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Tutti a restituire la Legion d’Onore. Bene, ma l’Italia è ben peggio di Macron se non ferma la vendita delle armi all’Egitto

Benissimo, Corrado Augias ha lasciato il segno restituendo la Legion d’Onore alla Francia dopo che l’Eliseo ha conferito il più alto riconoscimento del Paese al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Augias ha spiegato ieri di averlo fatto per rispetto di Giulio Regeni e per sottolineare la mancata collaborazione del governo egiziano alla ricerca della verità sull’omicidio, oltre alle continue violazioni dei diritti umani.

A ruota anche l’ex sindaco di Bologna Sergio Cofferati, l’ex ministra Giovanna Melandri e la giornalista Luciana Castellina hanno preso la stessa decisione per contestare Macron, che tra l’altro, da parte sua, ha tentato vanamente di tenere sotto traccia il conferimento facendo sparire foto e video della cerimonia in onore di al-Sisi.

Ha ragione Luciana Castellina quando scrive che la vicenda “costituisce un dolore per chi come me, e tanti italiani, si sente così legato alla Francia. È una brutta pagina della storia di questo Paese. Un gesto, aggiungo, stupefacente, che nessuno si sarebbe aspettato dalla Repubblica francese”.

Ora però forse sarebbe il caso di allargare lo sguardo e tornare dalle nostre parti, qui dove la procura di Roma ha svolto un enorme lavoro con quattro ufficiali dei servizi segreti egiziani verso il processo ma dove anche la politica non sembra ancora in grado di prendere posizioni forti.

Insomma, il problema non è Macron. “Conte, Di Maio, cosa state facendo per avere la verità?”, ha chiesto qualche giorno fa Paola Deffendi, madre di Giulio Regeni, che su ciò che si potrebbe fare per esercitare le giuste pressioni sul governo egiziano ha tracciato una strada netta: richiamare il nostro ambasciatore al Cairo, dichiarare l’Egitto paese non sicuro e fermare subito l’export di armi e i rapporti commerciali.

“La priorità è stata normalizzare i rapporti con il regime e curare gli interessi economici, militari e turistici”, ha detto in conferenza stampa il padre di Giulio, Claudio Regeni. La famiglia pretende “un sussulto di dignità da parte delle istituzioni, oltre le parole e le buone intenzioni”.

Il ministro Di Maio nell’ottobre 2019 aveva parlato di “conseguenze”, se non avesse ottenuto collaborazione alle indagini da parte dell’Egitto. Di collaborazione non ce n’è stata (lo scrive anche la procura): quali sono le “conseguenze”?

Lo scorso 30 novembre la procura della Repubblica egiziana ha annunciato di avere “temporaneamente” chiuso le indagini. Una fonte del governo egiziano che ha parlato al quotidiano Mada Masr ha detto lo scorso 11 dicembre: “L’Italia farà ciò che vuole, l’Egitto farà ciò che vuole, e intanto i due paesi rimarranno amici”. Forse il problema non è solo Macron, no?

Leggi anche: 1. La verità su Giulio Regeni è un diritto: l’Italia smetta subito di vendere armi all’Egitto (di Alessandro Di Battista) / 2. Armi, gas, diritti umani: il prezzo dell’indulgenza della Francia verso l’Egitto di al-Sisi

L’articolo proviene da TPI.it qui

Fondi Expo Giustizia: ora ci sono le mail che inchiodano il Comune di Milano

Ne scrive Manuela D’Alessandro:

Eccole le decine di mail acquisite dalla Guardia di Finanza a Palazzo Marino che dimostrano le irregolarità nella gestione di almeno 10 milioni di fondi Expo per la giustizia. Sono quelle a  cui fa riferimento l’Anac nel provvedimento notificato venerdì scorso al Comune e al Dgsia, la struttura per gli appalti informatici del Ministero della Giustizia.

Al punto 6 di un lungo e dettagliato elenco di appalti sospetti, si spiega il ruolo avuto dal ‘Gruppo di Lavoro per l’Infrastrutturazione informatica degli Uffici di Milano’, di cui facevano parte rappresenti del Comune, il Minisitero della Giustizia e i vertici degli uffici giudiziari.  L’analisi della corrispondenza elettronica interna a questo Gruppo svela che, con circa tre mesi di anticipo rispetto alla delibera di Giunta sulla prima tranche di finanziamenti (nel settembre 2010), i giochi erano già fatti. Cioé  i partecipanti al tavolo, ciascuno in base alle proprie competenze, avevano già deciso di affidare il ‘tesoro’ di Expo senza gare pubbliche alle società Elsag Datamat e Net Service. A loro vennero garantiti ricchi contratti molto prima di capire di cosa avessero bisogno gli uffici giudiziari. E dopo, solo dopo, si trovarono le motivazioni per affidare questi lavori  alle due società, poi fuse in una sola, e in orbita Finmeccanica.

