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Le ossa rotte di Salvini in Toscana e Veneto: il declino del leader leghista

Bacioni, Salvini. Il leader leghista continua il suo filotto di sconfitte che rivende come vittorie e esce con le ossa rotte dalle elezioni regionali. Torniamo indietro di qualche ora: Matteo Salvini non riesce a non smargiassare e per mesi continua a urlacciare dappertutto che queste elezioni sarebbero state quelle che avrebbero “mandato a casa Conte e il suo governo” e che avrebbero dimostrato che la gente non ne poteva più del Partito Democratico e del Movimento 5 Stelle. Rendere delle elezioni regionali come cartina di tornasole del quadro nazionale è sempre un rischio ma il leader leghista ha questa grande, invidiabile caratteristica: le sbaglia tutte.

Così nonostante i suoi soliti messaggi che solleticano i soliti stomaci (riuscire a parlare solo di migranti in occasione di elezioni locali è una banalità da fuoriclasse) Salvini riesce a uscirne male in Toscana (dove la candidata Ceccardi era una “sua” creatura) e riesce a farsi sconfiggere perfino dal legista Zaia che in Veneto con la sua lista personale prende il triplo dei voti della lista ufficiale della Lega.

Dalle parti della Lega minimizzano ma proprio in Veneto Salvini pretese che tutti gli assessori uscenti fossero capilista della lista del partito e proprio in Veneto Salvini scrisse ai 400 segretari locali del Carroccio per invitarli a votare la lista ufficiale del partito e non quella di Zaia: missione fallita, evidentemente, lo dicono i numeri. “La lista del presidente intercetta il consenso che non va al partito”, ha detto ieri Zaia in conferenza stampa: chi ha orecchie per intendere intenda. I numeri, si sa, non mentono e i numeri dicono che i consensi della Lega sono in calo in tutti i territori e solo l’enorme ascesa di Giorgia Meloni è riuscita a tamponare una sconfitta di proporzioni maggiori.

Matteo Salvini politicamente negli ultimi 13 mesi, dal famoso pomeriggio del Papeete, è riuscito a sbagliarle tutte e se serve una fotografia di queste sue elezioni basta andare a Lesina, provincia di Foggia dove l’unico candidato sindaco era proprio un leghista: “Un sindaco pugliese lo abbiamo già eletto ancor prima del confronto elettorale”, disse Salvini il 23 agosto. Sbagliata anche questa: il candidato sindaco è riuscito nella mirabile impresa di non raggiungere nemmeno il quorum. Niente da fare.

Se, come diceva Salvini, queste elezioni sarebbero state la spallata definitiva del governo Conte e il primo passo per il suo ritorno al governo…Beh, Conte può dormire sonni tranquilli. Bacioni, Salvini.

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TAGLIO DEI PARLAMENTARI: TUTTO SUL REFERENDUM COSTITUZIONALE

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L’articolo proviene da TPI.it qui

I bus per i negri

L’Alabama del Novecento in Val Brembana.
I leghisti hanno chiesto al prefetto di Bergamo che i richiedenti asilo prendano i mezzi pubblici in orari diversi rispetto agli studenti

Sembra una storia piccola, di provincia, che non meriterebbe nemmeno un commento e invece è la fotografia di qualcosa che si spande, che ogni giorno diventa sempre più normale, che addirittura non scandalizza e trova perfino consenso.

L’Alabama del secolo scorso si è trasferito in Val Brembana, amena valle nella provincia bergamasca, qui una folta truppa di leghisti ha deciso di andare in spedizione, con la scanzonata andatura di un’armata Brancaleone e con musichetta comica al seguito, dal Prefetto di Bergamo Enirco Ricci. Per dare peso all’importanza e alla sostanza della richiesta hanno pensato bene di partecipare anche due parlamentari della Lega, Daniele Belotti e Alberto Ribolla, tanto per farci capire che non si tratta di un inciampo di qualche piccolo e sconosciuto amministratore locale ma qui siamo di fronte a un’ideologia di partito che viene sfoggiata pure con una certa fierezza.

La combriccola ha chiesto al Prefetto di Bergamo che i “richiedenti asilo” (chiamati proprio così nel messaggio ufficiale, virgolettati come si virgolettano i diversi) prendano i mezzi pubblici in orari diversi rispetto agli studenti del mattino e forse, ancora meglio, che venga predisposto un servizio di trasporto appositamente per loro. Il bus per i bambini bianchi e il bus per i negri.

Il bravo Matteo Pucciarelli di Repubblica, che ha raccontato la vicenda, riporta anche le parole del dirigente locale della Lega, tal Enzo Galizzi che dice testualmente che i migranti “spintonando e sgomitando” e “vista la loro stazza”, “occupano tutti i posti disponibili” non permettendo agli studenti di rientrare a casa.

