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diventa

#quellavoltache la rete diventa testimonianza

Che poi, in giornate così, pensi anche a tutto quello che di buono si potrebbe fare, facendo rete oltre che nella rete: ieri con l’hashtag #quellavoltache sono state moltissime le testimonianze di abusi (e soprusi) subiti. Scritti in 140 caratteri, incorniciati dentro un’app, fatti di bit, eppure così letterari che non hanno bisogno di commenti. Basta leggerli.

AsiaArgento
#quellavoltache un regista/attore italiano tirò fuori il suo pene quando avevo 16 anni nella sue roulotte mentre parlavamo del “personaggio”
15 ott 2017, 18:35
JVacchino
#quellavoltache ero una bambina e lui un adulto di cui i miei si fidavano, tanto da lasciare che mi portasse in barca con lui.
16 ott 2017, 01:24
kamillafilippi
#quellavoltache a 12 anni al parco un signore si masturbó guardandomi, io gli tirai una pietra e corsi veloce come mi aveva insegnato mamma
16 ott 2017, 01:32
micholivieri
#quellavoltache un produttore mi invitó a bere qualcosa per parlare di un film che voleva dirigessi… e poi cercó di baciarmi.
16 ott 2017, 01:20
LaSkilly
#quellavoltache sono sposato ma posso farti arrivare dove vuoi se sarai un po’carina con me… Non fui carina, non fui confermata
16 ott 2017, 00:51
PaolaAguggia
#quellavoltache l’anziano vicino di casa cacciò le sue mani sotto l’abitino Quanti anni avesse quella bimba non lo ricordo più
16 ott 2017, 00:46
artemide_15
#quellavoltache sono stata palpeggiata da due ragazzi contemporaneamente alle 10 di mattina e mi è stato di non usare vestiti aderenti
16 ott 2017, 00:40
PasqualeCero
#quellavoltache ero al cinema con le amiche. 14anni. Un estraneo adulto mi infilò la mano sotto la gonna, spinsi via la mano e lui scappò
16 ott 2017, 00:34
NadiaNunzi
#quellavoltache denunciai e mi dissero: «Signora è sicura? Lo sa che la denuncia è una cosa seria?» e in seguito non accadde nulla.
14 ott 2017, 19:52
KarinProia
#quellavoltache a 13anni mi dissero “questo dev’essere il nostro segreto” andai a dirlo a mamma, al preside e poi in tribunale. Fatelo tutte
15 ott 2017, 12:05
nadiolinda
#quellavoltache a una cena elegante uomini stimati raccontavano le loro vacanze da turisti sessuali con le bambine nell’ilarità generale.
14 ott 2017, 11:55
MariaAdeleNari
#quellavoltache mia figlia trovò il coraggio di denunciare il marito per le violenze subite ed ebbe inizio un calvario senza fine
15 ott 2017, 15:40
ma__non__troppo
#quellavoltache dissi a un carabiniere che il mio molestatore somigliava a Kakà e mi rispose che fosse stato Kakà non avrei denunciato
14 ott 2017, 11:07
ilaria1278
#quellavoltache Sono due giorni che scrivo e cancello perché ancora risuonano in testa i commenti delle persone a cui lo raccontai allora.
15 ott 2017, 16:29
CostanzaRdO
#quellavoltache alla denuncia al Commissariato Trevi, la mattina dopo l’aggressione, mi chiesero, “Ma scusi, lei com’era vestita?”
14 ott 2017, 23:04
alessiaesse
#quellavoltache lui mi disse “Sei troppo chiusa, devi scopare di più” e cercò di toccarmi: era il mio psicologo.
16 ott 2017, 00:22
catiacorbelli
#quellavoltache il prof all’università mi disse “Lei è molto preparata ma x darle il 30 ci dovremmo vedere soli qnd ho finito con gli altri”
16 ott 2017, 00:21
gabriellainsana
#quellavoltache in azienda il capo durante una transferta m ha detto di andare nella sua camera.ho detto no.dopo 15 gg non avevo + un lavoro
16 ott 2017, 00:20