Su 72 procedimenti analizzati, sono 25 quelli che Anac considera viziati. Dei 16 milioni spesi tra il 2010 e il 2015, sono stati messi a gara solo poco meno di 6 milioni. Il resto sarebbe stato distribuito con affidamenti diretti immotivati, in nome dell’unicità del fornitore, della continuità con gli appalti precedenti e della sicurezza. Una parte della relazione di Anac riguarda anche la segnaletica interna al Palazzo e il simbolo di questa storia, i monitor appesi ovunque e mai entrati in funzione. Oltre che il ruolo della Camera di Commercio, beneficiari di lavori delicati come il restyling del sito del Tribunale, senza apparenti valide ragioni.  L’Anac chiama in causa le amministrazioni guidate da Letizia Moratti e da Giuliano Pisapia, mentre sull’accertamento delle responsabilità dei magistrati dovrebbe intervenire la Procura la cui inchiesta, aperta contro ignoti, per ora non da’ segni evidenti di vita.

(fonte)

Expo. Di cosa è indagato Beppe Sala. Spiegato bene. E le carte della Procura.

Tanto per capire di cosa stiamo parlando. E, come spesso succede, vale la pena riprendere l’articolo di Affari Italiani. Qui c’è il pdf della Procura: l’avviso di conclusione delle indagini.

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Il sindaco di Milano Beppe Sala e’ accusato di falso materiale e ideologico e turbativa d’asta in relazione alla gara dell’infrastruttura piu’ importante di Expo, la Piastra. I dubbi, secondo quanto si apprende, sarebbero sulla fornitura delle piante per l’Esposizione universale 2015, costate alla ditta 1,6 milioni anziché i 4,3 milioni stanziati.

SALA HA “ADERITO A PRESSIONI DI POLITICI DELLA REGIONE LOMBARDIA” – Stando a quanto si legge nell’avviso di chiusura delle indagini, atto che di norma precede la richiesta di processo, Beppe Sala e’ accusato di turbativa d’asta (articolo 353 comma 2) in concorso con l’ex dg di Infrastrutture Lombarde Antonio Rognoni e con l’ex responsabile dell’Ufficio gare della stessa societa’, Pierpaolo Perez, per “avere turbato la gara cosiddetta della Piastra indetta da Expo 2015 spa con bando in data 20/12/2011 con base d’asta 272.100.000″. A Sala e agli indagati per questa vicenda viene anche contestata l'”aggravante di essere per legge preposti alla gara suddetta”.

Beppe Sala, Pierpaolo Perez e Antonio Rognoni avrebbero turbato la gara piu’ importante di Expo, quella sulla Piastra, per avere “aderito anche su pressione di esponenti politici della Regione Lombardia, ente socio di Expo 2015, nella misura del 20% alle richieste dell’associazione Lombarda Florivivaisti effettuate con lettera del 16 novembre 2011 inviata al Presidente della Regione Lombardia e all’a.d. di Expo 2015 finalizzata all’affidamento della fornitura delle essenze arboree da utilizzare nel sito dell’Espozione Universale 2015 a una o piu’ ditte aventi sede in Lombardia”.

La nuova accusa per Sala, quella di turbativa d’asta, si riferisce a una una fornitura di 6mila alberi che sarebbe stata scorporata dall’appalto principale sulla Piastra dei Servizi in cui era inserita originariamente. Il contratto viene affidato nel luglio 2013, senza gara, alla Mantovani per un importo di 4,3 milioni, 716 euro a pianta. Nel novembre successivo la Mantovani stipula un contratto di subfornitura con un’impresa vivaistica per 1,6 milioni, 266 euro a pianta. Sala e’ inoltre accusato di falso ideologico e falso materiale, per aver retrodatato due verbali per la sostituzione di due commissari di gara che avevano il compito di scegliere l’azienda vincitrice. La Mantovani spa si impose nell’agosto 2012 offrendo, con un ribasso del 42 per cento, soltanto 165,1 milioni: una cifra che “non era idonea neppure a coprire i costi”, annotavano gli investigatori della Guardia di Finanza, segnalando anche “numerose anomalie e irregolarita’ amministrative”, sia nella “scelta del contraente”, sia “nella fase esecutiva”.

