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giuseppe

Mafia che brucia in via Celoria. A Milano.

Scritto per Il Fatto Quotidiano

“Sulla piazza di Milano ci siamo noi a controllare i camion, ognuno ha la sua zona: abbiamo Città studi, corso Como, piazzale Lagosta e via Carlo Farini”. E ancora: “Lavoriamo con i calabresi, gente che sta scontando l’ergastolo, siamo in Comasina, comandiamo a Quarto Oggiaro. Il mio socio è Emanuele Flachi“. Sono le parole di “Pinone”, al secolo Giuseppe Amato, braccio armato della cosca Flachi organizzata dal boss Giuseppe Flachi (suo figlio Giuseppe è già stato condannato a 14 anni). L’inchiesta ‘Caposaldo’ cerca di svelare gli intrecci che stanno dietro al racket delle discoteche e dei venditori ambulanti. Un processo non facile: i testimoni che dovrebbero testimoniare parlano poco, quasi niente. In tribunale dichiarano di non ricordare, di non sapere.

Loreno Tetti è un “paninaro”. Ha un camioncino rosso parcheggiato davanti all’Università, via Celoria, Milano, Città Studi. Il camioncino è “la ditta”, dentro c’è tutto quello che serve per lavorare. E’ il suo lavoro, su quattro ruote e tutto dentro. Loreno Tetti è anche l’unico che ha dimostrato di avere buona memoria e buon coraggio: è stato l’unico a raccontare prima davanti agli uomini della Guardia di Finanza di Milano e poi in Tribunale cosa accadeva a quelli come lui che dovevano pagare i Flachi per potere stare lì, essere tranquilli, “mettersi a posto” come si dice in altre parti d’Italia. E anche qui. A Milano.

Ora il suo furgone è un relitto annerito sul marciapiede. Le fiamme se lo sono mangiato la notte che portava al 19 luglio. Il giorno delle parole spese per i vent’anni di cia D’amelio e Paolo Borsellino.

Forse hanno ragione quelli che si chiedono perché non ci sia stato ancora il tempo di organizzare un presidio almeno per alzare la voce, forse sarebbe il caso di stare vicini per davvero a quelli che denunciano. Soprattutto se sono soli a parlare, soli a testimoniare e poi alla fine bruciano pure, da soli.

«Sono disperato, questo è il prezzo per chi denuncia. Mi hanno lasciato solo», le parole di Tetti.

E la frase brucia più del camioncino.

Sono orfano e non so cosa dire sulla ‘ruota’ alla Mangiagalli

Questo dovrebbe essere uno di quegli articoli che uno li legge e pensa, wow, pensa da solo con il suo essere solo, wow, che bell’articolo. Pubblicato così tardi, quasi notte, perché si è sicuri che giri comunque. Virale nonostante l’orario. Insomma.

E’ che ci sono rimasto due giorni, due, duegiornidue, su questa storia di Mario, che hanno lasciato nella ruota degli orfani della Mangiagalli a Milano. Depositato come un figlio spurio in contrassegno. Una cosa del genere. E voi già pensate che questo articolo è un articolo irrispettoso e duro, sono sicuro, che lo pensate. Ma adesso ci arriviamo. E vedete.

Il bambino dentro la ruota nel Medioevo (ce lo insegnano i libri del Medioevo, quelli scritti di quegli anni lì, mica sappiamo se sono stati i servi dell’informazione dell’epoca e allora li riprendiamo subito per buoni) è una pratica che dobbiamo storicamente accettare. Ci dicono che bisogna “storicamente” accettare quando ci presentano un vassoio impresentabile ma con cent’anni di motivazioni dietro. Abitudini, mica valori. Ma cent’anni di valori. Mica noccioline.

E’ che mi chiedo come si possa raccontare una storia di un orfano lasciato sulla ruota degli orfani. Perchè poi anche i giornali ci hanno messo del loro e hanno affilato le penne. Scrive il Corriere che: L’ultimo gesto d’amore della mamma in difficoltà è un biberon di latte materno e qualche vestitino lasciati al suo fianco. Prima di abbandonarlo. Sono le sei e mezza del pomeriggio di ieri quando una donna, probabilmente europea, schiaccia il pulsante rosso della «Culla per la vita» della clinica Mangiagalli, la saracinesca si alza per chiudersi quindici secondi dopo, dentro rimane il neonato, un ciuffo di capelli scuri e una tutina azzurra.

Sotto c’è una canzone soul troppo ubriaca per essere musicalmente credibile. Troppo.

E ora, per essere pronti allo sprint sempiterno delle primarie in tutti questi penultimatum politici, bisognerebbe anche capire bene come declinarla questa cosa. Del bambino lasciato solo come si lasciano soli i bambini lasciati.

Trovare un senso per scrivere il pretesto di un ordine del giorno, una mozione o un progetto di legge se sei un geniale legislatore del marketing politico.

Invece è solo dolore. Inadeguatezza. Senza parole senza, senza nemmeno una parola da dire.

