Vai al contenuto

giulio regeni

#GiulioRegeni e le domande sbagliate

«Per quale ragione giornalistica si dovrebbe fare uno scoop, con tanto di titolone in prima, su un documento con cui una procura dichiara di voler fare delle domande ad una persona? Lo scoop non andrebbe cercato, al massimo, nelle risposte a quelle domande?
Tutto questo non significa sostenere che Cambridge e Maha Abdelrahman abbiano avuto un comportamento impeccabile, o che non possano e debbano essere rivolte loro delle domande. Ma, come dicono non a caso in queste ore le persone più vicine alla campagna #veritàpergiulio, non dovremmo forse ricordarci che chi ha rapito, torturato e ucciso Regeni è sicuramente in Egitto ed a piede libero? Sarebbe troppo dire che le autorità italiane non stanno facendo nulla per ottenere verità e giustizia? Il vero scoop lo avremmo forse se la nostra stampa cominciasse a dedicarsi con la stessa energia alle parti davvero centrali di questa storia.»

 

Leggetevi Franco Palazzi nel suo intervento su Facebook. Ne vale la pena.

 

Renzi trova coraggio su Regeni. E sbaglia verso.

Dunque Matteo Renzi, il Matteo Renzi che è stato sempre così docile con Al Sisi e l’Egitto ha trovato il coraggio. Sarà la campagna elettorale.

Ma non conta solo l’inglese maccheronico con cui scrive il tweet («For Giulio Regeni we demand only the truth. Are the Prof of Cambridge hiding something? ») ma conta soprattutto il fatto che trova contro Cambridge il coraggio che non ha avuto con Al Sisi.

Uno scempio. Uno scempio di paraculaggine.

Perché, di certo, non è stata Cambridge a torturare Giulio. Sicuro.

Il “caso Regeni” e l’Italia che chiagne (e se ne fotte)

Un pezzo da leggere, da Linkiesta:

 

Quella di Giulio Regeni è una vicenda a doppia velocità.

Da una parte ci sono la società civile, il grosso dell’opinione pubblica e il mondo della cultura uniti nel chiedere giustizia per una vicenda che grida vendetta; dall’altra il mondo della politica e, a cascata, quello dell’informazione televisiva mainstream da essa controllata, per cui Regeni – prima dell’inchiesta del New York Times di agosto – costituiva una seccatura di cui fortunatamente si cominciava a parlare meno.

La forza dei simboli è quella di colpire le persone in profondità, oltre la ragione, mettendole in comunicazione diretta con il proprio inconscio. Giulio Regeni ha da subito rappresentato il simbolo della contraddizione profonda su cui si basa l’Italia 2017, quella che tutti, in vario modo, vivono sulla propria pelle.

Per la generazione dei genitori, per i draghi e le virago del ’68 o del ‘77, Giulio è il figlio che avrebbero voluto avere.

Come i loro figli, Regeni si scontra contro un Paese incapace di riconoscere e premiare il merito, dove il talento – si tratti di una redazione di un quotidiano, un dipartimento universitario o il forno di una panetteria – è un fastidio, una minaccia per le gerarchie esistenti e le rendite di posizione, da combattere fino a rendere inoffensivo. Ma a differenza dei loro figli, Giulio sulla sua vita non accetta compromessi e invece di accontentarsi, magari grazie ad una raccomandazione, prosegue dritto per la sua strada: se ne va all’estero, impara cinque lingue, si guadagna la fiducia di Istituzioni internazionali che davanti ad Alfano scoppierebbero a ridere.

Per costruirsi il futuro che le generazioni precedenti hanno svenduto, Giulio è disposto a tutto, anche a fidarsi delle persone sbagliate, precipitando in una situazione più grossa di lui che gli sarà fatale.

Così, a pensare a Regeni, i genitori si macerano nei sensi di colpa; quella generazione che non solo ha perso, ma che addirittura si è portata via il pallone per impedire a quella successiva di giocare, leggendo del corpo straziato di Giulio si sente colpevole e cerca redenzione indossando come un cilicio il braccialetto giallo che lo ricorda. Nello stesso tempo, Giulio Regeni è un simbolo anche per la generazione dei figli, di cui rappresenta la perfetta sublimazione delle loro aspirazioni.

 

Regeni è quello che studia e lavora ogni giorno su stesso, non accettando niente che sia al di sotto dell’eccellenza; quello che per inseguire la propria vocazione è pronto a lottare fino in fondo, senza lasciare nulla di intentato. Quello, insomma, che come tutti vuole ribellarsi, ma che a differenza di quasi tutti ha il coraggio di farlo sul serio.
Regeni è quello che studia e lavora ogni giorno su stesso, non accettando niente che sia al di sotto dell’eccellenza; quello che per inseguire la propria vocazione è pronto a lottare fino in fondo, senza lasciare nulla di intentato. Quello, insomma, che come tutti vuole ribellarsi, ma che a differenza di quasi tutti ha il coraggio di farlo sul serio.

Per questo Giulio Regeni, per la generazione dei figli, diventa “un eroe”: non per le torture che ha subito da prigioniero ma perché quelle torture sono state il risultato di una ribellione a cui tutti, almeno una volta, hanno ambito. Divenuta simbolica e quindi “di principio”, il caso Regeni ha messo in ridicolo l’intera classe politica attuale come poche altre vicende erano riuscite a fare.

Modificata geneticamente dalla logica dei “followers”, la politica negli ultimi anni ha cercato di diventare puro sentimento, col risultato di scadere spesso in un mercante in fiera di populismi. I leader-venditori si sono illusi di poter governare compiacendo le pulsioni più elementari dei clienti-elettori, tipo piazzisti di aspirapolveri al mercato del sabato (non a caso, il politico più di successo dal 1994 a oggi è proprio un ex venditore).

Ma attraverso una vicenda come quella di Regeni, la realtà traccia una riga netta, obbligando il politico a una scelta di campo: da una parte il sentimento caro al piazzista, dall’altra la realpolitik del democristiano.