 

vermessina86
#quellavoltache un datore di lavoro mi infilò le mani sotto la maglietta, e io per la vergogna lasciai il lavoro il giorno stesso
16 ott 2017, 00:18
sabrinatamanini
#quellavoltache facevo volantinaggio in nero, e prima di pagarmi mi ha toccato il seno e mi ha detto “se vuoi, te ne do di più.”
16 ott 2017, 00:18
MaPtiVa
#quellavoltache il dentista mi disse di spogliarmi per farmi un massaggio alle spalle visto che ero così “tesa”
16 ott 2017, 00:14
ferrerogiorgia
#quellavoltache il dentista aspetto’ che la segretaria andasse di là per accarezzarmi e baciare le labbra. Oggi ha chiuso la sua attività.
16 ott 2017, 00:01
lumacapop
#quellavoltache tassista si fermò e mi disse: “se invece di andare dove dici ti porto al mare?” Finì lì ma ancora odio prendere taxi 27 anni
15 ott 2017, 22:46
Ciandreamy
#quellavoltache un muratore chelavorava vicino casa con una scusa mi ha spinta contro il muro eccitato perché voleva un Avevo dieci anni.
15 ott 2017, 22:30
tinellissima
#quellavoltache mi lasciò un biglietto con scritto: quando torni a casa vedi che ti faccio. Non sono più tornata in quella casa.
15 ott 2017, 22:11
caterinazanfi
#quellavoltache un professore di 43 anni più di me mi accarezzò i capelli, mi chiamò “biondina” e mi invitò a richiamarlo per avere sostegno
15 ott 2017, 21:53
Ondivagheggio
#quellavoltache il capo in riunione rivolto alle mie colleghe: “la gravidanza le fa proprio un bel culo”. e le colleghe risero
15 ott 2017, 21:24
giuliaranzini
#quellavoltache il mio istruttore di scuola guida chiedeva un bacio prima che scendessi dall’auto, ogni volta. E non si è fermato quando…
15 ott 2017, 19:10
francescademart
#quellavoltache l’insegnante di recitazione ripeteva quasi tutti i giorni: datela bene, passate i letti giusti
15 ott 2017, 18:53
claudiapuddu11
#quellavoltache mia cugina denunciò mio nonno per stupro e gran parte della mia famiglia si schierò compatta nel darle della puttana.
15 ott 2017, 18:09
tomicictatjana
#quellavoltache primo lavoro, 14 anni, lui una quarantina capo della e tutor, mi mette la mano sotto la gonna “ti piace eh!”
15 ott 2017, 16:26
Simona_Manzini
@AsiaArgento #quellavoltache in vaporetto io e un uomo che inizia a toccarsi lo vedo solo io e lo sa. Paralisi. Tornata ogni sera a cercarlo per menarlo
15 ott 2017, 16:09
gattasuletto
#quellavoltache si è avvicinato, ci ha provato, me ne sono andata, ho perso il lavoro. Fine.
15 ott 2017, 15:28
nellina99
#quellavoltache diedi uno schiaffo pazzesco a un regista che mise la sua mano tra le mie gambe #sonosoddisfazioni
15 ott 2017, 15:15
anna_manente
#quellavoltache il mio medico di base mi disse che ero bella come un’attrice, mi abbracciò e iniziò ad ansimare. E mi divincolai a fatica.
15 ott 2017, 15:04
nepvune
#quellavoltache in pullman un uomo osò mettermi le mani addosso e quando lo dissi a mia madre: ”avevi solo da non mettere la canottiera“.
15 ott 2017, 14:34
NadiaNunzi
#quellavoltache mi mise le mani addosso perché volevo lasciarlo e mi disse: «Guarda che cosa mi hai fatto fare!»
15 ott 2017, 13:09
GrazCorsaro
#quellavoltache il prof chiamava solo me dietro il piano. Esercizi cantati e faceva i suoi comodi sotto la mia gonna. Paralisi. A 13 anni.
15 ott 2017, 12:38
Giulia28582032
#quellavoltache il mio capo si è sentito in obbligo di dover fare commenti su come faccio sesso, a suo modestissimo parere
15 ott 2017, 12:13
Arts_Life_Soul
#quellavoltache un ragazzo in divisa mi ha proposto di fargli un servizio definendolo “un’esperienza”. E non si è fermato alle proposte.
15 ott 2017, 11:59