Secondo questa impostazione dell’accusa, le pressioni dei politici sarebbero avvenute per non escludere i vivaisti lombardi determinando lo ‘scorporo’ dell’appalto per la fornitura di alberi da quello per la Piastra. A quel punto, tolta la parte relativa al ‘verde’, si sarebbe dovuta rifare tutta la gara della Piastra consentendo in linea ipotetica ad altre imprese di partecipare, quelle escluse in un primo momento perche’, per esempio, non erano in grado di occuparsi anche delle piante. I vivaisti non furono pero’ in grado di far fronte a livello finanziario alla fornitura e alla fine Expo ricorse all’affidamento diretto alla Mantovani che cosi’ si accapparro’ sia la gara per la Piastra che quella per gli alberi. Cosi’ il pg Felice Isnardi ricostruisce la vicenda: “Il 15 marzo 2012 viene individuato nella ditta Peverelli l’affidatario della fornitura (tanto che una prima bozza di gara era formulata con l’indicazione di requisiti tarati sulle caratteristiche della ditta in questione) da eseguire in associazione con un socio finanziario, ovvero uno sponsor, a sua volta individuato nella Sesto Immobiliare spa”. Societa’ che, secondo questa ricostruzione, in cambio, avrebbe avuto dalla Regione la Convenzione per la realizzazione della ‘Citta’ della Salute’. In questo contesto, a Sala viene addebitato di avere turbato le procedure con “mezzi fraudolenti” perche’ “il 23 marzo 2012, senza un provvedimento formale, stralcia la fornitura delle essenze arboree dal bando per la Piastra, scaduto il 20 gennaio 2012”.

“VERBALE RETRODATATO NELLA SUA ABITAZIONE” – Beppe Sala avrebbe falsato un verbale di Expo “nella sua abitazione”. E’ quanto emerge dall’avviso di chiusura delle indagini sulla Piastra di Expo notificato al sindaco con le accuse di turbativa d’asta in relazione a una fornitura di 6mila alberi al sito dell’Esposizione e di falso materiale e ideologico per avere retrodatato dei verbali. Secondo le indagini, Angelo Paris, titolare del procedimento sulla Piastra, avrebbe “fatto recapitare presso l’abitazione di Sala” il presunto atto falsamente datato “per la firma”. Stando alla ricostruzione della Procura Generale, il 15 maggio 2012 viene formalizzata la nomina della commissione aggiudicatrice della gara per la Piastra, l’infrastruttura su cui poi sorgera’ l’Esposizione. Tra i 5 commissari figurano anche l’ingegner Alessandro Moliaioni e il manager Antonio Acerbo, che poi verra’ arrestato per altre vicende. Tre giorni dopo, la commissione si riunisce per la prima volta, si accorge delle due incompatibilita’ e informa Sala che firma “l’annullamento del verbale di nomina della Commissione del 15 maggio e riporta la data falsa del 17 maggio”. Stando a a quanto era emerso dagli accertamenti della Guardia di Finanza, il 30 maggio per ‘salvare’ l’appalto a cui era legato il destino di Expo si sarebbe deciso di preparare un nuovo atto di nomina retrodatandolo al 17 maggio. Per farlo, era necessario l’intervento dell’attuale sindaco che avrebbe cosi’ sottoscritto l’annullamento del vecchio verbale redatto dai tecnici di Infrastrutture Lombarde motivando il provvedimento con l’esistenza di un “errore materiale consistente nella mancata nomina dei commissari supplenti e tacendo invece l’esistenza di una causa di invalidita’ che avrebbe comportato l’annullamento della procedura di gara”. Sempre l’allora Commissario avrebbe poi siglato il nuovo atto dove compaiono anche i due supplenti datandolo falsamente 17 maggio, anche se in realta’ si era al 30 maggio. La nuova nomina sarebbe stata portata dunque a casa di Sala su iniziativa di Paris che poi venne arrestato per altre vicende.

Expo, Sala e le indagini sul maxi appalto. Spiegate bene.

C’è il falso materiale e va bene. C’è quel documento retrodatato e una “commissione ombra” per non bloccare l’assegnazione dei lavori della Piastra di Expo. Per questo Beppe Sala rischia di finire a processo. E già domani forse si presenterà davanti al sostituto procuratore generale Felice Isnardi per farsi interrogare. Ma c’è qualcosa di più grave che emerge dalle carte dell’inchiesta avocata dalla Procura generale di Milano. Ovvero l’intera gestione del maxi appalto da 272 milioni, prima e dopo l’affidamento. C’è una condotta di Sala che tutto sembra tranne quella incentrata alla tutela del bene pubblico e alla gestione trasparente di un’opera strategica. Eppure, ed ecco il paradosso, per questo aspetto il sindaco di Milano ed ex ad di Expo spa non rischia alcuna imputazione. Partiamo dalla fine e dalle conclusioni della Guardia di finanza sulla vicenda Expo. “La condotta del management di Expo – si legge a pagina 672 – e in primis dall’ad Giuseppe Sala non appare né irreprensibile né lineare”, perché “attraverso condotte fattive ed omissive hanno comunque contribuito a concretizzare la strategia volta a danneggiare indebitamente la Mantovaniper tutelare e garantire, si ritiene, più che la società Expo, il loro personale ruolo all’interno della stessa”.

