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Quelli chiusi e quelli aperti

L’Economist propone in copertina un editoriale che propone una chiave di lettura sullo scenario politico internazionale. Chiuso contro aperto: secondo il giornale londinese le due macrocategorie della politica oggi si possono dividere tra chi vuole (ancora) muri e chi invece immagina un continuo processo di allargamento. Negli USA le due fazioni sarebbero rappresentate da Trump e Clinton mentre, scrive l’Economist, in Europa

«I politici in ascesa sono quelli che sostengono che il mondo è un posto cattivo e minaccioso e che le nazioni più sagge dovrebbero costruire muri per tenerlo fuori […] Partiti europei populisti e autoritari, sia di destra che di sinistra, oggi godono del doppio dei consensi su cui potevano contare all’inizio degli anni Duemila».

Chiusi-aperti

A parte il manicheismo della categorizzazione c’è però un aspetto che vale la pena sottolineare: nell’editoriale si dice che per sconfiggere i “costruttori di muri” (che sarebbe forse meglio definire più “evocatori di muri”) serve «una retorica più energica, politiche più coraggiose e tattiche più astute» che è in fondo quello che da un po’ di tempo cerco di scrivere: esiste una timidezza a sinistra che non può non essere scambiata per un goffo tentativo di autopreservazione e poco più. Se davvero Sanders negli USA è riusciti ad apparire rivoluzionario e nuovo riproponendo gli stessi temi che poco fa erano considerati stantii forse significa che i temi, i “nostri” temi, sono straordinariamente moderni. Questa è l’occasione da non perdere. Questa.

L’Europa (e l’europeo) in quell’abbraccio


C’è un video che circola in queste ore un po’ dappertutto: un bambino, evidentemente tifoso del Portogallo di cui indossa la maglietta, consola un tifoso francese adulto dopo il triplice fischio della finale dell’Europeo. L’adulto all’inizio sembra quasi sorpreso da quel piccolo consolatore che ha l’ardire di interrompere la delusione. Già, sono soprattutto i bambini ad avere il coraggio di ribadire che la tristezza sarebbe un momento da non consumare mai da soli.

Lo spilungone francese accenna un ringraziamento. Il piccolo tifoso osa ancora: non è convinto di avere fatto abbastanza, il francese ciondola come se quella consolazione sia solo una cortesia da buona educazione, in punta di piedi lo insegue per qualche metro e gli dice qualcosa. A quel punto, qualsiasi sia stata la frase ascoltata il tifoso francese si scioglie in un abbraccio. Il piccolo portoghese risponde stringendo. Un adulto e un bambino con quella forma tutta sbilenca di due altezze così diverse che vogliono rimanere attaccate.

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«È la rivolta del popolo contro le élite»

Un pezzo di Luigi Vicinanza, direttore de L’Espresso:

Ci stiamo avventurando in terre incognite. Elezione dopo elezione. Lo choc provocato dal referendum britannico legittima con il voto popolare quella che possiamo definire la caduta dell’egemonia culturale delle classi dirigenti europee, così come si sono affermate dalla Seconda guerra mondiale in poi. “La fine delle élite”, è la sintesi contenuta nel titolo di copertina di questa settimana.

L’Europa si dissolve nelle urne. Con il voto democratico, cioè con lo strumento più popolare e al tempo stesso sofisticato che tre secoli di cultura politica ci hanno tramandato. Paradosso della Storia: lì dove un faticoso e travagliato percorso ebbe inizio, con le rivoluzioni borghesi inglese e francese del XVII e XVIII secolo, proprio lì sembra interrompersi il patto costituente tra rappresentanza politica e rappresentati.

«È la rivolta del popolo contro le élite», così Marine Le Pen raccontò l’insperata massa di voti raccolti nel primo turno delle regionali francesi lo scorso dicembre. È diventato il manifesto del populismo montante. Che ha travolto lo stesso David Cameron: aveva barattato il referendum sull’Europa in cambio di voti per assicurarsi la rielezione appena un anno fa. Apprendista stregone, sarà ricordato come il premier britannico più inadeguato e irresponsabile degli ultimi 70 anni.