 

giuliamakeuppro
#quellavoltache mi hanno detto che la stagiste stanno in ginocchio sotto le scrivanie…
15 ott 2017, 11:39
frantando
#quellavoltache un dirigente mi ha detto che se fossi stata sua moglie mi avrebbe picchiata
15 ott 2017, 11:24
ljuba_davie
#quellavoltache in ospedale per le botte del fidanzato poliziotto e dei suoi colleghi. Mi risero in faccia quando sporsi denuncia.
15 ott 2017, 11:05
RominaLaurito
#quellavoltache molto giovane, in pieno giorno in un giardino pubblico, lui voleva essere toccato, lui voleva SOLO essere toccato e del resto chi se ne frega e ha insistito, insistito e insistito. Mai dimenticato il senso di disagio. Solo ora capisco che ne ho subito un trauma
15 ott 2017, 10:45

 

paoladelusa
#quellavoltache il Rettore dell’Università mi disse: “vuole restare a lavorare qui? Venga a letto con me. Per quanto sia troppo magra. Noi maschi vogliamo toccare carne”.
14 ott 2017, 19:15

(continua su Left)

I fascistelli a Milano non hanno capito come entrare in consiglio comunale

Siccome quegli sparuti di Casapound sono una pozzanghera che non hanno i numeri nemmeno per diventare amministratori di condominio ieri a Milano hanno pensato bene di inscenare un patetica protesta durante il consiglio comunale di Milano al grido «questa è la casa di tutti i milanesi» dimenticandosi, per scarsa dimestichezza con la matematica, che tra «tutti i milanesi» loro rimangono (per fortuna) una minoranza fin troppo tollerata nonostante la legge ne vieti l’esistenza.

Al di là della protesta contro il sindaco Sala non sono riusciti a trattenersi (gli capita spesso) dall’inscenare il loro torvo saluto romano oltre che qualche coretto da campetto di periferia. «Sono intervenuto andando verso di loro e gli ho ricordato, non proprio sottovoce, che i fascisti qua dentro non possono entrare e non hanno alcun diritto di parola. Non starò mai zitto su questo», ha scritto il consigliere comunale Paolo Limonta.

Non è finita qui. Dopo lo sconcio spettacolino i fascistelli in libertà hanno pensato bene di prendersela con i pacifici manifestanti dell’associazione Nessuna Persona è Illegale (una delegazione di NPI, invitata in comune dal Capo di Gabinetto del Sindaco per illustrare i contenuti del presidio di richiesta della residenza organizzato per oggi) mandando al Pronto soccorso una persona di sessant’anni.

Sorge però una domanda: ma perché la Questura di Milano (così prodiga e attenta per il decoro della Stazione Centrale) non riesce ad arginare quattro teppistelli? Perché, ancora una volta, si sente quel brutto odore dei “forti con i deboli” che non riescono ad essere ugualmente “forti” con i prepotenti?

A voi la risposta.

Buon venerdì.

(continua su Left)

«Vado a fare il terrorista»

Il 15 marzo dell’anno scorso all’aeroporto di Bologna alcuni poliziotti notano un giovanotto agitato in coda al check-in del volo per la Turchia. Un biglietto di sola andata e uno zainetto erano  un’accoppiata piuttosto insolita per passare inosservata e così, quando gli uomini delle forze dell’ordine, gli hanno chiesto il motivo del suo viaggio quel passeggero rispose candidamente “vado a fare il terrorista”.

La madre, convocata in Questura, raccontò di essere molto preoccupata per quel figlio che “non sembrava più lui”: “non lo riconosco più – disse -, mi spaventa. Traffica tutto il giorno davanti al computer, vede cose stranissime”. Aggiunse che il ragazzo ormai viveva stabilmente a Londra dopo avere trovato lavoro in un ristorante pachistano e che da quando aveva cominciato a frequentare quell’ambiente i suoi atteggiamenti erano diventati molto preoccupanti.

Da un primo sommario esame del suo telefonino gli investigatori scoprirono video che inneggiavano l’Isis e la sua propaganda. Non fu possibile eseguire una ricerca più approfondita sui suoi dispositivi elettronici poiché il Tribunale del Riesame ordinò la restituzione del materiale informatico al sospettato accogliendo un suo ricorso.