La vicenda Piastra svela un sistema che mette insieme interessi politici e carriere personali. Sala, in questo, risulta assoluto protagonista. Ecco allora i fatti. La Mantovani spa nell’estate del 2012 si aggiudica l’appalto con un ribasso di poco sotto il limite di legge e lo fa sorprendendo l’intero sistema Milano. Intercettazioni e verbali d’interrogatorio svelano che prima di Mantovani i favoriti erano da un lato Impregilo e dall’altro Pizzarotti. I loro padrini erano da un lato l’ex ad di Infrastrutture Lombarde Antonio Rognoni e l’ex governatore, oggi senatore, Roberto Formigoni. Vince, invece, Mantovani che pare godere di importanti appoggi politici, mediati, forse, dai soci della Socostramo, i fratelli Cinque molto vicini all’ex ministro dei Trasporti Altero Matteoli. L’azienda veneta mette così in allarme il sistema che reagisce. Da un lato con l’opera di Rognoni e l’accordo dello stesso Sala si aggiungono clausole economiche non previste per danneggiare Mantovani, dall’altro, però, viene evitata una più che dovuta verifica di congruità dell’offerta che avrebbe imposto una revisione completa del progetto allungando pericolosamente i tempi dei lavori.

Ed ecco il risultato dell’agire di Sala e dei suoi manager: “Pur mostrando una formale diffidenza – scrive la Finanza – si ottiene l’effetto di dare definitiva copertura a un’impresa illecitamente favorita”. Tradotto: le poltrone si tutelano limitando il raggio d’azione dell’intrusa Mantovani, che però va remunerata per non rischiare di far finire Expo a gambe all’aria. Mantovani grazie a forze politiche esterne e più potenti del sistema Milano sale su una carrozza che non è stata preparata per lei. Posizione ideale per battere cassa utilizzando il ricatto di “metter in discussione l’intero evento”. Di trasparente c’è poco. E così se da un lato Sala asseconda l’operato di Rognoni nell’ostacolare Mantovani, dall’altro apre la cassaforte di Expo all’ad di Mantovani Piergiorgio Baita. Ricordiamolo: il ribasso è del 41,8%, sull’importo iniziale si lima fino a 149 milioni. Nemmeno in grado di coprire le spese. Mantovani deve recuperare i soldi. Baita ne parla con l’ex dg di Expo, Angelo Paris. “In sostanza – riassumono i pm – l’imprenditore richiede che vengano riconosciuti ulteriori 50 milioni grazie alle riserve”. Il progetto doveva essere “elastico”, ovvero passibile di varianti. E così fu fin dall’inizio. Il giorno dell’aggiudicazione provvisoria, il responsabile unico del procedimento Carlo Chiesa dice a Sala: “Con il ribasso, lo sanno tutti che alla fine visto che devono fare delle varianti una parte la recuperano”.

Un concetto che Sala semplifica nei colloqui riservati con il presidente di Mantovani: “I soldi non mancano”. E i soldi arrivano, perché Expo non può fare altrimenti. A testimoniarlo l’Audit interno di Expo. Si legge: “Sono stati riscontrati reciproche richieste tra i soggetti coinvolti, finalizzate a recuperare da un lato i ritardi accumulati e dall’altro i maggiori compensi con la conseguente introduzione di elementi negoziali non coerenti (…). Le opere complementari sono sprovviste di proposta formale del Rup”. Il pm chiede a Baita: “Come è possibile che Mantovani si sia fidata di eseguire lavori priva dei supporti autorizzativi?”. Risposta: “Mantovani si relazionava con Sala, e riceveva rassicurazioni”. L’appalto di 272 milioni, affidato a 149, è costato 290. Ovvero 20 milioni in più.