Nella richiesta, se ci pensate bene, c’è tutta l’inversione della propaganda leghista: piuttosto che brigare e lavorare per chiedere un servizio pubblico più efficiente (di cui è proprio la Lega la responsabile politica, da quelle parti) si preferisce agire per sottrazione ovviamente schiacciando il piede sulla xenofobia. E così, in nome di un’oggettiva difficoltà (quello del trasporto pubblico, segnatelo, sarà uno dei grandi problemi del rientro al lavoro) si riesce ancora una volta a dare sfogo alle proprie bassezze.

Del resto il leader attuale della Lega era lo stesso ridicolo consigliere comunale a Milano che nel 2009 propose di istituire delle carrozze della metropolitana solo per i milanesi per evitare contaminazioni con gli stranieri. Ai tempi quel giovane provocatore Matteo Salvini venne preso come un innocuo agitatore di proposte improbabili. Poi è andata a finire come sta finendo.

Buon lunedì.

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Tengo famiglia

Il sindaco di Foggia Franco Landella è passato da Forza Italia alla Lega. La decisione è stata presa dopo la mancata candidatura alle elezioni regionali della cognata

Franco Landella è sindaco di Foggia, mica di un paesino minuscolo e sconosciuto, e milita in Forza Italia. Anzi: militava in Forza Italia poiché ha approfittato del passaggio di Matteo Salvini per inscenare una breve conferenza stampa in cui doveva comunicare cose importanti.

Che ha detto? Ha detto che passa alla Lega. Ci sta, se ci pensate. Qualcuno può non essere d’accordo con la linea del suo partito e sentirsi rappresentato molto meglio da qualcuno altro. La politica è ricca di passaggi di casacca e molti rappresentanti politici si sono prodigati nel raccontare cosa non andasse più bene e quali fossero i motivi delle loro nuove convergenze. Ci si aspettava che Franco Landella ci dicesse una cosa qualsiasi, magari che Forza Italia è troppo morbida nelle sue posizioni contro l’Europa oppure che è davvero convinto, come Salvini che l’immigrazione sia il problema principale di questo mondo oppure che sul Mes proprio non riesce a essere d’accordo con le posizioni di Berlusconi. Una cosa qualsiasi.

E invece il sindaco ha emesso un comunicato stampa piuttosto sibillino: “Dopo 26 anni di militanza in Forza Italia sono costretto a lasciare questo partito dopo l’ennesima umiliazione; non posso continuare a subire le angherie di una classe dirigente di Forza Italia che antepone aspetti particolari ai valori della coerenza e della militanza e del consenso. Forza Italia ha favorito l’ingresso dei campioni del trasformismo rispetto alla militanza e al consenso di cui uno con una situazione giudiziaria particolare”.

Cosa avrà voluto dire? Semplice: la decisione è stata presa dopo la mancata candidatura alle elezioni regionali della cognata, la forzista Michaela Di Donna che ha trovato la porta chiusa in tutte le liste del centrodestra compresa Forza Italia. In sostanza il sindaco se ne va perché non hanno candidato la cognata. E in tutto questo c’è anche un partito che se lo prende, un politico così. E viene da pensare che forse al Landella dalle parti della Lega gli abbiano promesso di curare con attenzione il valore della famiglia. Tutto alla luce del sole.

Buon martedì.

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Il colloquio di lavoro

(Ripensavo a un testo per questo primo maggio e per questo lavoro piuttosto deteriorato e mi è venuto in mente un capitolo del mio romanzo Santamamma. Ora, non è mai bello autocitare un romanzo, suona sempre come mossa promozionale, eppure è una scena che contiene molte delle cose che ho vissuto io che sono di quella generazione a cavallo tra il “lavoro” come lo intendevano i nostri genitori e poi il “lavoro” come sarebbe diventato. Eccolo qui)

«Carlo Gatti»

«Sì, buongiorno. Eccomi.»

«Titolo di studio?»

«Maturità classica.»

«E basta?»

«Già, sì.»

«Strano, una maturità classica senza università…»

«Ho preferito cominciare a lavorare.»

«Sì. Ma non ha cominciato a lavorare visto che è qui per il colloquio.»

«Ho fatto il benzinaio.»

«Con la maturità classica. Un po’ pochino, eh. Chissà come saranno stati fieri i suoi genitori.»

«Lavoro estivo. Una cosetta così.»

«Ma qui c’è scritto settembre aprile.»

«Intendevo estivo nell’interpretazione. Anche se d’inverno.»

«Ah, nell’interpretazione, pensa te. Speriamo che non interpreti anche di fare finta di lavorare, ahinoi.»