Quel giovane era Yousef Zaghba, il terzo attentatore del London Bridge. Questa storiella, che oggi conosciamo e di cui possiamo scrivere, era stata inviata a suo tempo alla polizia inglese. Com’è andata a finire è cronaca di queste ore.

Buon mercoledì.

 

(continua su Left)

Colloquio per Ryanair: racconto semiserio di una giornata di ordinaria precarietà

(Sandro Gianni racconta la sua esperienza per Clap, qui)

A giudicare dagli annunci nei portali per la ricerca di lavoro, sembra che sul mercato esistano solo tre tipi di occupazioni disponibili: sistemista Java, dialogatore e operatore call-center. Se non conosci Java e hai zero voglia di vendere il tuo tempo per delle chiacchiere con degli sconosciuti, al telefono o dal vivo, la ricerca pare senza possibili sbocchi. Aggiungi che la percentuale di risposta ai curriculum inviati rasenta lo zero e che la laurea e/o i master di cui sei in possesso non sono particolarmente quotati nella borsa degli skills… il quadro si complica parecchio.

Perciò, quando qualcuno ha finalmente risposto alla mia “iscrizione a un’offerta di lavoro” ho provato una strana sensazione, di affetto quasi. Ho pensato di dover ricambiare, presentandomi al colloquio. Ho detto “qualcuno”, ma in realtà avrei dovuto dire “qualcosa”: un algoritmo, un dispositivo automatico di risposta alle mail, un bot del portale. Non posso saperlo, ma l’invito a comparire in un hotel nella zona di Tor Vergata è arrivato pochi millesimi di secondo dopo l’invio della mia iscrizione. Ciò esclude la mediazione umana e, dunque, una seppur minima selezione del curriculum, che avrebbe potuto equivalere a qualche decimale in più nella stima probabilistica di un’assunzione .

Il lavoro non era proprio quello dei miei sogni, ma provavo a vederci delle sfumature positive: la possibilità di viaggiare, avere un contratto decente, ricevere uno stipendio non troppo basso. Ovviamente, mi sbagliavo.

Nell’atrio dell’hotel di lusso, nella periferia sud-est di Roma, una quarantina di ragazzi e ragazze tirati a lucido, con la barba fatta, il vestito e la cravatta siedono in silenzio. Tra loro, io. Alcuni si muovono sicuri nei completi eleganti, camminano come se nulla fosse, bevono il caffé senza bisogno di sistemarsi di continuo la giacca, muovono le mani sullo smartphone senza domandarsi perché la camicia faccia capolino solo da una delle due maniche. Altri sono impacciati, si toccano insistentemente la cravatta temendo che il nodo si sciolga, cercano delle tasche in cui infilare le mani senza trovarle, provano a controllare la continua fuoriuscita della camicia dalla giacca senza alcun successo. Evidentemente, non sono abituati a conciarsi così. Tra loro, sempre io. C’è anche un ragazzo che deve aver letto male le istruzioni per l’uso: si è presentato in jeans e camicia a quadrettoni, rossi e blu. È imbarazzato, ma resta. Sembra simpatico.

In sala nessuno fiata. Quasi che taller e vestiti abbiano trasmesso per metonimìa un certo dovere di contegno, di formalità. «Dicono che l’abito non fa il monaco, ma non è vero» – argomenta il Totò ladro vestito da carabiniere, nei Due marescialli – «Io a furia di indossare indegnamente questa divisa, marescia’… mi sento un po’ carabiniere».

Ci chiamano e andiamo tutti insieme nel seminterrato dell’albergo, in una sala conferenze. Eliminata la prima decina di candidati con un test di inglese da seconda media, la selezione entra nel vivo. O meglio, nel video. Proiettano una presentazione del lavoro, divisa per sezioni: informazioni tecniche sulle diverse mansioni; procedure di inizio; questioni retributive e contrattuali; possibilità di carriera; criteri di premialità; caratteristiche dell’azienda che offre il lavoro e dell’agenzia di recruitment che assume (due cose diverse: una è Ryan; l’altra una fusione tra Crewlink e Workforce International… sì, si chiama proprio così!). In questa seconda fase, si rivolgono a noi come fossimo già assunti. L’uomo sulla cinquantina, inglese o irlandese, responsabile del reclutamento, allude più volte a quanto staremmo bene con indosso le nuove divise da hostess e steward.