Le generazioni del Dopoguerra hanno sempre concepito la democrazia e la pace come beni conquistati per sempre sulle macerie del nazifascismo. Un’epoca durata a lungo, durante la quale le sorti magnifiche e progressive del Vecchio Continente hanno assicurato sviluppo, crescita sociale, welfare e cooperazione a chi aveva avuto la fortuna di vivere dalla parte giusta del Muro di Berlino. Le istituzioni sovranazionali e la moneta comune avrebbero dovuto metterci al riparo dai drammi del passato. Un sogno utopico solo in parte realizzato. Progressivamente scalzato, nella percezione delle grandi masse, da una teocrazia esoterica e intoccabile, dispensatrice di dogmi incomprensibili: «Ce lo chiede l’Europa…» è diventata, non solo in Italia, l’ambigua formula che a tutto obbliga e nulla spiega. Ma di fronte alla guerra asimmetrica condotta dal terrorismo islamico – ultimo attacco a Istanbul – le istituzioni comunitarie latitano.

[…]

«Il progresso si associa al timore di restare indietro, di perdere la posizione sociale e il benessere guadagnati con fatica» dice Bauman parlando della «forza degli incubi della decadenza di cui è foriero l’avvenire minaccioso». La Grande Crisi, scoppiata nel 2008 e dalla quale non siamo mai usciti, è stata il detonatore di questa incertezza di massa. Tuttavia secondo recenti dati dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), tra il 1975 e il 2012 il 47 per cento circa della crescita totale dei redditi «è andato a beneficio dell’1 per cento dei più ricchi». Insomma le ingiustizie sociali e le diseguaglianze hanno radici profonde che riemergono prepotentemente alimentando le recenti scelte politiche dell’elettorato europeo.

Ma non sono più le tradizionali forze di sinistra a farsi artefici del cambiamento. È il populismo ad alimentarsi del malessere provocato da vaste aree di ineguaglianza. L’interpretazione manichea trova così la sua sintesi: da un lato il popolo vessato, dall’altro le élite privilegiate. E dentro i confini delle élite ritroviamo non solo la City londinese, le banche, i governi e i partiti, il mondo dell’informazione e chi più ne ha, più ne metta. Persino le società di sondaggi patiscono la disistima di massa come dimostrano i penosi flop degli exit poll nel Regno Unito e in Spagna.

Appena un anno fa, più o meno in questi stessi giorni, Angela Merkel e il suo ministro Wolfgang Schaeuble spezzarono le reni alla Grecia dell’incauto Alexis Tsipras. L’euro è salvo (forse), l’Europa no, fu il commento su questo giornale. Nei manuali di economia non si studia l’orgoglio di una nazione. Presi per fame i greci, costretti a umilianti file davanti ai bancomat, la crisi si è riproposta moltiplicata al cubo nella potente Inghilterra. Senza che le classi dirigenti avvertissero il rischio. Così, se è vero che il mercato globale e la finanza internazionale non si candidano mai alle elezioni, abbiamo imparato in modo traumatico che gli elettori se possono votano contro di loro, divinità inique di una società ingiusta.

Siete come vi vogliono i padroni

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«Siete proprio come vi vogliono i padroni: servi, chiusi e sottomessi. Se il padrone conosce 1000 parole e tu ne conosci solo 100 sei destinato ad essere sempre servo»: la frase, populista e rivoluzionaria, è di Don Lorenzo Milani, un prete che oggi sarebbe subito bannato nella pagina Facebook della ministra Boschi o di Lorenzo Guerini, due nomi a caso tra la folta schiera della mansuetudine che si simula cattolica nei politici nostrani.

Ieri Hollande, Merkel e Renzi si sono incontrati per un summit che avrebbe dovuto essere il primo passo per la grande soluzione europea. Wow, uno pensa, che esplosiva riunione di intelligenze internazionali. La Merkel, teutonica e stentorea, ha dichiarato che «serve ancora una richiesta ufficiale». In pratica, anche se potrebbe sembrare una barzelletta, i tre si sono pomposamente riuniti per convenire che manca l’oggetto della discussione: si legge dappertutto che il Regno Unito sia uscito dall’Europa ma a Bruxelles, non è nemmeno arrivato uno straccio di mail. Disdetta.