L’ufficio aveva piante finte in tutti gli angoli. Smorte comunque. Almeno una spolverata, pensavo, almeno quella ci vorrebbe. Lui rigirava una penna. Lo insegnano a tutti gli ingiacchettati: tenere qualcosa tra le mani evita la fatica di pensare dove metterle. Trucchetto curioso per chi dovrebbe ribaltare l’economia del mondo, ma tant’è. I colloqui di lavoro hanno tutti un filo comune: la recitazione da parte dell’esaminato di un bisogno ma non troppo, di un entusiasmo ma non troppo, di competenze ma non troppo, di umiltà ma non troppo, di troppa buona educazione e una combinazione d’abiti che non vedi l’ora di dismettere. L’esaminatore, invece, sfoggia l’abilità di esaminare ma non troppo, annusa che tu sia brillante ma che non possa fare ombra, gioca al caporale e tu la truppa e poi diventa servo se entra il capo. Al decimo colloquio di lavoro potresti farne la regia in un teatro da mille posti, disegnarne la radiografia. Che messinscena.

«Suona. Anche.»

«Suonavo. Ho studiato pianoforte fin da piccolo. E violoncello.»

«La mia figlia più piccola va a danza. Le maestre dicono che sia portata. Vedremo un po’. Quindi ha suonato alla Scala?»

«Alla Scala c’è una stagione sinfonica. Non concerti solisti.»

«Ho capito, ho capito. Suonava così. Per passione…»

«Ho studiato. Frequentavo anche il conservatorio.»

«Ah, è diplomato! Allora un giorno la invito a vedere mia figlia ballare così mi dice.»

«Non mi sono diplomato. Mi sono fermato al nono anno.»

«Gatti, Gatti… non è riuscito a finirne una…»

«Ho avuto un lutto in famiglia.»

«Oh, mi spiace.»

Almeno un limite di potabilità, me lo ero imposto. Almeno non farsi sbavare addosso. E il lutto è un jolly: funziona a scuola per l’interrogazione e funziona anche qui. Del resto sono tutti maestrini, questi qui.

«Le spiego. Lei sa di cosa ci occupiamo?»

«Ho preso alcune informazioni. Consulenza aziendale specializzata in logistica, mobilità e ottimizzazione.»

«Ha sfogliato il depliant. Almeno quello l’ha finito.»

«Mi informo sempre. Amo sapere con chi sto andando a parlare.»

«Va bene Gatti, adesso non esageriamo. Quello è il mio lavoro. Comunque: esistiamo dal 1949 e il fondatore era un piccolo padroncino che si occupava di consegne e spedizioni nella zona fino poi a coprire tutto il territorio nazionale. Quando l’azienda è passata di mano al figlio, il signor Monti che poi è quello che la pagherebbe se io decido che lei può andare bene, abbiamo deciso di internazionalizzare l’impresa e oggi siamo tra i leader in Europa nella consulenza per le più importanti aziende logistiche. Trattiamo bancali e container che partono dall’Islanda e viaggiano fino alla Nuova Zelanda. Spedizioni che fanno il giro del mondo. Mi segue?»

È forte questa cosa degli incravattati che ripetono manfrine sulla storia dell’azienda com’è scritta sui volantini. È la recita di natale che si ripropone nella versione adulta, solo che qui a noi tocca fare i parenti commossi.

«Noi ci occupiamo che la spedizione avvenga con tutti i crismi: velocità, cortesia, qualità e produttività, soprattutto. Produttività. Abbiamo due divisioni: slancio e controllo. La figura che cerchiamo è per il reparto di slancio.»

«Sì. Di slancio. Che sarebbe?»

«Molto semplice. Il cliente x dice che deve spedire il bancale y da Roma a Berlino. Lei ha i numeri telefonici dei camionisti che collaborano con noi e il nostro sistema le fornisce un’indicazione di prezzo che noi chiamiamo cuneo. Il suo lavoro è di trovare velocemente quale dei nostri trasportatori è disposto a fare la tratta al prezzo più basso. Sulla differenza tra il cuneo e il prezzo che lei è riuscito ad ottenere le spetta una provvigione del 2,5% fino a un abbassamento del 25%, una provvigione del 5% fino al 50% e addirittura del 10% se il cuneo supera il cinquanta. Sembra difficile ma è molto semplice: quel viaggio dovrebbe costare 10.000 euro ma lei riesce a venderlo a un camionista a 5000 e con una telefonata si  è guadagnato 500 euro puliti. Mica male, eh?»

«Eh.»

«Già.»

«Ma perché slancio?»

«Il nome? Perché questo nome?»

«Sì. Una curiosità.»

«Mi sembra facile. Iniettiamo soldi nel mondo del lavoro, creiamo economia, spostiamo merci, accontentiamo clienti e lavoratori. Se al camionista non arrivasse quella telefonata avrebbe il camion fermo in giardino per farci giocare il figlioletto con il clacson e la leva del cambio. Il suo lavoro è tenere tutte queste persone in circolo, con tutti i loro talenti.»

