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giustizia

La vendetta fai da te non porta mai alla giustizia


A Rozzano un uomo si vendica del nonno che probabilmente aveva abusato della figlia. Ma la tentazione della legge del taglione è pericolosissima per la tenuta do uno Stato democratico e caderci diventa molto, troppo pericoloso, soprattutto di questi tempi. Per questo la Giustizia (che non può certo seguire i tempi della rabbia) deve essere l’ancora. Per tutti.
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La giustizia, applicata alla famiglia Ciontoli

Non so se avete avuto modo di seguire il caso della morte di Marco Vannini. Marco il 18 maggio del 2015 faceva il bagnino e a fine turno raggiunge la sua fidanzata, Martina Ciontoli nella sua villa in cui cena con il padre Antonio e la madre Maria Pezzillo, il fratello di Martina e la sua fidanzata Viola Giorgini.

Marco conclude la cena e va a fare un bagno in vasca. Antonio Ciontoli fa l’eroe, prende la sua pisola Beretta calibro 9 e inavvertitamente (per quanto possa inavvertitamente usare un’arma un militare, maresciallo della Marina, siamo alle solite) e spara. Spara per fare il figo. Una cosa così.

Ma non è finita. Vannini si ferisce sotto la spalla destra, il proiettile trapassa il cuore, un polmone. Uno sparo del genere produce 130 decibel. 130 decibel sono di un martello pneumatico. «E’ stato un colpo d’aria», ha detto Ciontoli. Eh, già.

Ma non è finita qui. Federico Ciontoli chiama il 118, ma solo alle 23.40.  Dice: “C’è un ragazzo che si è sentito male probabilmente per uno scherzo, di botto è diventato troppo bianco e non respira più…”. Farfuglia e infine ammette che l’ambulanza non serve, la telefonata si interrompe. Qualcuno della famiglia Ciontoli gli ha detto di troncare la comunicazione, Marco è ancora vivo. A decidere di chiamare nuovamente l’ambulanza, per la seconda volta, è Antonio Ciontoli. Lo fa però senza rivelare che in quella casa c’è un ragazzo con una pallottola entrata dalla spalla e fuoriuscita dal fianco, parlando invece di un buchino generato dalla caduta su un pettine.

“Quando gli operatori del 118 arrivano nella villetta dei Ciontoli – si legge nelle cronache – trovano un ventenne agonizzante, lo portano d’urgenza all’ospedale ma non c’è nulla da fare, nemmeno quando Marco viene trasportato in elicottero al Gemelli, dove viene dichiarato morto. Inizia da lì la vicenda giudiziaria conclusasi ieri”.

Ieri è stata emessa la sentenza: 5 anni di condanna.

Le condanne non si contestano ma si possono commentare. Ancora, per fortuna. E un ragazzo morto per gioco e morto poi ancora per non allertare in tempo i soccorsi sarebbe qualcosa su cui riflettere. Forse. Discuterne.

Buon giovedì.

 

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2019/01/31/la-giustizia-applicata-alla-famiglia-ciontoli/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La giustizia, applicata alla famiglia Ciontoli

Le condanne non is contestano ma si possono commentare. Ancora, per fortuna. E un ragazzo morto per gioco e morto poi ancora per non allertare in tempo i soccorsi sarebbe qualcosa su cui riflettere. Forse. Discuterne.

L’uomo forte è un vigliacco che smercia vendetta chiamandola giustizia

L’uomo forte è un vigliacco. Lo chiamano forte ma semplicemente è incapace di brillare secondo le regole e allora finge di poterle forzare o scavalcare per dare sensazione di grandezza. Succede così anche ai ragazzini che giocano a pallone in cortile: chi non sa stare secondo al gioco prova a rendere possibile la prepotenza per riuscire a stare a galla. E invece è un incapace. Il più incapace, anche se piace a quasi tutti. Segna solo quando riesce a svuotare il campo dagli avversari.

L’uomo forte è un truffa. Finge di proteggervi ma ha bisogno solo del vostro consenso. Si vende al migliore offerente e la Storia ci insegna che quelli che pagano bene sono altri, mica il popolo. L’uomo forte non protegge nessuno, combatte la sua battaglia contro i nemici immaginari, inventati per funzionare negli intestini di chi è disposto a farsi circuire dalla paura per giustificare la propria disperazione. L’uomo forte non risolve i problemi, è capace solo di immaginarne di più neri e più terribili in arrivo e così ci convince a non pensare alle nostre disperazioni: noi restiamo disperati ma lui ci insegna che è maleducato ricordarglielo. Disfattisti: l’uomo forte i lucidi li chiama così.

