, nessuna telefonata, se non la raccomandata col provvedimento», racconta in un’intervista a Repubblica Cristello. Licenziato così, su due piedi, per un post su Facebook che ha fatto rumore solo dopo il licenziamento. Una scelta di marketing tra l’altro che grida vendetta per stupidità e per cretineria.

Poi, volendo vedere, ci sarebbe anche quella vecchia questione dei diritti da rispettare, della politica che dovrebbe alzare la voce (almeno una parte) e di una violenza che ha distrutto la vita di una persona. «Ho l’impressione di essere il capro espiatorio. Lo spirito sembra sia quello di punirne uno per educarne cento. Non possiamo più parlare, non possiamo più commentare, dobbiamo stare zitti e basta», dice Cristello.

Viene da chiedersi se in questo periodo in cui alcuni vedono “dittatura” dappertutto non sia il caso di alzare la voce per una situazione del genere: c’è dentro il diritto al lavoro, il diritto alle proprie opinioni (che tra l’altro nulla c’entrano con l’azienda) e soprattutto c’è il diritto di dire forte che Taranto è stata devastata e sanguina ancora.

Aspettiamo con ansia.

Buon martedì.

Nella foto frame da una videointervista del Corriere della Sera

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Ora non c’entra più l’eredità di Conte: questo weekend è andato in scena il grande flop del piano vaccini

La gestione di una pandemia, la condivisione di limitazioni personali e la sopportazione delle difficoltà economiche e lavorative si regge su un patto sociale tra cittadini e governanti in cui le due parti riconoscono le proprie responsabilità e l’impegno di entrambi di assolverle con il massimo dell’impegno. Se quel patto si rompe (o comunque inizia a cigolare) si rischia la sfiducia, la disillusione, il lassismo e perfino la rabbia.

Per questo ogni volta che si sente dire di un “cambio di passo” nella campagna vaccinale o si ascolta qualcuno del governo promettere numeri e risultati nei prossimi mesi si nota in risposta una certa diffidenza e sempre meno reazioni positive: governare una pandemia non è certo facile ma in questi mesi la mancanza di cautela da parte di qualche esponente politico o amministratore ha alimentato promesse contraddette dalla realtà. Sarebbe il caso di averlo capito, dopo tutto questo tempo, eppure quelli insistono nell’errore senza riconoscere l’inefficacia di qualsiasi annuncio.

Cosa serve per rinsaldare la fiducia? Fare, fare, fare. Lo disse lo stesso Draghi nei giorni del suo insediamento: “niente annunci, solo fatti”. Non è andata proprio così.

Ad esempio la risposta migliore agli “aperturisti” (alcuni addirittura irresponsabili nel voler solleticare gli intestini dei complottisti peggiori) sarebbe quella di accelerare con le vaccinazioni. Missione fallita: 211mila sabato,  92mila domenica e ieri  124mila (dato ancora parziale): il grande flop del piano di vaccinazione di massa del governo Draghi tra Pasqua e Pasquetta 2021.

Sono circa 500mila dosi in tre giorni, esattamente la cifra che il commissario Figliuolo promette ma come cifra giornaliera. Che durante i festivi si assista a un drastico calo di tamponi e di vaccini è una situazione che molti da più parti continuano a sottolineare. Si sperava però nel promesso “cambio di passo” visto come soluzione anche da chi sosteneva che il problema fosse legato esclusivamente al governo Conte. E invece niente.

Le Regioni dicono di non avere più vaccini eppure lo Stato risponde che ci sono ancora tra i 2,3 e i 2,9 milioni di dosi ancora da somministrare nei frigoriferi. “Ho dato per scontato – sbagliandomi di grosso – che tutti sapessero che il virus non osserva le feste comandate”, scriveva ieri il virologo Roberto Burioni.

La campagna di massa cerca di alzare il livello oltre le 240mila dosi somministrate in media al giorno ma non si riesce a toccare le 300mila iniezioni in 24 ore e l’obiettivo delle 500mila entro fine mese ormai è piuttosto incerto. E il patto tra Stato e cittadini traballa.

Leggi anche: 1. Le Regioni in ritardo sui vaccini sono tutte guidate dalla Lega (di G. Cavalli) / 2. Cassieri, commessi e altri eroi dimenticati: l’insopportabile classismo nella corsa delle categorie ai vaccini (di G. Cavalli) / 3. Prima si lamentavano per la “dittatura sanitaria”. Ma ora che le chiusure le fa Draghi va tutto bene (di. G. Cavalli)

L’articolo proviene da TPI.it qui

Non ce n’è Covvidi!