(Davide Milosa, fonte)

Ecco la moratoria della Procura su Expo (di Frank Cimini e Manuela D’Alessandro)

(dal sito giustiziami, che vale la pena tenere tra i preferiti, di Frank Cimini e Manuela D’Alessandro)

Chissà, magari Beppe Sala, il ‘sindaco della procura‘ ha provato a prendersi la palma del peggiore in questa storia di malagiustizia, inventandosi l’autospensione che tecnicamente esiste ma politicamente assomiglia molto a una pagliacciata. Ha provato ma non ci è riuscito, perché è fuor di dubbio che quella palma appartiene alla procura di Milano (non ai pm Robledo, Filippini, Pellicano e Polizzi che ci ‘provarono’), alla moratoria delle indagini su Expo che adesso con anni di ritardo per sei mesi cercherà di fare la procura generale dopo aver avocato il fascicolo.

Sala poteva restare al suo posto perché è un semplice indagato dopo essere stato archiviato per l’assegnazione a Oscar Farinetti senza gara pubblica oppure poteva dimettersi. Invece si è autosospeso dopo aver saputo di dover rispondere di concorso in falso materiale e ideologico, la retrodatazione del cambio di due componenti della commissione aggiudicatrice sulla piastra. Non è una quisquilia si parla di verbali di riunione falsificati.

Milano rischia di tornare al voto in primavera, pagando un prezzo salato alla celebrazione costi quel che costi di Expo. C’era fretta, non si potevano rispettare le regole, non c’era tempo. La stessa spiegazione fornita per l’affaire Farinetti. Con la procura di Milano che aderisce e di fatto copre. Ma la magistratura copre anche se stessa perché per i fondi di Expo giustizia non era stata indetta la gara pubblica e tutti possono ammirare da anni gli inutili schermi appesi per tutto il Palazzo acquistati con quei fondi.

Fin qui era andata bene alla procura e a Sala diventato sindaco di Milano perché le indagini non erano state approfondite. Non tutte le ciambelle riescono con il buco. Si mettevano di mezzo un gip che rigettava l’archiviazione per la piastra e la procura generale che avocava. I boatos del palazzo riferiscono che dietro ci sarebbe anche una storia di correnti in lotta tra loro. Quelle correnti che al Csm fanno da sempre il bello e il cattivo tempo. E del resto il Csm rifiutò di aprire una pratica al fine di verificare l’esistenza o meno della moratoria della quale questo umile blog aveva iniziato a parlare nell’aprile del 2015, molto tempo prima dell’inaugurazione di Expo. Una voce nel deserto. Adesso la moratoria è sempre più chiara. Matteo Renzi da premier ringraziò due volte l’allora procuratore Edmondo Bruti Liberati per il senso di responsabilità istituzionale inserito tra le ragioni del sucesso di Expo.

Comunque sia si indaga sia pure con ritardo e va considerato pure che a maggio Felice Isnardi il sostituto procuratore generale titolare del fascicolo compirà 70 anni e andrà in pensione. Magari prima di andare potrebbe anche convocare come testimone Renzi per chiedergli: “Scusi a che cosa si riferiva esattamente?”. (frank cimini e manuela d’alessandro)

Parla Robledo: “Alla Procura di Milano c’è stato un abbraccio mortale tra giustizia e politica”

(fonte)

La ripresa delle indagini su Expo? “È con viva e vibrante soddisfazione che prendo atto del fatto che uffici inquirenti milanesi hanno ripristinato la tradizione di autonomia e indipendenza delle indagini che negli ultimi tempi si era un po’ appannata”. Così commenta Alfredo Robledo, che con un goccio di humor ricalca la formula dei comunicati del Capo dello Stato. Non gli sfugge che gli “uffici inquirenti milanesi” che hanno ripreso a indagare sull’esposizione universale non sono quelli della sua ex Procura, bensì quelli della Procura generale: i vecchi “parrucconi” si dimostrano più dinamici di quelli che una volta erano i pm d’assalto.

Ma dottor Robledo, che cosa vuol dire “appannata”?

È mia opinione che nel 2014 alla Procura di Milano ci sia stato un abbraccio mortale tra magistratura e politica. Il corto circuito è stato fatto scattare da questi rapporti, con il risultato, a mio avviso, di far perdere ai magistrati la loro autonomia e il loro ruolo di controllo, stabilito dalla Costituzione.

Lei nel 2014 è stato esautorato dal procuratore Edmondo Bruti Liberati che le ha prima proibito di partecipare a due interrogatori di un suo indagato, il manager Antonio Rognoni.

Anche il Csm ha valutato illegittimo questo comportamento, senza però che ci sia stata alcuna conseguenza.

Quando poi lei è ricorso al Csm, mandando un esposto in cui denunciava gli attacchi di Bruti, è intervenuto l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

I giornali dell’epoca, riferendosi al procuratore Bruti, titolavano: “Salvate il soldato Ryan”. I soldati obbediscono, i magistrati no.