 

(continua qui)

 

 

Ecco come l’amico Al Sisi sta trattando l’avvocato dei Regeni: in cella nudo e torturato

(un articolo importante di TPI)

Il 13 settembre era stata confermata la decisione dell’Egypt’s State Security Prosecution (SSP), il tribunale di sicurezza nazionale legato al ministero dell’Interno egiziano, di tenere prigioniero per  giorni Ibrahim Metwally, avvocato del team legale della famiglia Regeni al Cairo.

Mohammed Lotfy, responsabile della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (ECRF), ha dichiarato a TPI che oggi è stata deciso il rinnovo della detenzione per altri 15 giorni.

“Metwally ha raccontato ai nostri avvocati di aver subito torture durante il suo periodo di detenzione nella sezione di massima sicurezza Scorpion, del carcere di Tora, a sud del Cairo”, ha detto Lotfly.

“Gli sono stati tolti tutti i vestiti e il suo corpo è stato sottoposto a scosse elettriche. È in isolamento, senza energia elettrica, e la cella è piena di spazzatura”.

Inoltre, secondo quanto riporta Lotfy, un comitato delle autorità per gli investimenti, accompagnato da responsabili della sicurezza statale e dalla polizia, ha fatto irruzione nel suo ufficio di ECRF.

“Hanno annunciato di voler chiudere la società e porla sotto sigilli. L’avvocato che era presente al momento dell’irruzione ha spiegato loro che si tratta di un studio legale e solo per questo motivo al momento hanno desistito”.

Lotfy, che ha collaborato e tuttora collabora con Ibrahim Metwally al caso di Giulio Regeni, ha spiegato che il comitato ha annunciato l’intenzione di tornare la prossima settimana.

Lo stesso comitato aveva ispezionato gli uffici di ECRF a ottobre del 2016, pubblicando una relazione nella quale si rilevava nello studio la presenza di volumi sui diritti umani e sulle sparizioni in Egitto, attività dai contorni politici e pertanto distante da quella prevista per uno studio legale.

“Questa notte o domani verrà pubblicata una dichiarazione del comitato”, ha concluso Lotfy.

Metwally è accusato di avere stabilito un canale di comunicazione con non meglio precisate entità straniere, allo scopo di mettere in pericolo la sicurezza dell’Egitto. L’avvocato è rinchiuso a Tora dal 10 settembre, giorno di cui si erano perse le tracce dell’uomo.

Ecco qua: «Giulio Regeni se l’è cercata» dice un prete ligure durante la messa

(parole opere e omissioni di don Pietro Ferrari, ne scrive Huffington Post)

Piero Ferrari è un missionario appartenente alla congregazione del Sacro Cuore di Gesù che domenica scorsa, dal pulpito della chiesa di San Bartolomeo al Mare, in Liguria, ha pronunciato parole che fanno discutere.

“Giulio Regeni se l’è cercata” e i media “sbagliano a parlare di lui, uno solo, che è andato a fare il furbo e sapeva benissimo dove si stava andando a infilare, mentre ogni giorno muoiono migliaia di poveri”.

Secondo quanto riporta il quotidiano La Stampa, padre Ferrari si trovava nella località ligure per la giornata missionaria e lì ha preso la parola al posto del parroco per raccontare il proprio impegno in Sud Sudan: un teatro di guerra e morte quotidiana che però rimane ancora troppo lontano dai riflettori internazionali, dice.

Ci sono guerre dimenticate e invece si parla tanto di Regeni. Anche altri missionari come me hanno il dente avvelenato.

Il parallelismo fra il suo lavoro, pericoloso ma dimenticato, e la vicenda diplomatica e al tempo stesso mediatica di Giulio Regeni non tarda a sollevare brusii di stupore e dissenso fra i fedeli della chiesa di San Bartolomeo. Che però non bastano a placare la polemica choc di padre Ferrari il quale, anzi, intervistato dal quotidiano torinese, rincara la dose.

L’Egitto è sotto minaccia dell’Isis, e tu vai a fare una riunione con i sindacati che sono contro il governo. Immagina tu, cosa vuoi che facciano. Perché non è partito un inglese, o un francese, dalla sua Università, ed è andato proprio lui? Certo, gli egiziani avranno esagerato, ma ce le tiriamo addosso le bastonate in quelle situazioni.

La risposta a tali dichiarazioni, tuttavia, è stata immediata e altrettanto dura, a cominciare da quella del parroco della comunità ligure, don Elena, che prendendo le distanze da padre Ferrari ha affermato:

Non si può barattare un morto con mille morti. E poi Regeni aveva tutto il diritto di fare le sue ricerche. Cosa dovremmo dire dei missionari uccisi? Che se la sono cercata?

Gli amici egiziani: è “scomparso” uno degli avvocati della famiglia Regeni

Bloccato all’aeroporto del Cairo mentre andava a Ginevra per intervenire a un’assemblea delle Nazioni Unite per parlare di diritti umani. Non si hanno più notizie dal 10 settembre di uno degli avvocati egiziani della famiglia RegeniIbrahim Metwaly. Dalle prima informazioni sembra che sia stato fermato proprio mentre stava per imbarcarsi sull’aereo diretto in Svizzera.

Solo il 5 settembre scorso, il sito web della Egyptian commission for rights and freedom, l‘organizzazione che rappresenta legalmente la famiglia del ricercatore, è stato oscurato. “Il regime sta iniziando la vendetta contro di noi”, aveva detto a ilfattoquotidiano.it il presidente Ahmed Abdallah. Lunedì scorso, il ministro degli Esteri Angelino Alfano aveva annunciato davanti alle commissioni degli Esteri riunite di Camera e Senato il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo. “L’Egitto è un partner ineludibile”, si era giustificato.