Qui sorrise con trentadue canini. Era evidente che aveva trovato una formula diversa dalla consuetudine intirizzente e ne era entusiasta. L’avrebbe raccontata ai colleghi, agli amici del golf e alla mogliettina simulatamente fiera che l’avrebbe ascoltato mentre sceglieva il sushi. Da noi, in quegli anni lì, il sushi era un marziano con il salotto aperto solo agli eletti.

«Ma lei capisce, signor Gatti, che la responsabilità del ruolo e il prestigio dell’azienda ci impone di scegliere persone con i giusti talenti.»

Daje, con i talenti. Mi venne in mente zio Paperone. Con i sacchi di talenti.

«Per questo ho bisogno di sapere tutto di lei e di protocollo le farò anche delle domande personali. Dobbiamo avere la certezza di affidare il nostro slancio a persone che insieme a noi vogliano cambiare il mondo, aperte a sfide nuove e capaci di interagire con il futuro dandogli del tu.»

«Ovvio.»

«Mi dica Gatti, perché è interessato ad entrare nel mondo della logistica e della grande distribuzione?»

«Perché amo la mobilità. Ecco.»

«Cioè?»

«Credo che il commercio sia la più alta realizzazione delle capacità umane e essere partecipe di un’organizzazione che riesce a dare del tu a tutti i continenti sia una bella sfida.»

«Perfetto. Molto bravo. Ha già capito il nostro spirito. Siamo esploratori, noi. Ha intenzione di farsi una famiglia?»

«Certamente. Pur rispettando la mia autonomia.»

«Appunto. Perché qui non si può fermare il mondo per un anniversario, lei mi capisce. Questo non è un lavoro…»

«È una missione.»

«Una missione. Esattamente. Vuole avere figli?»

«Per ora no. Una famiglia mi basterebbe. Vorrei prima concentrarmi sulla realizzazione personale

«È molto maturo per essere un musicista della domenica, Gatti. Anche se ha letto il greco e latino.»

«La ringrazio.»

«Qui c’è gente che si è presentata in braghe di tela come lei e ora si porta a casa dodici, quindici, diciotto milioni al mese. Ma bisogna crederci, essere all’altezza dei propri sogni, come dice il nostro capo tutti gli anni alla cena di natale. Mi dica Gatti, ma lei è all’altezza dei suoi sogni?»

«Oh certo.»

«Perché qui ha il dovere di sognare. Non so se mi capisce. Questo non è un lavoro, come dirle, è l’affiliazione a un sogno. Qui non ci sono orari e domeniche perché i nostri collaboratori hanno bisogno di venire in ufficio, hanno bisogno di ribassare il cuneo e sentono la necessità di dimostrare al mondo che è possibile spostare un bancale di mille chilometri a metà del prezzo che la società ci vorrebbe imporre. È un fuoco che senti dentro».

«Capisco bene.»

«Capisce, va bene, ma lei ce l’ha il fuoco? Me lo faccia vedere! Ce l’ha il fuoco dentro?»

Sai che forse ci credono davvero questi a quello che dicono? Francesco una volta mi disse che sì, che secondo lui succede che a forza di riempire di polpettone il tacchino qualche tacchino si convince di essere polpettone. Lui aveva suo padre che vendeva porte blindate, le porte blindate più blindate tra le porte blindate, e quando a casa di Francesco gli zingari gli sono entrati in casa per rubargli pochi spicci, le mozzarelle e cagargli sul divano anche quella volta lì suo papà disse che dovevano essere una banda di professionisti, rapinatori da musei e ministeri, se erano riusciti a debellare la sua porta blindata.

«Io ce l’ho il fuoco. Me lo sento che brucia.»

«Perché questo è il punto di partenza essenziale. Senza quello io e lei non facciamo neanche questo appuntamento, altrimenti. Perché è lei che vuole venire con noi. Ma come lei ce ne sono migliaia. E bisogna scegliere bene chi ci prendiamo in famiglia.»

«Certamente. La sua è una bella responsabilità, mi immagino.»

«Lo può dire forte, Gatti! Lo può scrivere mille volte sulla lavagna! Ma lei cosa vuole fare da grande?»

«Essere in squadra per una grande impresa

«Molto bene.»

«Grazie.»

«Guardi questo test, guardi qui. Deve mettere una croce. È alla guida di un treno e c’è una biforcazione. Se continua sulla sua direzione troverà sei persone sui binari e inevitabilmente sarò costretto a ucciderli però può azionare lo scambio e decidere di prendere l’altra biforcazione dove sui binari c’è un uomo solo. Da che parte va, lei, Gatti?»

«Non è facile.»

«Non c’è tempo Gatti! Non ha troppo tempo! Non si può spegnere lo slancio!»

«Ne uccido uno solo, forse.»