Dalle immagini del video e dagli interventi del selezionatore si capisce che ci sono soprattutto tre caratteristiche importanti per fare questo lavoro: essere disponibili alla relocation immediata; parlare inglese; essere flessibili-e-sorridenti (insieme). Le immagini mostrano giovani di tutti i colori, che sembrano felici e raccontano la loro esperienza con Ryan di fronte a un bastone per i selfie. In particolare, insistono su quanto sia utile e divertente il corso di formazione per diventare personale di bordo. Si nuota, si spengono incendi, si salvano bambolotti, si incontrano persone. «You grow up like a man, not just cabin crew».

Ma è più avanti che le orecchie dei candidati si aguzzano: quando si inizia a entrare nel dettaglio del salario e dei tempi di lavoro. La retribuzione è organizzata secondo una serie di premi e possibili punizioni, un incrocio tra un videogioco e una raccolta punti del supermercato. «Your performance is continually monitored and assessed». Monitorare e valutare. Punire solo come ultima ratio. Soprattutto premiare: per far rispettare le regole, per aumentare la produttività, per migliorare le prestazioni. I like dei clienti danno diritto a delle ricompense: monetarie, ma soprattutto relazionali. Ad esempio, la penna nel taschino è indice di un certo numero di apprezzamenti. Costituisce dunque, tra i colleghi e nell’azienda, l’indicatore di uno status particolare.

Si viene pagati un po’ in base all’orario e un po’ a cottimo. Nel senso: un fisso non esiste; sono retribuite solo le ore di volo; si percepisce il 10% su ogni prodotto venduto (…adesso lo capite il perchè di tanto rumore?). Il contratto è registrato in Irlanda o UK. Si hanno delle agevolazioni sui viaggi in aereo.

Il salario mensile dovrebbe oscillare tra 900 e 1.400 euro lordi, in base al luogo di ricollocamento. «We try to keep the wages homogeneous among our workers». Bella l’uguaglianza, quando non schiaccia tutti verso il basso… penso io. Viene poi fatto cenno a un periodo annuale in cui non si lavora e non si ricevono soldi: da uno a tre mesi. Ma il selezionatore ci assicura che questa pausa non supera (quasi) mai i 30 giorni.

Fino a qui, niente di eccezionale. Ma il rapporto premi-punizioni è più complesso e configura per intero il sistema di retribuzione. Ovviamente, se i diritti diventano premi e i doveri debiti, tutto cambia. Non si parla di tredicesima e/o quattordcesima, ma di bonus, che si ricevono solo il primo anno. 300 euro il primo mese di lavoro, altrettanti il secondo, il doppio il sesto. Chi va via prima della conclusione dei primi 12 mesi, però, deve restituire questi bonus. Inoltre, la divisa (quella bella di cui sopra) costituisce un costo esternalizzato al lavoratore: il primo anno sono 30 euro al mese scalati direttamente dalla busta paga; successivamente pare si ricevano dei soldi, ma non si capisce bene per cosa, se per lavarla o non perderla. Per ultimo, il famoso corso di formazione per diventare hostess o steward si rivela qualcosa di più di un parco giochi in cui fare festini con altri esponenti multikulti della generazione Erasmus. Principalmente, si rivela un’enorme spesa. Se all’inizio era stato comunicato che, in via eccezionale, le registration fees del corso erano dimezzate a 250 euro, è alla fine che viene fuori il vero prezzo da pagare. Ci sono due modalità differenti: 2.649 euro se paghi prima dell’inizio e tutto in un colpo; 3.249 se decidi di farti scalare il costo dallo stipendio del primo anno (299 euro dal secondo al decimo mese, 250 gli ultimi due).

Si aprono le domande. Dopo alcune irrilevanti su sciocchezze burocratiche, alzo la mano. «Ci avete parlato di un massimo di ore di volo a settimana, ma mai delle ore totali di lavoro. Quante sono?», chiedo. «Voi siete pagati in base alle block hours, cioé le ore calcolate dalla chiusura delle porte prima del decollo, all’apertura dopo l’atterraggio. I tempi di preparazione dell’aereo, prima e dopo il volo, possono variare». Varieranno pure, ma di sicuro non vengono pagati, nonostante siano tempi di lavoro.