Il 12 settembre il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, sarà ascoltato alle 15 in audizione al Copasir. Il premier, che ha mantenuto per sé la delega all’intelligence, riferirà su tutti aspetti che riguardano le minacce alla sicurezza nazionale e l’organizzazione dei servizi e, nel corso dell’audizione, il deputato grillino Angelo Tofalo ha annunciato che chiederà chiarimenti sulla vicenda Regeni e sugli accordi con la Libia che hanno determinato un netto freno ai flussi migratori. “Sarà”, ha scritto Tofalo su Facebook, “l’ultimissima possibilità per raccontare la verità sull’atroce morte di Giulio Regeni e cosa il nostro Governo realmente sapeva fin da quel primo tragico giorno del ritrovamento del corpo di Giulio e forse anche prima. Risposte chiare bisognerà darle anche e soprattutto sul fronte Libia dopo la relazione dell’Associated Press relativa agli accordi italiani con contrabbandieri e trafficanti”.

(fonte)

Ecco come l’Egitto accoglie l’ambasciatore italiano: oscurando il sito dei legali della famiglia di Giulio Regeni

“Il regime sta iniziando la vendetta contro di noi”. Ahmed Abdallah è il presidente dell’Egyptian Commission for Rights and Freedom, l’organizzazione egiziana che rappresenta legalmente la famiglia di Giulio Regeni in Egitto. La preoccupazione nella sua voce è tangibile perché questa mattina il sito web dell’ECRF è stato bloccato dalle autorità del Cairo. Sorte già toccata negli ultimi mesi a 133 siti internet, tra giornali e portali web di partiti politici e associazioni, secondo l’Arabic Network for Human Rights Association.

Il blocco del sito dell’ECRF arriva il giorno dopo l’audizione del Ministro degli Esteri Angelino Alfano alle commissioni esteri congiunte di Camera e Senato sulla scelta di inviare il nuovo ambasciatore Giampaolo Cantini al Cairo dopo il ritiro di Maurizio Massari nell’aprile del 2016. “Stanno cominciando ad accanirsi contro di noi. È come se la seduta di ieri davanti alle commissioni esteri avesse dato la luce verde al governo egiziano per dimenticare il caso”, dice Abdallah a IlFattoQuotidiano.it. “Per il governo egiziano, il rinvio dell’ambasciatore significa solo una cosa: che i rapporti fra noi e l’Italia si sono normalizzati e che quindi tutto ciò che ha a che fare con Regeni deve scomparire, a partire proprio da noi”.

Gli avvocati dell’ECRF ogni giorno forniscono assistenza ai parenti dei desaparecidos egiziani: il loro database al momento ne conta più di 1.000, con 107 sparizioni solo nel primo trimestre del 2017. Il loro sito internet non è solo uno strumento con cui l’organizzazione diffonde i rapporti sui diritti umani nel Paese, ma è anche un punto di contatto tra i familiari delle vittime di sparizioni forzate: “Ho avuto modo di sentire i parlamentari italiani, il vostro ministro parla di svolta nelle indagini ma in realtà gli inquirenti egiziani non stanno collaborando”, continua Abdallah. “Le autorità italiane non sono mai state ammesse agli interrogatori, non hanno mai potuto farlo perché, secondo Il Cairo, sarebbe contro la legge. Ma anche noi, che invece abbiamo un gruppo di avvocati egiziani siamo sempre stati isolati. Abbiamo inoltrato due volte la richiesta per avere gli atti ed è sempre stata respinta. Non abbiamo mai potuto vedere le carte”.

Lunedì il responsabile della Farnesina ha affermato che le “relazioni con l’Egitto sono obbligate” e che i nuovi documenti arrivati alla Procura di Roma giustificano la nuova mossa diplomatica annunciata il 14 agosto. “Abbiamo due nomi: il primo è quello di Sharif Magdi Abdlaal, il capitano della sicurezza di Stato – prosegue Abdallah – lui teneva i contatti con Mohammed Abdallah, il capo degli ambulanti che ha filmato Giulio durante il loro incontro. È lo stesso che mi ha accusato e arrestato con prove false e mi ha fatto scontare quasi 6 mesi di carcere lo scorso anno. Poi c’è Mahmoud Hendy, l’ufficiale che ha messo in atto il depistaggio dei cinque uomini giustiziati nel marzo del 2016, spacciati per una banda di rapitori di stranieri. Queste sono figure importanti e non sono mai state indagate in modo serio”. Gli inquirenti italiani sono in possesso anche di un altro nome, quello di Osan Helmy, che secondo i tabulati telefonici analizzati da SCO e ROS sarebbe uno degli agenti della National Security che ha arruolato Mohammed Abdallah.

A fine mese i magistrati italiani si riuniranno al Cairo con la Procura generale egiziana. I punti da risolvere sono ancora tanti, a partire dall’analisi delle telecamere di sorveglianza della metro di Bohooth, la stazione in cui Regeni si è recato il 25 gennaio 2016, il giorno della sua scomparsa. Al momento gli inquirenti non sono ancora in grado di ricostruire il luogo della sparizione, di capire se il ricercatore italiano ha preso la metro per andare al centro del Cairo o se è stato preso nella strada della stazione, a pochi passi dalla sua abitazione. Le autorità egiziane si sono sempre rifiutate di spedire le immagini (sovrascritte) alla società tedesca che doveva analizzarle, si erano solo resi disponibili a farle esaminare al Cairo. Secondo La Repubblica, gli egiziani avrebbero bocciato la società tedesca e ne avrebbero scelto un’altra con base in Russia.

Ma per gli inquirenti italiani resta un miraggio anche interrogare i 3 ufficiali dei quali si conoscono i nomi. Lo scorso giugno le autorità egiziane hanno rigettato la richiesta degli inquirenti italiani di assistere agli interrogatori di 7 graduati egiziani che hanno indagato su Regeni prima della sua morte. Secondo fonti citate dall’Ansa, Roma avrebbe ricevuto solo un riassunto delle testimonianze. “Se la presenza dell’ambasciatore cambierà questo atteggiamento? Lo spero”, afferma Abdallah. “Vedremo cosa succederà nei prossimi mesi, ma in ogni caso noi continueremo a sostenere la famiglia Regeni nonostante le difficoltà”.