«Ma è colpa sua, così!»

«Beh, non credo che se uccido gli altri sei mi facciano patrono del paese…»

«Sa qual è la risposta giusta?»

«No.»

«La risposta giusta anche se non c’è il quadretto della risposta giusta?»

«Mi dica.»

«La strada più breve. La più breve è la risposta giusta.»

«Ah, ok.»

«Ha qualche domanda?»

«Niente in particolare. Volevo chiedere, nel caso in cui io possa andare bene, l’inquadramento. Lo stipendio.»

«Le do un consiglio Gatti. Al di là di questo nostro incontro e che poi venga o no a lavorare con noi. Le do un consiglio. Parlare di soldi a un colloquio di lavoro è terribilmente inelegante».

«Sì, questo lo so».

«Però ci è ricascato. Pensi lei se io dovessi essere così rozzo da raccontarle che dispendio di soldi, tempo e energie è per noi fornirle una postazione, occuparci del telefono, le cuffie, il computer, i programmi, il suo armadietto, il badge, la mensa. Pensi quanto mi costa impiegare qualche collega esperto, di quelli che hanno lo slancio dentro, per spiegarle come funziona. Pensi a uno della nostra squadra che piuttosto che iniettare economia deve istruire uno appena arrivato. Gliene ho parlato? Forse mi ha sentito che le faccio pesare il fatto che qui da noi sapere sviolinare il pianoforte conta come il due di picche quando briscola è bastoni? È cambiato il mondo per voi giovani. Io vi invidio. Avete di fronte un futuro aperto a tutte le possibilità: la domanda che dovete fare non è «quanto mi pagate» ma «quanto valgo, io?». Io non le do niente, io non voglio essere come una volta il padrone della sua vita, io sono qui perché lei mi dica quanto guadagnerà. Sono io che glielo chiedo. Quanto guadagnerà Gatti?»

«C’è un rimborso spese?»

«Sono duecentocinquantamila lire di anticipo di provvigioni per i primi sei mesi. Volendo vedere c’è anche un milione di computer sulla sua scrivania, ottocentomila lire di media di bolletta telefonica per ogni collaboratore, la cancelleria e soprattuto questa azienda che vede, che il proprietario ha voluto bella e accogliente più di casa sua.»

«Ho capito. Mi è tutto chiaro.»

«Lei mi piace Gatti. Glielo confesso perché mi piace. Magari mi sbaglio anche se in tutta la carriera non mi sono sbagliato mai ma sento il suo fuoco. Mi prendo il rischio, via: se vuole domani ci vediamo alle 7 e iniziamo. Non lo dica a nessuno che l’ho deciso così su due piedi ma ogni tanto voglio fidarmi del mio istinto. Forse si è perso un po’ con la musica e la scuola ma le posso raccontare di un collega che non sapeva nemmeno parlare in italiano e ora è un caporeparto con la Golf aziendale e uno stipendio da favola. Non le dico il nome solo perché sarebbe inelegante ma lei ha quella luce negli occhi. Se lo prende qui da noi il diploma, si laurea in slancio. Eh?”

«Domani però non posso. Domani.»

«E perché?»

«Ho avuto un lutto.»

«Mi dispiace tanto.»

«Però vi chiamo. Vi chiamo io.»

«Va bene Gatti. Va bene. L’aspettiamo. Come una famiglia!»

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Puglia. La mafia dimenticata. (di Carlo Lucarelli)

Già è la parola ad essere fuorviante. Faida. Per carità, tecnicamente è giusta, anzi, è stata usata anche per le mattanze calabresi degli Anni 80 e 90, però anche allora dava un’impressione sbagliata.

 

Faida. Una serie di vendette familiari che si tramandano nel tempo e che riguardano una comunità ristretta, famiglie appunto, gruppi di amici, al massimo clan. Viene da pensare istintivamente ad un paio di cose, anzi, tre. Ad una causa scatenante, così persa nella profondità del tempo e magari futile come un furto di galline o l’occhiata sbagliata ad una ragazza, che nessuno se ne ricorda più. Viene da pensare ad una situazione degradata e lontana, da frontiera selvaggia, violenta e senza legge, dove ci si fa giustizia da soli con la pistola al cinturone. E viene da pensare che in fondo si ammazzano tra loro, per cui vabbè.

 

In provincia di Foggia, in questi giorni, per la cosiddetta «faida del Gargano» sono state ammazzate quattro persone. Sono le ultime di una lunga lista che solo dall’inizio dell’anno conta ben diciassette morti, più due scomparsi per quella che chiamiamo letterariamente lupara bianca e che di solito significa comunque essere ammazzato. In Puglia, in quella regione ricca, bella e organizzata, che con il Far West ha in comune soltanto l’essere chiamata «la California del Sud». E non si ammazzano neanche tra di loro e basta, dal momento che nell’ultima strage, oltre a due uomini ritenuti parte di un clan criminale ci sono due contadini che passavano semplicemente di là e hanno visto quello che non dovevano vedere, e che così si aggiungono ai più quaranta nomi di pugliesi letti ogni anno tra più di novecento nel Giorno della Memoria e del Ricordo delle vittime innocenti per mafia. Perché per quanto tecnicamente sia giustissimo chiamarle faide, di questo comunque si tratta.