I dati relativi all’andamento del contagio Covid che Regione Sicilia inviava quotidianamente all’Istituto superiore della sanità venivano alterati diminuendo il numero dei positivi e alzando il numero dei tamponi per rientrare nei parametri che evitano nuove restrizioni. È l’accusa rivolta dalla procura di Trapani ad alcuni dipendenti del Dipartimento regionale per le Attività sanitarie e osservatorio epidemiologico (Dasoe) dell’Assessorato della Salute della Regione Sicilia, indagati per falso materiale e ideologico. Per il giudice per le indagini preliminari si è trattato di un «disegno politico scellerato». E non si tratterebbe di qualche caso isolato: secondo la procura sarebbe accaduto almeno 40 volte. Si tratterebbe di un atteggiamento sistematico.

I dialoghi tra l’assessore alla Sanità della Regione Ruggero Razza (che ieri ha rassegnato le dimissioni) al telefono con la dirigente del Dasoe Maria Letizia Di Liberti sono di quelli che fanno venire la pelle d’oca per la ferocia e per il disinteresse verso la salute pubblica: discutono dei numeri dei morti dicendosi «Ma sono veri?». «Sì, solo che sono di tre giorni fa». «E spalmiamoli un poco…». «Ah, ok allora oggi gliene do uno e gli altri li spalmo in questi giorni, va bene, ok. Mentre quelli del San Marco, i sei sono veri e pure gli altri cinque sono tutti di ieri… quelli di Ragusa, Ragusa cinque! E questi sei al San Marco sono di ieri.. perché ieri il San Marco ne aveva avuti ieri altri cinque del giorno prima, in pratica. Va bene? Ok». «Ok». «Ciao, ci metto questi io».

Allo stesso modo ci si comportava con i nuovi contagi: «61 Agrigento, 75 Caltanissetta, 90 Catania, 508 Palermo…», snocciola il funzionario Salvatore Cusimano, uno dei tre dirigenti regionali finiti agli arresti domiciliari. Dati che fanno saltare sulla sedia Di Liberti, che urla: «Ma che dici? Ma che dici? No, scusa non può essere, se sono quei i dati definitivi, Palermo va in zona rossa subito, subito». E la zona rossa, come è accaduto anche dalle parti di Bergamo in Lombardia a inizio pandemia, deve essere evitata per non perdere soldi.

Allora conviene fare un passo indietro, al 5 novembre scorso, quando il presidente della Regione Sicilia Nello Musumeci sparava fuoco e fiamme contro il governo nazionale per le restrizioni imposte alla sua regione: anche in quell’occasione aveva parlato di un complotto antisiciliano, di un governo che chiudeva tutto senza «evidenza di dati» e di una «Sicilia senza colpe». Accade in Sicilia ma è un refrain a cui ormai siamo abituati: le restrizioni viste come “una punizione” possono essere buone per la propaganda di qualche complottista ma che a lanciare l’accusa siano stati spesso dei presidenti di Regione ha alimentato non poco l’idea di una dittatura sanitaria appiattendo un dibattito che invece meritava (e merita) di essere fatto senza che sia sempre e solo propaganda e scontro.

Non è una questione di profili penali (quelli ci penserà la giustizia a approfondirli): si tratta di un uso spregiudicato del potere che sembra non avere mai la capacità di valutare la salute pubblica serenamente, senza metterla in competizione con il fatturato. Siamo sempre qui, siamo ancora qui. E forse la questione è molto più larga della semplice Sicilia: da mesi molti analisti (gente che i numeri li maneggia per mestiere) segnalano “stranezze” nei dati giornalieri. E il dubbio è che il tempo ci mostri il vero volto del potere in questa pandemia. E non sarà un bel vedere.

Buon mercoledì.

* In foto, l’assessore alla Sanità della Regione Sicilia Ruggero Razza e il governatore Nello Musumeci

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Da lunedì 3 settimane chiusi in casa ma nessuno ha il coraggio di chiamarlo per quel che è: lockdown

Avete seguito la conferenza di stampa di Draghi in cui ha illustrato il peggioramento dei colori delle regioni che di fatto istituisce il (doveroso, vista la situazione) lockdown praticamente su quasi tutto il territorio nazionale e che prevede nuove restrizioni in occasione delle prossime festività pasquali? No, perché non c’è stata nessuna conferenza stampa.

Avete sentito le voci di sdegno dei giornalisti che rivendicano (giustamente) il diritto di porre delle domande e di ottenere delle risposte, quelli che lamentavano (giustamente) lo storytelling imposto da Casalino senza nessuna possibilità di contraddittorio? No, perché non ce ne sono state.