(fonte)

Eccolo. L’articolo del NY Times su Giulio Regeni. In italiano, per i duri d’orecchie.

(eccolo il tanto discusso articolo su Giulio Regeni del New York Times. Il quotidiano USA ha deciso di pubblicarlo tradotto in italiano. Si vede che hanno avuto il dubbio che fossero problemi di lingua, mica di mancata volontà)

Quel giorno di novembre 2015 l’obiettivo della polizia egiziana erano i venditori ambulanti di calzini, occhiali da sole da 2 dollari e gioielli finti, raggruppati sotto i portici degli eleganti edifici secolari di Heliopolis, un sobborgo del Cairo. Blitz come questo erano di routine, ma questi venditori occupavano una zona particolarmente sensibile. A solo una novantina di metri di distanza si trova il palazzo riccamente decorato nel quale il Presidente dell’Egitto, l’autoritario leader militare Abdel Fattah el-Sisi, accoglie i dignitari stranieri. Mentre gli uomini raccoglievano in fretta le lore cose dai tappetini e dai portoni, preparandosi a fuggire, avevano tra loro un assistente improbabile: un ricercatore universitario italiano di nome Giulio Regeni.

Giulio era arrivato al Cairo pochi mesi prima per condurre ricerche per il suo dottorato a Cambridge. Cresciuto in un piccolo paese vicino a Trieste da un padre rappresentante e da una madre insegnante, Regeni, un ventottenne di sinistra, era rimasto affascinato dallo spirito rivoluzionario della Primavera Araba. Nel 2011, quando erano esplose le manifestazioni di Piazza Tahrir che condussero alla caduta del Presidente Hosni Mubarak, stava finendo il suo corso di laurea in arabo e scienze politiche all’università di Leeds. Si trovava al Cairo nel 2013 come stagista per un’agenzia delle Nazioni Unite, quando una seconda ondata di manifestazioni portarono le forze armate a cacciare il presidente egiziano recentemente eletto, l’Islamista Mohamed Morsi, e a mettere al potere al-Sisi. Come molti egiziani divenuti ostili al governo troppo invadente di Morsi, Regeni apprezzò questo sviluppo. “Fa parte del processo rivoluzionario,” scrisse ad un amico inglese, Bernard Goyder, all’inizio di agosto. In seguito, meno di due settimane dopo, le forze di sicurezza di al-Sisi uccisero 800 sostenitori di Morsi in un solo giorno, il peggior massacro voluto dallo stato nella storia dell’Egitto. Fu l’inizio di una lunga spirale di repressione. Regeni presto partì per l’Inghilterra, dove cominciò a lavorare per Oxford Analytica, un’azienda di analisi e ricerca.

Da lontano, Regeni seguiva con attenzione il governo di al-Sisi. Scriveva rapporti sul Nord Africa, analizzando tendenze politiche ed economiche, e in capo a un’anno aveva risparmiato abbastanza soldi da poter iniziare il dottorato in studi dello sviluppo a Cambridge. Decise di concentrarsi sui sindacati indipendenti egiziani — la cui serie di scioperi senza precedenti iniziati nel 2006 aveva predisposto il popolo egiziano alla rivolta contro Mubarak. Adesso con la Primavera araba a pezzi, Regeni vedeva i sindacati come fragile speranza per la maltrattata democrazia egiziana. Dopo il 2011, il loro numero era esploso, passando da quattro a migliaia. C’erano sindacati per ogni cosa: macellai, assistenti di teatro, scavatori di pozzi e minatori, addetti alla riscossione delle bollette del gas e comparse nelle telenovelas trash che andavano in onda durante il mese santo del Ramadan. C’era anche un sindacato indipendente dei nani. Guidato dalla sua relatrice, una nota professoressa egiziana di Cambridge che aveva scritto in modo critico su al-Sisi, Regeni scelse di studiare i venditori ambulanti — giovani uomini provenienti da paesini lontani che si ingegnavano per sopravvivere sui marciapiedi del Cairo. Regeni si immerse nel loro mondo sperando di valutare il potenziale del loro sindacato nella guida del cambiamento politico e sociale.

Però con l’arrivo del 2015 quel tipo di immersione culturale, preferito a lungo da arabisti in erba, non era più facile come prima. Una coltre di sospetti era caduta sul Cairo. La stampa era stata ridotta al silenzio, avvocati e giornalisti venivano regolarmente molestati e gli informatori riempivano i caffè del centro del Cairo. La polizia fece un blitz nell’ufficio in cui Regeni conduceva le sue interviste; folli storie di cospirazioni straniere andavano regolarmente in onda sui canali televisivi del governo.

Regeni non si fece scoraggiare. Parlava cinque lingue, era insaziabilmente curioso e aveva un fascino poco appariscente che gli aveva attirato un‘ampia cerchia di amici. Dai 12 ai 14 anni, era stato il sindaco dei piccoli della sua cittadina natale, Fiumicello. Teneva molto alla sua capacità di navigare culture diverse e gli piaceva la vita disordinata delle strade del Cairo: i caffè fumosi, l’attività frenetica e infinita, le barche colorate come caramelle che la sera navigavano sul Nilo. Si registrò come ricercatore esterno presso l’American University del Cairo e trovò una stanza a Dokki, un quartiere strozzato dal traffico tra le piramidi ed il Nilo, dove condivideva un appartamento con due giovani professionisti: Juliane Schoki, che un insegnante di tedesco, e Mohamed El Sayad, avvocato in uno dei più antichi studi legali del Cairo. Dokki non era una zona alla moda, però si trovava a due sole fermate di metropolitana dal centro del Cairo, con i suoi labirinti di alberghi economici, bettole e isolati di appartamenti fatiscenti che circondano Piazza Tahrir. In breve, Regeni aveva fatto amicizia con scrittori ed artisti e perfezionava il suo arabo da Abou Tarek, un emporio di quattro piani illuminato con luci al neon che è il posto più famoso del Cairo per il koshary, il piatto tradizionale egiziano di riso, lenticchie e pasta.