L’uomo forte è una pestilenza: rompe gli argini di ciò che è lecito in cambio della promessa di un’indefinita protezione e intanto sfrutta la cedevolezza delle regole per curare i propri affari, per brogliare i propri impicci. L’uomo forte ci piace perché siamo deboli, esausti, pessimisti e ci convince che possano saltare le regole del gioco per tornare in gioco dimenticandosi che senza regole alla fine il gioco è lui. Solo lui.

Ma l’uomo forte finisce sempre male. Con un tonfo. Forte. Basta solo che succeda che i suoi seguaci si accorgano di assomigliare ai falsi nemici nelle fragilità, nelle privazioni, nella contrizione dei diritti. Di solito accade quando la vendetta (che l’uomo forte chiama “giustizia”) tocca qualcuno che ci è vicino, che è simile a noi. Allora l’uomo forte cade. I suoi scherani lo rinnegano. I suoi elettori lo ripudiano. E si ricomincia, di nuovo.

Solo le leggi e le regole contengono questi mostri. Le leggi e le regole. E la capacità di vederci molto più uguali di quello che raccontano.

Buon giovedì.

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Ed è un’eclissi di giustizia, seppur dolorosa, bellissima

Mercoledì 13 durante l’udienza per il processo sulla morte di Fabiano Antoniani, Dj Fabo, sono scese lacrime non solo alla madre e alla fidanzato di Fabiano: ha pianto la pm Tiziana Siciliano, ha pianto Giulio Golia (che dj Fabo l’ha intervistato per la trasmissione Le Iene), hanno pianto i giudici popolari e hanno pianto tra il pubblico.

Marco Cappato, lucido come si è lucidi quando si sa di combattere una battaglia giusta, addirittura doverosa, ha ripetuto per l’ennesima volta che e persone “sottoposte a sofferenze terribili con malattie irreversibili hanno il diritto di scegliere come morire, è un diritto umano fondamentale” e quindi “era un dovere aiutare Fabiano, sono responsabile di averlo aiutato”.

Quelle lacrime sono un quadro. Dipingono l’incaglio in cui sbatte la faccia una legge ingiusta (e una legge che manca) che vorrebbe occuparsi della manutenzione degli affetti e delle vite degli altri, infilando le unghie in quelle parti di cuore così teneramente personale da appartenere a un amorevole cerchia ristretta di persone che, solo loro, hanno il vocabolario giusto per leggere il dolore di qualcuno.

Racconteremo ai nostri figli che a Milano si è celebrato (è successo e succederà ancora) un processo che ha anticipato i tempi perché i tempi, nel frattempo, avevano perso la strada giusta. Quelle lacrime sono le infiltrazione di un argine che ormai non tiene più e chiede con forza una legge sul biotestamento che forse sta arrivando davvero.

Ed è un’eclissi di giustizia, seppur dolorosa, bellissima.

Buon giovedì.

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Fondi Expo Giustizia: ora ci sono le mail che inchiodano il Comune di Milano

Ne scrive Manuela D’Alessandro:

Eccole le decine di mail acquisite dalla Guardia di Finanza a Palazzo Marino che dimostrano le irregolarità nella gestione di almeno 10 milioni di fondi Expo per la giustizia. Sono quelle a  cui fa riferimento l’Anac nel provvedimento notificato venerdì scorso al Comune e al Dgsia, la struttura per gli appalti informatici del Ministero della Giustizia.