Il Consiglio giudiziario, articolazione locale del Csm, ha poi dato ragione a lei contro Bruti che per escluderla dalle indagini aveva prima formato l’Area Omogenea Expo e poi le aveva tolto il coordinamento dell’anticorruzione, provvedimento ritenuto dal Consiglio illegittimo.

Il Consiglio giudiziario di Milano ha scritto un giudizio durissimo: “Il provvedimento in esame (…) sostanzialmente si risolve in un esautoramento completo del dottor Robledo dal ruolo di coordinatore del Secondo Dipartimento, senza alcuna considerazione della sfera di autonomia e dignità della funzione semidirettiva del magistrato, ma anche delle reali esigenze organizzative dell’ufficio”… “In conclusione, il provvedimento, che avrebbe dovuto avere finalità esclusivamente organizzative, risulta essere stato utilizzato per risolvere in modo improprio l’esistenza di un conflitto”. Parole dure, eppure il Csm non ha fatto una piega.

Due anni fa, alla Festa del “Fatto Quotidiano” alla Versiliana, lei aveva denunciato che il ricambio in corso di centinaia di dirigenti degli uffici giudiziari avrebbe reso la magistratura più gerarchica e più disponibile verso la politica.

Dissi anche che i membri laici del Csm, scelti dai partiti di destra e di sinistra, avrebbero spesso votato nel medesimo modo, indipendentemente dalla loro estrazione politica e sulla base di accordi tra e con le correnti. E così è stato.

Ma davvero i magistrati oggi sono meno liberi e meno autonomi?

Sono soprattutto i dirigenti delle correnti ad andare incontro alle esigenze della politica, e i cittadini e i magistrati poi finiscono per subirne le conseguenze. Se invece le correnti vogliono ritrovare il loro spirito primario, legato a riferimenti culturali e non a giochi di potere, devono porre fine alle spartizioni correntizie degli uffici. Anche l’Associazione nazionale magistrati deve dire sul punto una parola chiara: fa bene il presidente Piercamillo Davigo a ripetere che uno dei problemi dell’Italia è la corruzione dei politici, ma dovrebbe aggiungere che anche i magistrati non danno certo un bell’esempio, quando si spartiscono le cariche tra correnti.

Si è sentito solo in questa vicenda?

Lo sono stato. E il silenzio dei magistrati e della Associazione è assordante.

Ora i documenti dell’inchiesta sulla piastra spiegano perché, per esempio, i 6 mila alberi di Expo, comprati in un vivaio a 266 euro l’uno, sono stati pagati da Sala alla Mantovani 716 euro l’uno. Contratto affidato nel luglio 2013, senza gara, alla Mantovani per un importo di 4,3 milioni. La Mantovani nel novembre successivo stipula un contratto di subfornitura con un’impresa vivaistica per 1,6 milioni.

Expo è un buco nonostante la turbo favola

È stato un lungo fischio di sirene che ha attecchito mica male: il successo di Expo turboraccontato dal governo e dall’accolita degli interessati è stato uno dei fiori (di cartone) all’occhiello del governo: alla fine c’è uscito anche un sindaco dalla favola dell’Expo come simbolo dell’Italia che funziona e chissà se in queste ore proprio lui, Beppe Sala, non si sentirà tradito dall’improvviso dietrofront che arriva da Roma.

Ma andiamo con ordine. Il beneficio economico di Expo non sta nei bilanci, no: quelli, quando sono stati finalmente resi pubblici dopo un lungo tira e molla con Sala e la sua banda, dicono chiaramente che la manifestazione internazionale è stata sopra alle aspettative nelle spese sostenute e al di sotto nei visitatori previsti. I numeri lo dicono chiaramente, piaccia o no. Il presunto successo di Expo però, ci dicono da mesi gli ottimisti (per missione e servitù), starebbe tutto nella risonanza internazionale (vuoi mettere gli arresti tra dirigenti che sono finiti anche sulla stampa indiana, per dire), nell’indotto (che è ormai una mitologica presenza che sbuca quando bisogna ammorbidire i risultati finanziari) e nell’eredità dello Human Technopole (un trasloco dell’Università Statale pomposamente tradotto in inglese). Questo ci deve bastare, dicono.