Alza la mano quello dietro di me. «Scusi la domanda, ma ho bisogno di fare dei conti. Diciamo che uno stipendio per una destinazione non troppo cara è di 1.000 euro. Ve ne devo restituire 330 al mese tra corso e divisa. Ne rimangono 670. Dovrò prendere una stanza in affitto, diciamo 300 euro. Ne rimangono 370. In più avrò bisogno di pagare un abbonamento ai mezzi per raggiungere l’aeroporto e coprire almeno le spese della casa anche nella pausa annuale in cui non si lavora. Diciamo che, se va bene, rimangono 300 euro. E non ho scalato le tasse, perché non so come si calcolano in Irlando o UK. Secondo lei, con questi soldi si può vivere?». Sbem.

Il selezionatore della società di recruitment, fino a quel momento cordiale e spiritoso, accusa il colpo. Deglutisce. Tossisce. Arrosisce. Si butta sulla fascia, prova un diversivo. «With this work you don’t get rich, but it’s in accordance with your capacity and affords your lifestyle». Alla fine, anche qui le nostre capacità valgono poco più di un pacchetto di sigarette al giorno. Chissà, invece, come ha calcolato il nostro stile di vita!

Finito il video, io e gli altri candidati usciamo e andiamo a mangiare insieme. Da come siamo vestiti, sembriamo un gruppo di giovani businessmen in carriera, lanciati alla conquista del mercato e pronti a scalare colossi finanziari. Invece siamo lì per un colloquio che, se va bene, ci farà guadagnare meno della persona che ci serve la pizza.

Comunque, i calcoli veloci del ragazzo che ha fatto la domanda dopo di me hanno sciolto l’iniziale freddezza tra i candidati. In molti hanno perso interesse per questo lavoro. Anche per questo, si scherza e si chiacchiera. Alcuni hanno appena finito la scuola superiore, altri l’università. Altri ancora hanno già diversi anni di precarietà e i capelli brizzolati. Tra loro…

Rimango fino all’intervista, per sport. Mi capita la collaboratrice del selezionatore. Legge il mio curriculum. Niente di eccezionale, però insomma… neanche da buttare. Tutti i titoli di studio con il massimo dei voti, laurea e due master, cinque lingue, numerose esperienze di lavoro materiale e immateriale, in Italia e all’estero. «Are you sure you want to do this work?», mi chiede. Bleffo: «Eeeeeh. Why not?». «Do you know people working for us?». «No». «So, what do you know about this work?». «What you told me today», rispondo. Lei arriccia il labbro inferiore e muove la testa dal basso verso l’alto e poi in senso inverso, fissandomi con gli occhi corrucciati. Ho l’impressione che stia pensando sardonicamente “devi essere proprio una volpe, tu!”.

Saluto, me ne vado. Sulla vespa faccio i conti: due caffé al bar dell’albergo = 3 euro; un pezzo di pizza e una bottiglia d’acqua = 4 e 50; giri vari alla ricerca di vestito, cravatta e scarpe e poi fino al colloquio = almeno 5 euro; stirare la camicia = 2 euro; stampare 7 fogli di curriculum dal cristiano-copto su via di Torpignattara, che sembra sapere quando non puoi dirgli di no = 2,10 euro. Barba e capelli costo zero, taglio autoprodotto in casa. Alla fine, non mi è andata nemmeno tanto male. Qualcuno è arrivato in treno da lontano, spendendo molto di più. Per l’ennesima offerta di lavoro precario e sottopagato.

Almeno una cosa l’ho capita: nella compagnia aerea, quel low che precede il cost non è riferito soltanto ai prezzi dei biglietti, ma anche al costo del lavoro.

Banalizzare, criminalizzare, purché non se ne parli: il metodo No Tav applicato ai No Tap

Accade così: si alza la polvere facendo in modo di convincerci che la polvere sia il lascito dei violenti, si formano le squadriglie di picchiatori politici contro “quelli che dicono no a tutto”, si scialacqua solidarietà un po’ a caso in favore delle forze dell’ordine anche quando non ci sono disordini e si sventola il feticcio del progresso inevitabile (o del thatcheriano “non c’è alternativa”) per chiudere il discorso.