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A proposito di trivelle: ecco come si fa in Europa

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Un articolo Luisiana Gaita da stampare, portare in ufficio e distribuire a tutti quelli che vi dicono «è così dappertutto»:

«“La legislazione che ha l’Italia sulle trivellazioni è tra le più rigorose in Europa”. Questo ha ripetuto negli ultimi mesi il governo Renzi e questo ha detto anche il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti. È vero? Oppure, come dicono i promotori del referendum che si svolgerà il 17 aprile, l’Italia non è affatto severa con le compagnie, dal sistema delle royalties fino ai controlli? Le tasse e le norme statali nel settore degli idrocarburi sono il termometro per capire se uno Stato è favorevole o meno ai petrolieri e in Europa i vari Paesi adottano politiche molto differenti. C’è il caso della Norvegia, dove la tassazione è sì molto alta, ma lo è anche la produzione. Nonché il livello di controlli nei confronti delle compagnie. Esistono regole molto severe sull’estrazione di idrocarburi con l’obiettivo di preservare gli ecosistemi marini. Anche la Gran Bretagna è piuttosto favorevole allo sfruttamento degli idrocarburi, anche se con differenze molto nette caso per caso.

In Europa gli Stati si comportano in modo molto eterogeneo, come dimostra quanto avvenuto in Francia dove il ministro dell’Ecologia Ségolène Royal ha chiesto nei giorni scorsi lo stop a tutte le trivellazioni nel mar Mediterraneo, seguendo l’esempio della Croazia. Emblematico anche quanto accaduto alle Canarie dove un anno fa è finita l’avventura del gruppo petrolifero Repsol che, dopo sette settimane di lavoro di prospezione, ha annunciato che non avrebbe chiesto nuovi permessi per estrarre idrocarburi. Una decisione presa dalla società e non certo dal governo spagnolo che, nel rilasciare quei titoli, era andato anche contro le comunità e i governi locali.

LE PIATTAFORME NEI MARI EUROPEI: CHI TRIVELLA DI PIÙ – Sul numero di piattaforme che si trovano nelle acque dell’Unione europea gli ultimi dati disponibili sono quelli forniti dalla Commissione europea quando, nel 2011, ha stabilito nuove norme di sicurezza per le attività offshore, poi confluite nella Direttiva 2013/30/UE. Oltre mille gli impianti operativi per l’estrazione di petrolio o gas nelle acque europee, tenendo conto anche di quelli di Islanda, Liechtenstein (nell’Oceano Atlantico) e Norvegia. Non comprendono questi ultimi tre Stati, invece, i dati del 2010 (sempre della Commissione) relativi agli impianti nei singoli Paesi: la maggior parte, 486, nel Regno Unito, 81 in Olanda, 135 in Italia (ad oggi il numero è immutato) e 61 in Danimarca. Meno di 10 impianti, invece, in Germania, Irlanda, Spagna, Grecia, Romania, Bulgaria, Polonia.

LE REGOLE NEGLI ALTRI PAESI – Ma al di là dei numeri, come funziona del resto d’Europa? Come si comportano i governi degli altri Paesi con le compagnie petrolifere? In Francia le domande per ottenere un permesso di ricerca vanno inoltrate al ministero dell’Ecologia, dell’Energia e dello Sviluppo sostenibile che, una volta consultate le autorità locali interessate, valutano il progetto. Se il ministero non ha obiezioni di tipo tecnico o ambientale, il permesso di esplorazione viene concesso attraverso un decreto ministeriale. Tale permesso ha validità 5 anni, rinnovabile due volte. E se la compagnia trova petrolio o gas, per iniziare la coltivazione la società titolare del permesso di ricerca deve attendere il consenso ministeriale. Se accordata, la concessione di coltivazione ha una durata che varia normalmente tra i 25 e i 50 anni. Nel Regno Unito, il Petroleum Act del 1998 riconosce alla Corona britannica la proprietà delle risorse di idrocarburi presenti sul territorio e, quindi, il diritto esclusivo di esplorazione e produzione. Le attività vengono svolte attraverso un sistema di licenze. I permessi per le attività onshore sono assegnati su richiesta dei partecipanti, mentre per le attività offshore sono indette periodicamente delle aste di assegnazione.

IL CASO DELLA NORVEGIA – La Norvegia è uno dei Paesi con la maggior produzione di gas e petrolio (pari a oltre 20 volte quella dell’Italia) e impone regole molto severe sull’estrazione di idrocarburi. Non si possono effettuare sondaggi entro i 50 chilometri dalla riva. Solo a marzo Eni ha avviato la produzione del giacimento di Goliat, il primo impianto a olio a entrare in produzione nell’Artico, in una zona priva di ghiacci nel mare di Barents. Goliat doveva essere pronto nel 2013, ma l’ente norvegese che controlla le operazioni petrolifere, il Petroleum Safety Authority (Psa) dopo le ispezioni non ha mai dato l’ok, nonostante il mercato e le pressioni per un progetto di certo ambizioso. L’ultimo ‘no’ è arrivato a fine dicembre. Lo Stato norvegesemantiene il diritto di proprietà sui minerali del sottosuolo. Le attività di esplorazione e sfruttamento di tali risorse quindi, sono gestite con un sistema di assegnazione di licenze mediante cicli di asta.