Passava le ore a intervistare venditori di strada a Heliopolis e nel piccolo mercato dietro la stazione Ramses. Per ottenere la loro fiducia, mangiava dagli stessi carretti sporchi dei suoi interlocutori; il supervisore accademico di Regeni all’American University lo avvertì che si sarebbe procurato un’intossicazione alimentare. A Regeni non interessava: si muoveva attraverso il Cairo con una tranquilla aura di determinazione.

Per caso venne al Cairo per lavoro Valeriia Vitynska, un’ucraina che Giulio aveva conosciuto a Berlino quattro anni prima. I due riallacciarono i rapporti. “Era più bella di quanto ricordassi,” scrisse in un messaggio ad un amico. Fecero un viaggio sul Mar Rosso e quando lei tornò al suo lavoro a Kiev, continuarono la loro relazione via Skype. “Era molto intenso e bello,” mi ha detto l’amica di Regeni Paz Zàrate, “Lui era gioioso, pieno di speranza per il futuro.”

Tuttavia Regeni era cosciente dei pericoli del Cairo. “È molto deprimente,” scrisse a Goyder dopo un mese di soggiorno. “Tutti sono super-consapevoli dei giochi in atto.” A dicembre partecipò ad un incontro di attivisti sindacali e scrisse di questa esperienza per una piccola agenzia di stampa italiana. Durante l’incontro, disse ad amici di aver notato una ragazza velata che gli scattava foto con il cellulare. Era stato inquietante. Regeni si lamentò con i suoi amici che alcuni venditori ambulanti lo infastidivano per chiedergli favori, come per esempio cellulari nuovi. E poi il rapporto con il suo contatto principale, un uomo massiccio di circa quarant’anni di nome Mohamed Abdullah, prese una strana piega.

(continua qui)

«Famiglia Regeni: da Gentiloni solo 180 secondi di rispetto»: parla il senatore Manconi

Da leggere e divulgare l’intervista che Pietro Salvatori ha fatto a Luigi Manconi per Huffington Post:

Tre minuti. Solo tre minuti. Questo l’effimero intervallo di tempo tra la telefonata della Farnesina e il comunicato ufficiale battuto dall’Ansa. La famiglia Regeni ha ricevuto dal governo la notizia che l’ambasciatore stava per fare ritorno al Cairo senza alcuna garanzia di ottenere verità sul rapimento di Giulio 180 secondi prima che i canali ufficiali la riversassero nel circuito dell’informazione. Lo racconta con una punta d’amarezza Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, che in questi mesi ha stretto un saldo rapporto con la famiglia dottorando di Cambridge. La decisione dell’esecutivo ha fatto saltare il tappo del politicamente corretto. In bocca a Manconi compaiono parole come “complesso di inferiorità e nei confronti degli Stati Uniti e nei confronti dell’Egitto”, “incapacità della nostra diplomazia a svolgere un ruolo davvero indipendente”, “posizione di sudditanza e di rinuncia alla propria sovranità”. Una frustrazione figlia della sordità del governo, che ha interloquito con il senatore del Pd attraverso il sottosegretario Enzo Amendola. Manconi gli ha consegnato tre condizioni a suo avviso indispensabili per il ritorno dell’ambasciatore al Cairo: “Mi ha garantito che, in ogni caso, se ne sarebbe tenuto conto. Sappiamo come è andata a finire: non una è stata accolta”.

Senatore, partiamo dalla fine: la decisione del governo sta ulteriormente allontanando la verità sulle ultime ore di Giulio Regeni?
Temo di sì. Dal giorno del richiamo in Italia dell’ambasciatore, l’otto aprile del 2016, questo è stato il solo strumento di pressione adottato dal nostro paese nei confronti del regime di Al-Sisi. Quella sede vacante a Il Cairo ha costituito l’unico segnale concreto della crisi delle relazioni politico-diplomatiche con l’Egitto. Con la rinuncia a questa misura, l’Italia è oggi più debole: come se fosse totalmente disarmata davanti a un avversario agguerrito e arrogante.

Le nostre autorità hanno tenuto un filo diretto con la famiglia? Sono stati aggiornati passo passo sulle scelte o sono stati messi di fronte a passo compiuto?
Ci sono stati molti comportamenti sciatti e tantissime trascuratezze, incontri fissati poi rinviati e, infine, annullati. E l’episodio degli ultimi giorni segnala una trasandatezza istituzionale che mi sembra davvero grave. Il 20 marzo del 2017, il Presidente del Consiglio incontra i genitori di Regeni, assicura il suo impegno e garantisce che qualunque decisione sull’ambasciatore italiano sarà “condivisa” con loro. Intenzionalmente, nei mesi successivi, ho ricordato questa solenne promessa senza mai ricevere una smentita. Da quel 30 marzo, silenzio. Poi il 14 agosto, Gentiloni, per così dire, “condivide” con i signori Regeni la decisione sull’ambasciatore, ma lo fa esattamente tre minuti prima che l’Ansa pubblichi il comunicato del ministero degli Esteri.

Al di là del canale delle semplici comunicazioni, c’è stata un’interlocuzione formale sulle decisioni da prendere? Magari con lei, considerando il suo rapporto con la famiglia ma anche e soprattutto l’incarico istituzionale che ricopre?
Nella seconda metà di luglio, il sottosegretario agli Esteri Enzo Amendola, persona assai competente e dai modi squisiti, ha voluto incontrarmi. Ho accettato immediatamente: nella mia qualità di presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, ho promosso, a pochi giorni dalla morte di Regeni, la prima e unica audizione dei suoi genitori presso un’istituzione pubblica. E, quindi, il martedì di Pasqua di quell’anno, la conferenza stampa tenutasi al Senato. Successivamente, ho sempre sostenuto le ragioni della famiglia dal momento che coincidevano con le mie convinzioni: e ciò anche a proposito della questione del rientro o meno dell’ambasciatore. Logico che il governo, tra i suoi mille contatti, ritenesse opportuna l’interlocuzione con me. Da qui in avanti, mi sono mosso con l’autonomia propria di ogni parlamentare, sulla base del lavoro fatto in questi anni come presidente di quella Commissione e della mia conoscenza della vicenda Regeni a partire dal 25 gennaio del 2016. Nel corso di questi mesi, avevo elaborato un’idea condivisa da molti e mai discussa con i genitori di Regeni, in quanto relativa a una dimensione politico-istituzionale dalla quale ho ritenuto opportuno rimanessero distanti.