C’è un problema: i soldi promessi da Renzi per pareggiare il bilancio di Expo (che è in rosso, appunto) sono spariti dalla legge di bilancio. Non c’è traccia dei 9,5 milioni di euro che servirebbero per la liquidazione della spa (che sarebbe quindi costretta a portare i libri in tribunale) e nemmeno gli 8 milioni per il trasferimento del campus universitario della Statale. Niente. Nisba. Alla fine anche il fedele collaboratore del sindaco di Milano Gianni Confalonieri (già scudiero di Pisapia) è costretto ad ammettere di essere rimasto “esterrefatto” e  di avere esaurito la sua riserva di fiducia.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Sempre a proposito della favola di Expo perfetto e senza mafia

Ma che ne dicono le diverse commissioni antimafia di Pisapia che hanno tirato la volata all’elezione di Beppe Sala sull’onda di un Expo che dovrebbe essere andato meravigliosamente bene? Ecco l’articolo di Lucio Musolino:

I padiglioni della Cina e dell’Ecuador sarebbero stati realizzati dalla‘ndrangheta. L’ombra delle cosche sull’Expo 2015 emerge nell’operazione Rent della guardia di finanza calabrese che ha sequestrato beni per oltre 15 milioni di euro alle famiglie mafiose Aquino-Coluccio di Marina di Gioiosa Jonica e Piromalli-Bellocco di Rosarno. Un blitz che ha coinvolto diverse province d’Italia tra cui Milano, Reggio Calabria, Catanzaro, Catania, Bergamo, Bologna, Brescia e Mantova. La Dda reggina contesta agli indagati i reati di associazione mafiosa, riciclaggio, estorsione, induzione alla prostituzione, detenzione illecita di armi da fuoco con l’aggravante del metodo mafioso.

L’inchiesta riguarda, in sostanza, un gruppo criminale calabrese che si sarebbe infiltrato nella realizzazione di opere importanti. Si tratta di un sodalizio, dedito al controllo di diverse attività economiche (fittiziamente intestate a soggetti compiacenti) che si sarebbero aggiudicate numerosi appalti e sub-appalti in Lombardia. Nel decreto di sequestro, infatti, compaiono anche alcune “anonime società del nord Italia”  che si sono occupate della realizzazione dei padiglionidella Cina e dell’Ecuador, delle opere di urbanizzazione e delle infrastrutture di base nella fiera Expo 2015, del subappalto per la societàFerrovie del Nord, dell’ipermercato di Arese e del consorzio di Bereguardo(Pavia).

Le fiamme gialle hanno eseguito perquisizioni e sequestrato beni immobili (appartamenti e locali), mobili, mobili registrati (autoveicoli di lusso, motoveicoli e autocarri), società, polizze assicurative e conti correnti bancari e postali, per un valore di oltre 15 milioni di euro. Complessivamente una trentina gli indagati. I soggetti principali sono Salvatore Piccoli, Giuseppe Gentile, Antonio Stefano (già in carcere traffico internazionale di sostanze stupefacenti), Graziano Macrì (pronipote del defunto Antonio Macrì, il boss dei “due mondi” conosciuto con il nome di Barone) e Pasquale Giacobbe.

Erano loro, secondo l’inchiesta coordinata dal procuratore Federico Cafiero De Raho, dall’aggiunto Gaetano Paci e dal sostituto Antonio De Bernardo, gli uomini della ‘ndrangheta che venivano mandati al nord Italia per rilevare società decotte o sull’orlo del fallimento. Stando alla ricostruzione fatta dagli uomini del colonnello Nicola Sportelli, comandante del gruppo Locri della guardia di finanza, una volta in mano alle cosche, queste società (che rimanevano formalmente intestaste ai vecchi proprietari) iniziavano ad accaparrarsi appalti per milioni di euro. Dalle intercettazioni, inoltre, era emerso il metodo mafioso che gli indagati adottavano ogni volta che avevano problemi di natura imprenditoriale.

Società che operavano non solo in Italia ma anche all’estero. Procura di Reggio Calabria e guardia di finanza (guidata dal colonnello Alessandro Barbera) è riuscita a monitorare i lavori per la realizzazione di un complesso turistico-sportivo, a Arges Pitesti (Romania) e del resort Molivişu, per un valore di 80 milioni di euro di cui 27 a carico dell’Unione Europea, nonché di un immobile in Marocco. Tutti soldi sui quali avrebbero messo le mani soggetti ritenuti vicini alle cosche Aquino-Coluccio e Piromalli-Bellocco.

Alcuni dei destinatari del provvedimento di sequestro sono stati già coinvolti nell’inchiesta “Underground” della Dda di Milano che il 3 ottobre scorso ha arrestato 14 persone che erano riuscite ad ottenere in subappalto i lavori, dal valore di circa 5 milioni di euro, per il collegamento ferroviario tra il Terminal 1 e ilTerminal 2 di Malpensa versando mazzette a Davide Lonardoni, il dirigente di Nord_Ing che progetta e coordina la realizzazione di tutti gli interventi di potenziamento infrastrutturale e di ammodernamento della rete ferroviaria e degli impianti di Ferrovie Nord.