Ma il discorso, quello vero, quello che parte delle analisi e che per svilupparsi dovrebbe comprendere anche la possibilità che i decisori diano risposte convincenti, quel discorso in realtà non avviene mai. Ora ci manca solo che si faccia male qualcuno e poi anche i “No Tap” sono cotti a puntino per diventare la forma contemporanea dei “No Tav” in salsa pugliese. Le mosse piano piano si stanno incastrando tutte e anche l’ultimo tweet del senatore del PD Stefano Esposito (“Ogni giorno che passa i #NOTAP assomigliano drammaticamente ai #notav un grazie alle nostre #FFOO”) certifica che il processo si avvia a dare i suoi frutti.

Negli ultimi due giorni risuona soprattutto la barzelletta degli ulivi: “i no Tap? ambientalisti preoccupati per qualche manciata di alberi che verranno prontamente rimessi al loro posto” dicono più o meno i banalizzatori di partito. E fa niente se le ragioni della preoccupazione siano tutte scritte in un parere del 2014 di ben 37 pagine dell’Arpa protocollato dalla Regione Puglia (lo trovate qui); non importa che l’Espresso abbia raccontato come (ma va?) gli interessi particolari delle mafie abbiano messo qualcosa in più degli occhi sul progetto (è tutto qui) e non importa nemmeno che le motivazioni della protesta non siano contro il progetto in toto ma sulla località di approdo che era la peggiore delle soluzioni possibili: l’importante è che la protesta No Tap possa essere messa velocemente nel cassetto dei signornò e si divida subito tra le solite fazioni.

A questo aggiungeteci l’italica inclinazione alla servitù (come nel caso della viceministra Bellanova, PD, che si diceva contraria da candidata e ora seduta sulla poltrona da viceministro se la prende con Michele Emiliano perché si occupa più della sua regione piuttosto che della fedeltà agli ordini del capo) e vi accorgerete che di tutto si parla tranne che dell’analisi del dissenso.

 

(continua su Left)

Buongiorni e eroi (del giorno)

Gli appuntamenti quotidiani per la mia combriccola di lettori diventano due. Oltre al buongiorno per Left (che è qui e viene sfornato tutte le mattine dal lunedì al venerdì) ci si trova anche nel tardo pomeriggio con ‘L’eroe del giorno‘ su Fanpage (più o meno qui).

Oggi si parla di FC Dolo 1909 e la dignità di un presidente.

Per il resto ci si ritrova qui. Giusto il tempo di scrollarsi di dosso le solite minacce e le litanie troppo sapienti che questa volta non permetteremo nemmeno che si accendano.

Buona lettura.

«Pensioni basse? Ipotecate la casa» parola della deputata Morani (PD)

Ne scrive l’HP qui:

«Esiste uno strumento che conosciamo poco, che è fatto apposta per gli anziani proprietari di casa che percepiscono pensioni basse, che si chiama prestito vitalizio ipotecario”. Scatena l’ìinferno l’affermazione di Alessia Morani, vicecapogruppo del Pd alla Camera, che durante una puntata di Quinta Colonna, avrebbe trovato la soluzione per gli anziani che percepiscono pensioni basse e non riescono a sopravvivere.»

Dopo aver escogitato un prepensionamento finanziato con un mutuo (sostanzialmente un welfare a piccole comode rate) ora gli esponenti della maggioranza propongono agli anziani prossimi alla pensione di utilizzare la propria casa (solitamente frutto della fatica di una vita) come garanzia d’accesso alla pensione. Lo Stato Sociale di questo Paese è diventato lo zerbino di quattro arroganti al governo.

Dicono che sia morta la sinistra, dicono; sicuramente ha perso.