Guerre di mafia. Eppure, non è che quello che sta accadendo in parte della Puglia, e mica solo dalla fine dell’anno, abbia suscitato tanto scalpore. O almeno, non abbastanza, perché chi le cose le vive direttamente se ne è accorto da un pezzo e di denunce e iniziative anche istituzionali ce ne sono state, ma a me sembra, appunto, non abbastanza. In una regione ricca e piena di interessi, quando la criminalità organizzata spara e ammazza dovremmo immediatamente pensare ad obbiettivi che fanno paura e invece pare che a livello nazionale, dall’opinione pubblica ma anche da parte delle istituzioni, la situazione venga percepita come la normale fisiologia di una mafia minore, già sconfitta a suo tempo.

Mafia minore. È così che è sempre stata considerata la mafia pugliese, la cosiddetta Sacra Corona Unita, nonostante le decine di morti ammazzati, le bombe, le stragi da film di gangster come quella del Circolo Bacardi di Foggia nell’86, la testa mozzata di Nicola Laviano fotografata e mostrata in giro, i miliardi – prima di lire e poi di euro – derivati dai traffici e dal controllo di attività illecite ma anche lecite, almeno apparentemente. Una mafia giovane, nata artificialmente in carcere e colonizzata dalle cosiddette mafie maggiori, Cosa Nostra, Camorra, ’Ndrangheta. Mafia minore, insomma. E forse sta anche qui la mancanza di attenzione attuale ad un fenomeno che avrebbe dovuto farci paura da un pezzo, ancora prima che arrivassero – solo tra gli ultimi – due fratelli che passavano di lì per caso con il loro furgoncino, e uno dei due, che corre disperato inseguito dai killer per i campi, come il giudice Rosario Livatino ad Agrigento. Perché alle mafie, dal punto di vista mediatico ma anche politico, succede quello che accade ai delitti di cronaca. Ce ne sono alcuni più «fortunati» – tra virgolette – che per il tipo di vittima o di assassino, per il luogo o il momento in cui sono avvenuti, colpiscono l’immaginazione, si guadagnano un nome – Cogne, via Poma, la strage di Erba – ed entrano a far parte di una narrazione mediatica che va oltre le inchieste e le motivazioni delle sentenze.

Cosa Nostra è un vero e proprio marchio internazionale e basta pronunciarlo per pensare ad una serie di cose che vanno dalla Trattiva alle stragi al sigaro cubano di Luciano Liggio e al Sacco di Palermo, passando per «Il Padrino», gli orrendi ristoranti spagnoli che utilizzavano il nome della Mafia e al piccolo Santino Di Matteo sciolto nell’acido. Un mondo, col quale abbiamo una familiarità che fa subito scattare un immaginario, con tutte le informazioni, le sensazioni e le emozioni che si porta dietro.

Prima di Gomorra e di Roberto Saviano, per esempio, c’era a Casal di Principe una mafia sconosciuta e totalmente oscurata da una star del crimine come Cutolo, che nessuno avrebbe potuto nominare neanche uno dei suoi boss. Oggi Sandokan Schiavone, per esempio, lo conosciamo tutti, e la pericolosità pervasiva e massiccia dei Casalesi, anche questo vero e proprio marchio di fabbrica, ci fa abbastanza paura.

Ora, non è che bastino gli scrittori a cambiare il mondo, la mafia pugliese è anche stata raccontata da film come «Galantuomini» di Edoardo Winspeare o da romanzi come il bellissimo «L’estate fredda» di Gianrico Carofiglio, solo per citarne alcuni, ci sono stati processi e inchieste – tra cui quelle dello stesso presidente della Regione, Michele Emiliano – che veramente l’hanno quasi sconfitta, ci sono stati articoli e saggi, eppure quello che sta accadendo adesso in Puglia a me sembra non abbia ancora la visibilità e la concreta inquietudine che merita. Sono io che mi sbaglio? Per mia personale e banale disinformazione, per esempio?

Insomma, cosa sta succedendo nella bella, ricca e organizzata Puglia – aggettivi che uso con affetto e convinzione- una fisiologica attività criminale? Morti che fanno male come tutti i morti ammazzati, ma che restano nell’ambito di una «faida»? O una inquietante, pericolosa e ancora non compresa guerra di mafia?