 

Expo: la Russia non paga i lavori del padiglione e l’azienda di Treviso fallisce

(ne scrive Andrea De Polo per La Stampa qui)

A mezzogiorno del Primo maggio 2015 Alessandro Cesca, titolare della Sech Costruzioni Metalliche spa di Refrontolo (Treviso), abbraccia uno per uno tutti i suoi operai: hanno finito a tempo di record il loro cantiere al padiglione della Russia, quando nessuno ci avrebbe scommesso un euro. Il 17 ottobre, invece, è da solo quando legge la sentenza del Tribunale di Treviso che accoglie l’istanza dei fornitori e decreta il fallimento dell’azienda, dopo una storia di oltre quarant’anni.

Dal momento più alto a quello più basso della sua vita di imprenditore sono passati 535 giorni. Un anno e mezzo scarso in cui ha lottato contro i mulini a vento, perché quei lavori all’Expo la Russia non li ha mai pagati. Un credito di oltre 400 mila euro mai riscosso perché il committente, tale Rvs Holding Srl, appaltatore di RT-Expo Srl (le due società che gestivano la partecipazione della Russia all’Expo milanese), aveva sollevato una serie di “non conformità” al termine del cantiere. Nonostante il Ctu del Tribunale di Milano non avesse riscontrato alcun problema. Quei 400 mila euro non incassati si sono fatti sentire, eccome, perché hanno aperto la crisi di liquidità che ha portato al crac della Sech Costruzioni. «Nessuno ci ha aiutati, e si è innescata la catena che sta portando alla distruzione di tutto il nostro sistema di imprese: i clienti non mi pagano, io non riesco a pagare i fornitori» ha spiegato Cesca «può capitare a tutti, è la fine del Nordest».

La Sech Costruzioni era in buona (si fa per dire) compagnia. Altre otto imprese italiane vantavano crediti dalla Federazione Russa per i lavori eseguiti al padiglione dell’Expo: Catena Services, Coiver Contract, Ges. Co. Mont, Idealstile, Elios Ambiente, Mia Infissi, Vivai Mandelli, Sforazzini. Qualcuno si è accontentato di portare a casa il 20 o 30 per cento dell’importo, altri – tra cui la Sech – hanno scelto di adire le vie legali, denunciando i russi al Tribunale di Milano. Beffa nella beffa: la prima sentenza sulla vicenda è in arrivo a dicembre. Quando il capannone della Sech, una quarantina di operai al massimo dello splendore, sarà già stato svuotato anche della polvere.

«Ci siamo ritrovati a lottare contro tutto e tutti» denuncia ancora il titolare «nessuno del mondo della politica si è adoperato per darci una mano, figuratevi cosa possiamo fare noi contro un gigante come la Russia. Sì, ci sarà una sentenza tra un paio di mesi, ma anche se fosse favorevole, credete che quei soldi li vedremo? Intanto io sono stato costretto a chiudere tutto, gli operai sono a casa, e domani nessuno di noi sa cosa farà». Gli fa ancora più male, oggi, riguardare le foto dei lavori completati negli anni scorsi. I tornelli dello stadio di San Siro, a Milano. Il museo del tappeto a Baku in Azerbaijan, la stazione di Porta Susa a Torino, la sede di Luxottica ad Agordo. Il padiglione russo con quello strano specchio sopra la testa: l’inizio della fine. La Sech qualche anno fa aveva comprato il capannone di un altro gigante che in zona aveva chiuso i battenti, Indesit, e aveva assunto alcuni operai rimasti a casa. Era il 2013, e l’assessore regionale veneto Elena Donazzan, giunta Zaia, aveva parlato di «imprenditori eroi». «Me lo ricordo», dice oggi Cesca, «ma da quel giorno siamo rimasti soli».

È colpa nostra.

Il dibattito sulle infiltrazioni mafiose in Expo sta raggiungendo vette formigoniane. Come ai tempi del Celeste piovono una serie di arzigogolate invenzioni per distrarre le responsabilità su un tema (quello di un “Expo mafia free”, come lo chiamavano loro) che piuttosto che ricercare francamente le responsabilità politiche si inchioda sul benaltrismo.

Alla fine, vedrete, come ai tempi della Moratti, sarà colpa nostra che ne avevamo malauguratamente parlato. La rivoluzione arancione, da queste parti, s’è fatta macchia.

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