A proposito: cosa ne dite delle comunicazioni al Parlamento (lungamente invocate) sulle prossime chiusure e della ricchissima discussione parlamentare che ne è seguita? Niente, nemmeno qui. Non ci sono state. Avete sentito, a proposito, gli strepiti di Salvini che contesta la dittatura sanitaria e che invita il ministro Speranza (è sempre lui il ministro, eh) ad andare a casa perché incapace di prendere qualsiasi altra decisione che non sia una chiusura totale? Niente, niente di niente. Zero.

L’Italia è nel pieno della terza ondata, lo dimostrano i numeri e purtroppo coloro che sono stati apostrofati come “catastrofisti” hanno avuto ragione e ancora una volta il governo è costretto (come accade in tutti i Paesi del mondo) a correre ai ripari con nuove restrizioni.

Si può discutere per giorni se è stato fatto tutto il possibile per mettere in sicurezza il Paese, si può (e si deve) controllare passo per passo la campagna vaccinale e la prontezza delle risposte del sistema sanitario ma la grande differenza del governo Draghi (che inevitabilmente si ritrova a dover prendere le stesse misure di prima) sembra essere un condono comunicativo che si dovrebbe accettare in nome di una non precisata presenza di “tecnici” a cui è permesso non comunicare.

Così accade che qualsiasi provvedimento necessario ma impopolare scivoli liscio come se fosse un naturale meccanismo che non ha bisogno di spiegazioni e che gode di una silenziosa accondiscendenza. Ma il punto sostanziale rimane uno: essere presidente del Consiglio significa ricoprire un apicale ruolo politico e la politica ha il dovere di accompagnare le azioni con esaurienti spiegazioni e con l’assunzione di responsabilità per il presente e per il futuro.

Draghi può essere “un tecnico” ma non può permettersi di fare “il tecnico” nel ruolo che ricopre. Non durerà a lungo questo velo, no, qualcuno glielo dica, per il suo bene e per il bene del governo.

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Produci, consuma, crepa: siamo liberi di andare a lavoro e rinchiusi in casa nel tempo libero. È coerente?

L’argomento è terribilmente scivoloso e si gioca su un filo poiché la tossica presenza di no vax e di strillatori che vedono “dittatura sanitaria” dappertutto rende difficile avventurarsi in questa selva però ci provo, perché appiattirsi in nome della paura è uno stato sociale che dovremmo comunque cercare di evitare, perché se per cautela e protezione ci sono limitati i movimenti non si vede perché dovrebbero essere smussate anche le opinioni.

Da un anno abbiamo imparato a nostre spese che il virus che sta condizionando il mondo si combatte modificando i nostri comportamenti, usando dispositivi e cautele e adottando distanze fisiche (perché “distanziamento sociale” era e continua a essere una pessima definizione) che aiutano nella prevenzione del contagio.

Un anno fa abbiamo scelto che la nostra vita sociale e professionale venisse messa in pausa confidando che venissero prese tutte le iniziative utili per predisporre il contrasto: tamponi, tracciamento, trattamento sanitario, potenziamento del trasporto pubblico, rafforzamento della medicina di base, approntamento della campagna vaccinale, messa in sicurezza di scuole e di uffici, controllo serrato dei protocolli negli ambienti di svago e di lavoro.

Alcuni di questi punti sono stati disattesi o affrontati con forze inadeguate. Ma non è questo il punto, ora non si discute delle responsabilità. Un anno dopo ci ritroviamo in una situazione non molto dissimile dal primo lockdown: ospedali in sofferenza, i vaccini mancano, i contagi crescono e le nuove varianti colpiscono nuove fasce di popolazione.

La strategia del governo però appare sempre la stessa: libertà di movimento per quel movimento che serve appena per spostarsi nei luoghi di lavoro e per gli approvvigionamenti che servono per sopravvivere. Le ultime voci parlano di un lockdown “morbido” durante la settimana e di un pugno più duro durante il week-end. Per semplificare: lavorate, consumate e poi, solo poi, proteggetevi. Il modello è “produci, consuma, crepa”.

Decidere cosa chiudere e cosa tenere aperto significa comunque proporre un modello di priorità. Siamo sicuri che queste priorità non possano essere messe in discussione? C’è qualcuno che abbia l’autorità politica di aprire una riflessione sul disegno di Paese in piena pandemia? È possibile contestarne il modello? Davvero vogliamo lasciare tutto lo spazio delle critiche ai populisti destrorsi e ai complottisti? Perché forse ci farebbe bene a tutti pensare alle priorità di un Paese, anche in piena pandemia.

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