Ci può dire di più sul contenuto dei colloqui con Amendola?
La mia opinione era che si sarebbe potuto decidere l’invio dell’ambasciatore a Il Cairo dopo, e solo dopo – insisto: solo dopo – che fossero state assunte altre misure, altrettanto efficaci e incisive. Nel corso di alcuni incontri con il sottosegretario ho indicato puntualmente quali potessero essere simili provvedimenti. Li ho persino dettagliati in punti precisi: a) dichiarazione formale dell’Egitto come paese non sicuro, indicata in maniera inequivocabile e resa pubblica in tutte le sedi e le circostanze, in ragione di quanto accaduto al nostro connazionale e di quanto le organizzazioni per la tutela dei diritti umani documentano a proposito di rapimento, sparizione e assassinio di dissidenti egiziani; b) sospensione degli accordi speciali di riammissione dei profughi egiziani nel paese di origine; c) sospensione della concessione di licenze ad aziende italiane per la vendita di armi o pezzi di ricambio per armamenti a società private o pubbliche egiziane. Il senso di quelle proposte era chiaro: senza rompere le relazioni diplomatiche con l’Egitto, si adottavano misure nel campo del turismo, in quello delle relazioni commerciali e in quello dell’immigrazione tali da esercitare quella forza di persuasione e quella pressione democratica che l’invio dell’ambasciatore a Il Cairo avrebbe fatto venir meno. Oltre a questo, altre decisioni, in particolare di natura simbolica, che tenessero viva la memoria di Regeni e la non la consegnassero all’oblio.

Il risultato?
Il sottosegretario Amendola ha discusso le mie proposte, ha indicato modifiche e mi ha garantito che, in ogni caso, se ne sarebbe tenuto conto. Sappiamo come è andata a finire: non una di quelle prime tre proposte – le uniche davvero efficaci – è stata accolta; e anche io sono stato avvertito della decisione del governo appena un paio di minuti prima dell’annuncio ufficiale.

 

Chi sostiene la posizione della Farnesina spiega però che l’invio dell’ambasciatore è la strada che più può avvicinare gli inquirenti italiani alla verità dei fatti.
Ho la sensazione, invece, che l’allontani ancora di più. Non è certo un caso che, per giustificare l’invio dell’ambasciatore, il governo abbia parlato di progressi nella cooperazione giudiziaria tra Egitto e Italia, di cui al momento non esiste la più esile traccia. E si pensi, ancora, che la promessa più impegnativa della procura egiziana riguarda la consegna nel prossimo settembre di filmati video che dovevano essere messi a disposizione della nostra magistratura già un anno fa.

 

Il giorno dopo la decisione, il Nyt ha diffuso la notizia dell’informativa dei servizi statunitensi sulle precise responsabilità delle autorità egiziane nell’omicidio di Giulio. Il nostro governo smentisce che Washington abbiano trasmesso notizie tali decisive o che non fossero già nella disponibilità dei nostri inquirenti e della nostra intelligence È una versione plausibile?
Su questo posso esprimere solo le mie sensazioni, non avendo alcuna informazione particolare. Penso, in ogni caso, che il governo italiano abbia avuto in quella circostanza, e non solo in quella, un atteggiamento rinunciatario: rivelando, con ciò, una sorta di complesso di inferiorità e nei confronti degli Stati Uniti e nei confronti dell’Egitto. Insomma, l’Italia non è stata in grado di fare il proprio difficile dovere: intrattenere, con tutti i mezzi a disposizione, rapporti con un paese che ha un ruolo cruciale in quell’area e, allo stesso tempo, affermare il principio altrettanto fondamentale, e assoluto, della tutela dei diritti umani, tanto più, quando si tratta di quelli di un connazionale barbaramente trucidato. Un compito arduo e dall’esito tutt’altro che scontato, ma ho la sensazione che l’Italia non vi abbia nemmeno provato con la necessaria serietà e tenacia. Ci si è richiamati, quasi ossessivamente, al realismo politico per poi assumere nei fatti una posizione di sudditanza e di rinuncia alla propria sovranità.

 

I tempi nei quali il governo fornirà le proprie spiegazioni, la convocazione è fissata per il 4 settembre non sono tardivi? Si sarebbero dovute riconvocare le Camere?
Penso di sì, ma ciò non riguarda solo la vicenda di Giulio Regeni. Di questo passo, si arriverà a chiedere l’inserimento in Costituzione della intangibilità delle ferie agostane.

 

Shalabayeva, Regeni. Due casi molto diversi ma che in qualche modo segnalano una difficoltà – ma avremmo potuto usare termini più duri – dei nostri apparati nella gestione di casi spinosi. Vede un filo rosso che li collega? Siamo in presenza di un problema strutturale della nostra sicurezza?
Vedo, sì, qualche affinità: in entrambi i casi si nota un deficit di autonomia del nostro governo e una incapacità della nostra diplomazia a svolgere un ruolo davvero indipendente. In altri termini, una vocazione alla subalternità che ci condanna fatalmente a un ruolo gregario anche quando sono in gioco interessi essenziali e valori irrinunciabili.

Su Regeni e sulle ragioni della giustizia

(da minima&moralia)

I diciannove mesi che ci separano dalla sparizione forzata di Giulio Regeni e dal ritrovamento del suo corpo, reso quasi irriconoscibile dalla tortura, hanno visto una mobilitazione inedita da parte della società civile italiana.