LE TASSAZIONI PIÙ FAVOREVOLI AI PETROLIERI – Per comprendere se in un Paese venga o meno applicata una tassazione favorevole alle compagnie è necessario comparare i dati. In Italia, per l’offshore, l’aliquota delle royalties è del 7% per le estrazioni di petrolio e del 10% per l’estrazione di gas (è fissa al 10% su terraferma), ma le società non pagano nulla sotto la produzione di 50mila tonnellate per il petrolio e di 80mila metri cubi per il gas. Nel complesso il prelievo fiscale è tra il 50 e il 67,9%. In Germania, invece, l’aliquota delle royalties è del 10%, ma i singoli Länder possono prevederne una diversa. In realtà in molti Paesi le royalties sono state abolite e sostituite da sistemi diversi di tassazione. Secondo i dati diffusi da Nomisma Energia la Norvegia arriva a prelievi fiscali del 78% ed è tra i Paesi con la tassazione più alta, pur prevedendo una serie di benefici alle imprese. Di fatto il regime fiscale attira un alto livello di investimenti e di produzione di idrocarburi. Sono state abolite le royalties, mentre oggi esiste una tassazione specifica su attività petrolifere (pari al 50%) e una generica sui profitti delle società (pari al 28%). Nel Regno Unito il prelievo fiscale oscilla tra il 68 e l’82% perché i canoni variano in base al bando, senza royalties, abolite nel 2002. In Danimarca, invece, la tassazione può arrivare al 77%. La Francia utilizza un sistema di prelievo fiscale sulle attività petrolifere che prevede un mix di royalties, imposte sulla produzione e imposte sul reddito della società. Il Paese ha una bassa produzione e un altrettanto basso prelievo fiscale, in media tra il 37 ed il 50%.

LA FRANCIA SEGUE L’ESEMPIO DELLA CROAZIA – Nei giorni scorsi il ministro francese dell’Ecologia Ségolène Royal ha dato il via libera a una moratoria con effetto immediato sui permessi di ricerca di idrocarburi “viste le conseguenze drammatiche che possono colpire l’insieme del Mediterraneo in caso di incidente”. La moratoria riguarda sia le acque territoriali della Francia sia la zona economica esclusiva (la piattaforma continentale). L’intenzione, dunque, è quella di chiedere l’estensione del provvedimento “nel quadro della convenzione di Barcellona sulla protezione dell’ambiente marino e del litorale mediterraneo”. Una decisione che, nelle intenzioni del ministro, dovrebbe dare una forte spinta allo sviluppo dell’efficienza energetica e delle rinnovabili. La notizia in Italia è arrivata nel momento più delicato possibile, a una settimana dal referendum, ma non è una vera novità, dato che Royal aveva già annunciato a gennaio che la Francia avrebbe rifiutato ogni nuova richiesta di permesso di ricerca di idrocarburi. E proprio a gennaio, in Croazia, il nuovo premier Tihomir Oreskovic era stato altrettanto chiaro: “Presenterò al Parlamento una proposta di moratoria contro il piano di Zagabria per lo sfruttamento di gas e petrolio in Adriatico”. L’anno prima la Croazia aveva assegnato dieci licenze per la ricerca di idrocarburi in Adriatico, ma la scorsa estate alcune compagnie petrolifere hanno fatto dietrofront, rinunciando a sette delle concessioni ottenute. A marzo, invece, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha bloccato il piano per le trivellazioni di gas e petrolio al largo della costa sud orientale dell’Atlantico. Sempre Obama a ottobre scorso aveva congelato almeno per i prossimi 18 mesi’ e trivellazioni a largo dell’Alaska.»

Piccolo manuale per la paura

istruzioniperluso

Riflessioni e sguardi d’insieme. Negli attentati di Bruxelles c’è dentro tutta la povertà di un’Europa sempre più ristretta, infeltrita e sciatta. Paghiamo i nervi irrisolti di un’epoca in cui s’è perso il senso politico di una coscienza collettiva. E le reazioni ingrassano i terroristi. Ne ho scritto per Fanpage, qui.