 

Le lacrime di Carl Gustav Jung

Perché, nella modesta casa canonica a Kleinhüningen, dove suo marito è pastore, Emilie Preiswerk, sposata Jung, volga improvvisamente lo sguardo altrove dai suoi ricami e scoppi a piangere a dirotto, in un qualsiasi martedì pomeriggio del 1880, non è chiaro; anzi, al suo bimbo di cinque anni, Carl Gustav – che è l’unico in tutto il cosmo ad accorgersi dello zampillo assurdo di quelle lacrime – si scatena un terrore dentro al cuore quando la vede. Il bambino guarda la madre intensamente, senza dire niente, indagando con i piccoli occhi chiari la stanza, per capire cosa sia successo, chi le abbia fatto così male. Ma non c’è nulla: nessuno. Non ha radice, quel dolore. C’è solo un vasto silenzio nell’aria, che detona in un’eco di ansie mute. Quando Emilie riconosce la paura negli occhi del figlio, si asciuga le lacrime con il grande fazzoletto rosa che tiene sempre in tasca e gli sorride, come a dirgli: “non è niente, mamma sta bene”. Anche Carl Gustav sorride, d’istinto, di rimando, ma il terrore provato gli resta dentro. Quel terrore che non capiva il soffrire della creatura che più amava. Torna ai suoi giochi solitari con un’angoscia nuova.

Anche se è un medico, un filosofo, impegnato a Burghozli in uno dei maggiori centri di cura psichiatrica svizzera, lo sguardo di Carl Gustav Jung, alla fine dell’estate del 1904, non è molto diverso quando una diciannovenne strillante, di nome Sabine Spielrein, varca le porte del sanatorio. Geme, ride, urla come se fosse penetrata da lame, si lamenta e dice cose apparentemente senza senso. Il dottor Jung la prende in cura.

Seduta nella stanza bianca, contorta da ondate di tic che le sfigurano il volto, il dottore la percepisce piena di un’energia che non comprende appieno. È come se le sue strilla provenissero da una camera di tortura chiusa dentro la sua mente, di cui si è perduta la chiave. Ora lui vuole ritrovare quella chiave.

Poche settimane prima, nel suo taccuino, Jung aveva scritto di un immaginario caso clinico denominato “Sabine S.”. Ed ora, eccola lì: Sabine Spielrein. Sembrerebbe una incredibile coincidenza. Ma il giovane dottore non crede nelle coincidenze. Crede che le cose accadano dispiegandosi dalla nostra anima, come segni di un libro che dobbiamo imparare a decifrare. Crede che tutto accada con significato. Se ora quella donna è lì, è perché il destino gli sta parlando: Carl Gustav Jung ne è certo. Lo dice anche a sua moglie Emma; e le confida che, stavolta, vuole abbandonare le cure inefficaci della psichiatria contemporanea, per sperimentare un nuovo metodo, creato da un suo collega viennese, un tipo che lui non ha mai visto, che alcuni considerano un genio, altri un ciarlatano. Un tipo di nome Sigmund Freud. Quello che Jung non racconta a sua moglie è il fremito alle gambe che sente quando Sabine lo guarda, nei suoi rari sprazzi di lucidità non assediata da incubi. La trova bellissima come una tempesta. In lei, intravede pianeti perduti della propria interiorità. Come se Sabine fosse venuta a lui, per indicargli chi potrebbe ancora essere. Come se lei, mentre lui la cura, lo stesse curando.

I risultati medici sono straordinari: nel 1911, Sabine Spielrein somiglia alla ginnasiale promettente che era stata. Sembra uscita dall’inferno in cui era piombata durante le sue crisi, sembra avere un’armatura nuova. Si laurea brillantemente in medicina, vuole diventare psicanalista. Jung l’ha curata. L’ha curata con il metodo di Freud.

(Un gran pezzo di Cesare Catà. Continua qui)

Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre.

 

ognuno

Io lotterò fino allo stremo questa moda arrogante e intellettualmente sciatta di credere che gli anaffettivi siano i forti, i più affidabili per i ruoli dirigenziali e i meglio preparati per affrontate questo tempo. Preferisco piuttosto rischiare di essere goffo, patetico, melenso oppure ridicolo ma racconterò in ogni mio spettacolo, in ogni mio libro e in ogni incontro nelle scuole quanto sia troppo facile imparare a diventare insensibili.

Scorgere le battaglie più dimesse: vorrei riuscire a diventare un esploratore capace di starmi giorni interi in apnea nel cuore. Ogni tanto mi viene voglia di buttarmi in un esercizio così.