L’Italia intera, dal basso, si è stretta solidale attorno alla famiglia Regeni che, a sua volta, ha assunto con coraggio e generosità l’onere di dare voce al dolore, alla rabbia ed allo sdegno degli amici e dei colleghi del loro figlio, inclusi coloro cui una morte prematura, violenta e insensata non ha concesso di incontrarlo in vita, ma che con lui hanno condiviso, a distanza, un’esperienza intellettuale e una visione umanistica del mondo.

Di fronte a questa mobilitazione capillare, immediata e spontanea, che ha coinvolto i grandi comuni e i piccoli centri, il mondo dell’arte, dello sport, della cultura, le università, le società professionali, le scuole, e le tante famiglie che hanno i figli che studiano o lavorano all’estero, il governo italiano e quello egiziano sono stati costretti a permettere alla procura di Roma di indagare sul caso, smantellando uno a uno i tanti depistaggi e i tentativi di diffamazione del ricercatore italiano. Anche una certa stampa, per troppo tempo allineata su tesi complottistiche, alla ricerca dello scoop, dovrebbe arrendersi all’evidenza schiacciante dei fatti.

Come scrisse Andrea Teti – uno degli autori di questo testo e della lettera al Guardian del 6 febbraio 2016, firmata da migliaia di professori in tutto il mondo: “È questa sua normalità l’aspetto più difficile da comprendere del caso di Giulio Regeni: normale la ricerca, normali i metodi, normali le analisi.” Quello che non è normale è il suo assassinio. La società civile lo ha capito fin dal primo giorno.

Non sorprende, dunque, che questa società civile abbia accolto con molto sgomento l’annuncio del governo italiano, alla vigilia di Ferragosto, del ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo, che di fatto ufficializzerebbe la normalizzazione dei rapporti tra i due paesi.

In quanto esperti di politica internazionale e ricercatori con forte esperienza sul campo in Egitto, esprimiamo i nostri profondi dubbi intellettuali, morali e politici sulle spiegazioni offerte dal governo italiano per il ritorno dell’ambasciatore al Cairo. Non crediamo che il ritorno dell’ambasciatore italiano – sia pure una figura autorevole come Cantini – possa contribuire a un cambiamento di atteggiamento da parte del governo egiziano per far luce sulla straziante vicenda di Giulio Regeni. La scelta di far rientrare il nostro rappresentante diplomatico, senza aver ottenuto una reale collaborazione nella ricerca della verità, non solo significa quasi sicuramente abbandonare le ultime speranze di fare giustizia per Giulio, ma tradisce anche una profonda incomprensione dell’efferato operato del regime egiziano. Inoltre essa mina il tentativo – supposto – di raggiungere obiettivi di stabilità e sicurezza per il nostro Paese.

La decisione del governo è altamente discutibile sia nei modi che nei contenuti. Nei contenuti, perché la ragione data dal Ministro Alfano per il ritorno dell’ambasciatore – l’opportunità di seguire e agire più da vicino la vicenda – è quanto meno poco credibile: la presenza al Cairo del precedente ambasciatore Massari, nonostante la sua esperienza sul campo, la sua credibilità e la sua dedizione, non è certo servita a ritrovare salvo Giulio né a fare chiarezza. Ma la decisione è anche molto discutibile nei modi, sia in quanto rilasciata a ferragosto, sperando evidentemente nella distrazione del pubblico, sia in quanto coincide con il quarto anniversario del massacro di Raba’a al-Adaweyya, in cui centinaia di oppositori alla destituzione del Presidente Morsi vennero massacrati in pieno centro al Cairo. In quel massacro – la strage più violenta nella storia moderna egiziana – vennero uccisi non solo Fratelli Musulmani, ma anche membri della società civile democratica e secolare.

Inoltre, la normalizzazione dei rapporti diplomatici in questo modo ed a queste condizioni è quasi impossibile che ottenga i risultati positivi che i suoi sostenitori pretendono di volere. Al contrario, a nostro avviso, si rischia di indebolire notevolmente la posizione dell’Italia sotto vari punti di vista:

Primo, la reputazione dell’Italia: Il rientro dell’ambasciatore manda un chiarissimo messaggio al popolo ed alla società civile egiziani, e cioè che l’Italia non è disposta a perseguire una seria politica di difesa dei suoi cittadini e dei loro diritti umani, né tantomeno di quelli degli egiziani. Questo inevitabilmente danneggia la reputazione sia dell’Italia che dell’Unione Europea, che si fregiano di essere difensori di diritti umani e valori democratici. Dall’Egitto la società civile segue con attenzione questa vicenda, ben consapevole che essa mette alla prova i princìpi, la coerenza e la credibilità della politica estera italiana.

Secondo, la sicurezza di cittadini e ricercatori italiani in Egitto, nonché della società civile egiziana: Se, come sembra, la scelta del governo segnala una resa nei confronti della vicenda di Giulio Regeni, essa mette direttamente in pericolo sia i ricercatori italiani, sia la comunità italiana in Egitto, che la società civile egiziana. Gli attivisti egiziani, ricordiamo, si sono prodigati e continuano ad esporsi in prima persona per cercare giustizia per Giulio. Quando Giulio venne ritrovato, in Egitto vigeva già una legge che vieta le manifestazioni – eppure, decine di giovani si raccolsero di fronte all’ambasciata italiana per una veglia in memoria di Giulio. Facendo questo, hanno rischiato l’arresto e gli abusi della polizia. Hanno scritto: “È morto come un egiziano”. La madre di Khaled Said, martoriato anche lui dalle forze dell’ordine anni prima, per aver cercato di denunciare poliziotti corrotti ed icona della rivoluzione del 2011, parlò di Giulio come fosse figlio anche suo. Il 25 gennaio di quest’anno – anniversario della scomparsa di Giulio, ma anche della rivoluzione egiziana del 2011 – la memoria di Giulio circolava nei network egiziani, attraverso i social media. Il portale di informazione indipendente, Mada Masr, ha dedicato diversi articoli coraggiosi a Giulio, esponendosi di nuovo a notevoli rischi. Ad una conferenza alla Camera dei Deputati il 3 Febbraio di quest’anno, anniversario del ritrovamento del corpo martoriato di Giulio, la giornalista egiziana Lina Attalah, caporedattrice e fondatrice di Mada Masr e alumna del Collegio del Mondo Unito di Duino, proprio come Giulio, ha affermato: “L’atrocità di questa morte è un grido per tutti noi. Ci urla in faccia, così come ci interpellava il senso di affinità che tutta la sua vita e la sua opera di ricercatore dimostravano a persone come me che si adoperano per i diritti dei detenuti in Egitto. In qualità di giornalisti avevamo il dovere di far luce su quanto era accaduto a Giulio, ma anche far luce su un contesto più ampio e sulle condizioni che hanno portato a questo esito.” Troviamo inaccettabile che tutte queste persone, che con noi e con Giulio condividono una visione del mondo, siano messe in pericolo dall’indifferenza del governo italiano e dell’Unione Europea.