(fonte)

Gomorra ora sta a Foggia: un’esecuzione in piena regola per il boss Romito

Quattro o cinque persone sono entrate in azione sulla strada provinciale 272 tra Apricena e San Marco in Lamis, in provincia di Foggia. Si tratta dell’ennesimo omicidio dall’inizio del 2017: negli ultimi 8 mesi si contano 17 morti tra Capitanata e Gargano. Uccisi anche due contadini incensurati, la cui una colpa è stata assistere all’omicidio. Il sindaco: “Episodio orribile, intervenga il governo”

Un’esecuzione in pieno giorno, in strada, vicino alla stazione di San Marco in Lamis, nel Foggiano. Con due vittime innocenti, colpevoli solo di aver assistito all’omicidio di un presunto boss. L’ennesimo agguato nella guerra di mafia che si sta consumando tra la Capitanata e il Gargano dall’inizio dell’anno rompe gli schemi del passato, colpendo anche i testimoni delle faide, che hanno lasciato sull’asfalto 17 morti nel 2017. Otto da giugno ad oggi. Mercoledì mattina un commando ha ucciso le ultime quattro persone tra Apricena e San Marco in Lamis. Due le vittime designate: Mario Luciano Romito, figura di spicco dell’omonimo clan di Manfredonia e suo cognato. Mentre gli altri due assassinati sono dei contadini incensurati, i fratelli Luigi e Aurelio Luciani, testimoni involontari dell’agguato.

I killer sono entrati in azione poco dopo le 10 sulla Strada provinciale 272 nei pressi della stazione ferroviaria. Romito viaggiava con il cognato su un Maggiolino quando è stato affiancato da una vettura con 4 o 5 persone a bordo che hanno aperto il fuoco con kalashnikov, fucili a canne mozze e pistole. Poi, a quanto pare, il commando ha fatto fuori i due contadini perché avevano assistito all’esecuzione: Luigi e Aurelio Luciani sono stati inseguiti nei campi e freddati senza pietà. Tre i morti sul colpo, mentre uno dei due agricoltori – rimasto in un primo momento gravemente ferito – è deceduto durante il trasporto verso l’ospedale di San Severo. Assieme a Mario Romito, presunto boss sfuggito nel 2009 e nel 2010 ad altri due agguati nei quali morirono suoi parenti, è stato freddato il cognato Matteo Di Palma. La famiglia della vittima (nella foto accanto, ndr) è in guerra da trent’anni con il clan dei Libergolis, recentemente decapitato da diverse inchieste della magistratura.

Chiara agli investigatori la matrice mafiosa dell’assalto che potrebbe essere l’ultimo capitolo di una scia di sangue che va avanti da maggio, quando due persone vennero ferite a colpi di kalashnikov tra le bancarelle del mercato di San Marco in Lamis. Un’azione seguita dal duplice omicidio di Antonio Petrella e suo nipote Nicola Ferrelli, ritenuto vicino al clan Di Summa. I due vennero ammazzati senza pietà il 20 giugno alla periferia di Apricena. Dopo averli affiancati in corsa, i killer crivellarono di colpi la loro auto con pistole, fucili e kalashnikov. Poi scesero e, secondo la ricostruzione degli investigatori, hanno finito i due con diversi colpi al volto, sfigurandoli. Una mattanza che, forse, è stata vendicata con l’agguato di oggi.

Lo scorso 27 luglio, invece, a Vieste, sempre nel Foggiano, un uomo legato alla mala garganica era stata assassinato all’ora di pranzo all’interno della propria attività commerciale davanti alla propria famiglia e ai turisti. Con l’agguato di oggi, sale a 17 il numero di vittime di omicidi legati alla guerra di mafia in atto tra la Capitanata e il Gargano da oltre un anno.

“E’ un episodio orribile, non conosciamo ancora i dettagli di quanto avvenuto ma negli ultimi mesi sono tanti gli episodi che hanno coinvolto la nostra provincia. Occorre al più presto un incontro tra tutti i rappresentanti del territorio con il ministro dell’Interno“, afferma il sindaco di San Marco in Lamis, Michele Merla. “Vogliamo essere ascoltati – ha aggiunto il sindaco – così non si può andare avanti. Serve un intervento del governo, le istituzioni nazionali devono intervenire per la nostra provincia, non possiamo più assistere a questa efferatezza”.