E’ che sono stato adottato. Incredibile, direte voi, adottato. Lui. Giulio Cavalli che combatte la mafia. Pure adottato. Scortato e adottato. Che tristezza buona per farci la fascetta di un libro. Urrà, dicono  distributori di malinconia da scaffale.

E un po’ mi stupisce (mica io, mi stupisco, anche se sarebbe una bella frase ad effetto), mi stupisce che sono stato adottato e credo che la legge 194 sia da conservare, custodire e difendere a mani giunte come si giungono le mani laiche pronte a immolarsi per una valore con religioso coraggio.

E non so proprio cosa dire su Mario lasciato nella ruota. Un silenzio con dentro tutto un mondo di bene. Mica solidale. Inadeguato come ci si sente inadeguati davanti all’amore che si ha paura di perdere e di solito è l’amore della vita.

Però almeno sulla storia di Mario ho deciso di scrivere e confessare questo pezzo del mito da sgretolare. Anche perché sono finito a chiedere l’amicizia su facebook a mio fratello Giuseppe che non sa nemmeno di essere mio fratello. Perché il cognome è diverso e mi ha scritto “chi sei?”, così mi ha scritto. E io non gli ho risposto mai. Mai.

Buona notte Mario. Domani ti sveglierai e capirai (un pezzo, non troppo, con parsimonia) che tutto è terribilmente complicato da essere troppo affascinante per lasciare perdere.

Anche senza sofismi e conclusioni come quelle che ci si aspetterebbe da un aspirante statista.

Radio Mafiopoli 18 – Cani boss e boss cani

Tanto va il mafiuso al lardo che ci lascia lo zampino. A Mafiopoli ti giri un secondo e casca il mondo, casca la terra e tutti giù per terra. Settimana di boss che sparano ai cani, di onorevoli pizzi squartariati e soprattutto di boss cani. Ma andiamo con ordine:

A Partinico-Borgetto, provincia di Mafiopoli, zampettava e saltellava felice il Salto Nicolò con Antonio e Alessandro. I Salto a Mafiopoli sono famiglia ballerina, come si evince dal cognome. Nicolò Salto è l’Higlander della provincia, come se fosse il Cristopher Lambert di Cosa Nostra, come se fosse l’uomo tutto buchi, come se fosse Antani: colpito in pieno centro da quattro spari appena uscito dalla villeggiatura carceraria non morì morto sparato come gli umani ma resuscitò senza nemmeno aspettare il terzo giorno.

– Come avrà fatto? (chiedono i benigni) Avrà usato preghiere particolari? Avrà comprato medicinali speciali?
Eh sì, insieme ai Salto saltano i fratelli Bacarella ( dal nome del baco in testa e la strizza nelle mutande), La Puma e Musso, che di nome fa pure Santo, Francesco e Giuseppe D’Amico (degli amici), e poi Nania, Brugnano il boss Giambrone e per finire in bellezza Salvatore Corrao; che almeno, dicono i Mafiopoli, almeno per finirci con la rima a Pietro Rao. Evviva, evviva, bum bum. Mafiopolitani doc che per esercitare la pistola e il neurone giocavano a guardie e ladri con i loro simili e tutti contenti sparavano ai cani. Cani che sparano ai cani, come nei cartoni giapponesi ma alla mafiopolitana. E tutti intorno all’inchino per rispetto e amore per i boss cani che sparano ai cani boss. Con la rima pure qui.
Pizzo felice anche dalle zone di Caltanissetta, dove spadroneggiano i madonnari dei Madonìa felici e contenti come cani non sparati. Qualcuno sussurra che il presidente della Provincia che di nome e di cognome mica per niente fa’ Giuseppe e Federico tanto per mischiare le carte. A fare il tramite Gaetano  che di cognome è Palermo anche se sta dalle parti di Caltanisetta, tanto per mischiare le carte. A Gaetano è apparsa a parlare di politica la Madonìa, precisamente la Madonia Maria Stella e Cometa di soprannome. E così giù a Mafiopoli spopolano le epifanie, al sud e al nord, per i voti di scambio e per gli altri Palermo più lontani che anche lombardi e in trasferta giocano alle apparizioni. Tutto il gioco giocato dal grande capo “Piddu” che il 41 bis gli fa’ un baffo.
E poi la chiusa della settimana con Maria Concetta Riina figlia di Totò che chiude in posa di annunciatrice dell’annunciazione televisiva. Ci dice che Totò e buono, che Totò è generoso, che Totò è alto, che Totò è bello, che Totò è azzurro e che non trova lavoro. E le brillano gli occhi a saperlo rinchiuso.
– Almeno lui da vivo e non dentro il legno. Dicono i maligni…
Ma Concetta non ascolta, Concetta si esibisce, parla fiera di suo padre che non parla.
– Almeno lui da vivo e non dentro il legno. Dicono i maligni…
Ma Concetta non ascolta, Concetta si esibisce, parla fiera di com’è difficile vivere scappando.
E la dignità fa’ un inchino, tira la corda e se ne va. Alla televisiva.