Terzo, la Ragion di Stato: I sostenitori della decisione del governo asseriscono che, per quanto moralmente spiacevole, la vicenda di una singola persona non può avere priorità sugli interessi nazionali. Ma è importante sottolineare che l’interesse nazionale non viene servito da questa decisione, ne viene anzi danneggiato. Questa scelta a nostro avviso non raggiunge e non può raggiungere gli obiettivi di sicurezza posti dal governo e dall’Unione Europea. Come hanno dimostrato le rivoluzioni arabe del 2010-11, la sicurezza senza giustizia sociale e politica è inevitabilmente precaria ed instabile, e destinata a creare pericoli ancora maggiori. Anche la convinzione che il ritorno dell’ambasciatore possa consolidare la posizione geopolitica italiana – in Libia come nei rapporti commerciali con l’Egitto – pare dettata più da ottimistiche speranze che dalla realtà dei fatti. Al contrario, questa normalizzazione diplomatica assume le dimensioni di una controproducente ostinazione a compiacere il regime egiziano sulla base di erronee valutazioni del nostro interesse nazionale.

Quarto, il governo italiano vuole davvero ottenere la verità su Giulio Regeni?: Il dubbio che il governo abbia avuto da sempre poco interesse a premere sull’Egitto per fare luce sulla vicenda c’era sin dall’inizio: tranne il doveroso ritiro della delegazione commerciale che si trovava al Cairo quando venne ritrovato il corpo martoriato di Giulio, il governo si è mosso solo dopo il successo della campagna di mobilitazione della famiglia e della società civile. Lo Stato italiano ha sostanzialmente fatto due soli passi a sostegno della causa di Giulio: primo, sospendere temporaneamente le forniture di parti per gli F-16 egiziani, cosa fatta dal parlamento; e, secondo, ritirare l’ambasciatore, che fino all’annuncio di ieri rimaneva l’unica pressione esercitata dall’esecutivo. Il nostro Paese è il primo partner commerciale europeo dell’Egitto, eppure sanzioni economiche non sono state prese in considerazione. L’ENI è il maggiore produttore di idrocarburi in Libia, ed ha in concessione il grosso giacimento egiziano Zohr, eppure nemmeno questa leva è stata usata. Infine, nessun serio tentativo è stato fatto per portare la questione a livello europeo. I sostenitori della decisione del governo dicono che non avere un ambasciatore era diventata ormai una “pistola scarica” – ma è difficile non trarre la conclusione che il governo quella pistola non l’abbia mai caricata.

Il governo ci ha messi di fronte al fatto compiuto del ritorno dell’ambasciatore al Cairo, asserendo che questa azione fa parte di una strategia sincera per arrivare alla verità. Noi ci auguriamo che sia così, ma come tutte le forze che hanno sostenuto la ricerca di verità e giustizia per Giulio e la sua famiglia, ci riserviamo di osservare da vicino il comportamento del governo nei prossimi mesi. Ci aspettiamo, ad esempio che la presenza dell’ambasciatore ottenga una reale collaborazione dalle istituzioni egiziane. Ci aspettiamo concreti passi in avanti nelle indagini, quali l’invio delle registrazioni video delle stazioni della metropolitana della sera del 25 gennaio, i nomi degli agenti di sicurezza coinvolti nella sorveglianza di Giulio, e l’accesso diretto e rapido a tutti i testimoni che la procura di Roma riterrà opportuno ascoltare.

Stabilità e sicurezza non possono prescindere da verità e giustizia: fare luce sulla vicenda di Giulio non è solo un atto dovuto alla sua famiglia, ma anche una presa di responsabilità internazionale, che contribuirebbe a ripristinare la giustizia e lo stato di diritto in Egitto, aiutando quindi a stabilizzare il Mediterraneo. Del resto, l’ambasciatore Cantini, pur essendo stato nominato dal governo, ha il compito di rappresentare gli interessi del popolo sovrano.

Ci rammarica che tutte le indicazioni fino a questo punto siano andate in senso contrario, suscitando in noi pesanti dubbi. Sarebbe confortante essere smentiti.

In chiusura ricordiamo le parole del nostro collega. Nel 2006, quando aveva appena 19 anni, Giulio rilasciò un’intervista in cui, alla domanda: “Che cos’è la libertà?” rispose: “La possibilità di esprimere te stesso a livello intellettuale all’interno di un sistema sociale capace di supportarti nelle tue scelte”. Proprio questo obiettivo – che era poi l’obiettivo delle rivolte arabe – dovrebbe essere la priorità per il nostro Paese: libertà e giustizia sociale. Questi non soltanto ideali, ma sono anche obiettivi politici nel nostro interesse nazionale. Per questo ci aspettiamo che la richiesta di giustizia e verità per Giulio Regeni e la solidarietà alla sua famiglia si traducano in azioni concrete da parte del governo. A volte può essere vero che la ragion di stato e gli interessi nazionali siano contrari alle vicende dei singoli e della giustizia.

Questo però non è uno di quei casi.

Il 18 agosto 2017,
Roma, Berlino, Sydney, Aberdeen

Lucia Sorbera
Andrea Teti
Gennaro Gervasio
Enrico De Angelis