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Una donna fa tremare la mafia foggiana: i nomi

1418359_10202379466998455_870545816_n-e1415109744205È, di fatto, il primo pentimento nella storia della mafia foggiana. Sabrina Campaniello, 33 anni, ex moglie di Emiliano Francavilla, uno dei capi della “Società”, è testimone di giustizia da qualche mese. Questo emerge dopo che la Dda di Bari ha depositato il verbale delle dichiarazioni rese dalla donna. Al centro della questione c’è sempre l’operazione “Corona” del luglio 2013 nella quale sono stati arrestati 24 esponenti della malavita locale. La Campaniello ha cantato, si può dire, svelando parte dell’organigramma della “Società”. I capi, i soldati, gli uomini trasversali. Uomini e vicende narrati più volte sulle pagine online de l’Immediato. Come quando scrivemmo delle estorsioni a Lello Zammarano (leggi) e Matteo La Torre (leggi), quest’ultimo definito dagli inquirenti in “costante contatto con i malavitosi”. La Campaniello non avrebbe svelato i nomi degli imprenditori vittima di estorsioni. Ma c’è un’ordinanza monstre di quasi 700 pagine a raccontare storie molto dettagliate su come la mafia ha tessuto le sue trame di potere nel capoluogo dauno. Dai costruttori ai piccoli esercenti passando per la grande distribuzione, in molti si sono piegati al volere dei boss.

Organigramma della Società

Nello schema della “Società foggiana” tracciato dagli inquirenti in occasione dell’Operazione Corona, c’è un quadro dettagliato su capi e organizzatori dei clan. In cima ci sono Roberto Sinesi, Raffaele Tolonese, Antonello Francavilla, Emiliano Francavilla, unitamente a Rocco Moretti, Antonio Vincenzo Pellegrino, Federico Trisciuoglio e Michele Mansueto (deceduto). Tutti indagati in “Corona” perché dirigevano e coordinavano, anche quali componenti di vertice delle batterie di riferimento (Sinesi/Francavilla, Moretti/Pellegrino e Trisciuoglio/Mansueto/Tolonese), le attività delittuose programmate dal sodalizio. L’“Operazione Corona” ci ha regalato uno spaccato di vita, morte, sangue e denaro della Società. Caposaldo del business: il racket delle estorsioni. Il fenomeno ha colpito, nel corso degli anni, uomini più o meno noti del panorama imprenditoriale di Foggia. Soggetti che, sotto minaccia, hanno riempito le casse della Società e rifornito i garage dei boss di nuove e fiammanti automobili. Nello schema ricostruito dal Tribunale di Bari, emergono organizzatori, batterie ed elementi trasversali. In “Corona” si parla anche dei rapporti con la mafia garganica e del ruolo della Società nel proteggere la latitanza di Franco Li Bergolis (leggi). Alcuni dei nomi che leggerete, sono comparsi nel capitolo riguardante Matteo La Torre.

Organizzatori:Savino Ariostini, Francesco Sinesi e Pasquale Moretti gestivano (Sinesi per la batteria omonima, Ariostini e Moretti per il clan Moretti/Pellegrino) le attività delittuose come estorsioni, banconote false, rapine e contraffazione.

BATTERIA Trisciuoglio/Mansueto/ToloneseSalvatore Buono (ricettazione e riciclaggio auto e commercio droga); Agostino Corvino (come Buono); Luigi De Stefano (estorsioni); Felice Direse (partecipe a sodalizio e mantenuto economicamente dallo stesso); Giovanni Pepe (estorsioni, deceduto); Salvatore Prencipe (come Direse); Giovanni Russo(estorsioni); Antonio Sabetta (armi); Rocco Soldo (commercio droga, estorsioni, ricettazione e riciclaggio auto, detenzione armi); Fabio Trisciuoglio (estorsioni); Giuseppe Trisciuoglio (estorsioni, gestione attività economiche e gestione cooperative sociali).

BATTERIA Sinesi/Francavilla:Nunzio Aprile (estorsioni); Carlo Borreca (estorsioni e armi); Pompeo Brattoli(estorsioni); Roberto Di Sibbio (estorsioni e omicidi); Alessandro Lanza (estorsioni e rapine); Mario Lanza (rapine); Antonio Pegna (gestione attività economiche e gioco d’azzardo); Ciro Stanchi (estorsioni e rapine).

BATTERIA Moretti/Pellegrino: Mimmo Falco (rapine e armi); Ernesto Gatta (estorsioni); Pietro Stramacchio (armi, rapine, estorsioni, contraffazione banconote false).

Elementi trasversali: Cesare Antoniello (per le infiltrazioni nel tessuto politico, economico e imprenditoriale); Luigi Carella (rapine e detenzione armi); Michele Carella (armi, estorsioni e ricettazione); Massimiliano Cassitti (estorsioni e banconote false); Mario Clemente (armi e rapine); Daniele De Cotiis (ricettazione e riciclaggio auto); Antonio De Sandi(rapine); Michele Ragno (ricettazione e riciclaggio auto); Giosuè Rizzi (deceduto, partecipe stabilmente al sodalizio dal quale percepiva mantenimento economico); Antonio Russo (ricettazione e riciclaggio auto); Michele Testa (ricettazione e riciclaggio auto); Giuseppe Zucchini (per le infiltrazioni nel tessuto politico, economico e imprenditoriale).

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