Al punto 6 di un lungo e dettagliato elenco di appalti sospetti, si spiega il ruolo avuto dal ‘Gruppo di Lavoro per l’Infrastrutturazione informatica degli Uffici di Milano’, di cui facevano parte rappresenti del Comune, il Minisitero della Giustizia e i vertici degli uffici giudiziari.  L’analisi della corrispondenza elettronica interna a questo Gruppo svela che, con circa tre mesi di anticipo rispetto alla delibera di Giunta sulla prima tranche di finanziamenti (nel settembre 2010), i giochi erano già fatti. Cioé  i partecipanti al tavolo, ciascuno in base alle proprie competenze, avevano già deciso di affidare il ‘tesoro’ di Expo senza gare pubbliche alle società Elsag Datamat e Net Service. A loro vennero garantiti ricchi contratti molto prima di capire di cosa avessero bisogno gli uffici giudiziari. E dopo, solo dopo, si trovarono le motivazioni per affidare questi lavori  alle due società, poi fuse in una sola, e in orbita Finmeccanica.

Su 72 procedimenti analizzati, sono 25 quelli che Anac considera viziati. Dei 16 milioni spesi tra il 2010 e il 2015, sono stati messi a gara solo poco meno di 6 milioni. Il resto sarebbe stato distribuito con affidamenti diretti immotivati, in nome dell’unicità del fornitore, della continuità con gli appalti precedenti e della sicurezza. Una parte della relazione di Anac riguarda anche la segnaletica interna al Palazzo e il simbolo di questa storia, i monitor appesi ovunque e mai entrati in funzione. Oltre che il ruolo della Camera di Commercio, beneficiari di lavori delicati come il restyling del sito del Tribunale, senza apparenti valide ragioni.  L’Anac chiama in causa le amministrazioni guidate da Letizia Moratti e da Giuliano Pisapia, mentre sull’accertamento delle responsabilità dei magistrati dovrebbe intervenire la Procura la cui inchiesta, aperta contro ignoti, per ora non da’ segni evidenti di vita.

(fonte)

Così marcisce Serracchiani

Il buongiorno di oggi è un pessimo giorno. Debora Serracchiani (ve lo ricordate?) era quella che avrebbe dovuto ringiovanire il Pd, tempo addietro, con spirito fresco e nuovo. Ha raccolto migliaia di preferenze, stupendo tutti (chissà perché il “nuovo” è di per sé un valore, ma questo è un discorso lungo) e ci si aspettava che potesse davvero svecchiare le più vecchie liturgie. E invece no. Anzi: e invece peggio.

Ha cambiato davvero il corso del Pd, ma verso il dirupo della destra mascherata. Basta leggere le sue parole. Ecco qui. Comunicato stampa di ieri (è qui):

Udine, 10 maggio – “La violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese”.

Lo ha affermato la presidente del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani, commentando il tentativo di stupro subìto da una minorenne ieri sera a Trieste da parte di un cittadino iracheno richiedente asilo.

Per Serracchiani “in casi come questi riesco a capire il senso di rigetto che si può provare verso individui che commettono crimini così sordidi. Sono convinta che l’obbligo dell’accoglienza umanitaria non possa essere disgiunto da un altrettanto obbligatorio senso di giustizia, da esercitare contro chi rompe un patto di accoglienza. Per quanto mi riguarda, gesti come questo devono prevedere l’espulsione dal nostro Paese, ovviamente dopo assolta la pena. Se c’è un problema di legislazione carente in merito – ha aggiunto Serracchiani – bisogna rimediare”.

 

(continua su Left)

Chi va in carcere? Piccoli spacciatori sì, colletti bianchi no.

(un interessante Antonio Stella per il Corriere della Sera)

Un popolo di santi, poeti e spacciatori. Ecco l’immagine che esce dall’ultimo dossier sulla popolazione carceraria europea pubblicato ieri. Dove forse è in dubbio l’amata sopravvivenza storica dei santi e dei poeti ma sui pusher non c’è partita: nessuno ne ha tanti in galera quanti noi. Sono il 31% dei detenuti. Peccato che tanta (giusta) severità non venga applicata nei confronti di altre categorie.

A partire dai «colletti bianchi» che violano le regole della buona economia. Ne abbiamo in galera un quinto rispetto all’ Europa, un ventesimo rispetto alla Germania. Una sproporzione che la dice lunga sulle priorità della nostra giustizia. Capiamoci: se ‘ndrangheta, mafia e camorra dominano larga parte del business continentale (nel solo porto di Gioia Tauro, scrive linkiesta.it, sono stati sequestrati nel 2016 ben 1700 chili di coca: e gli inquirenti pensano si tratti di un decimo di quanto passa) è ovvio che la lotta al narcotraffico deve essere una priorità assoluta.

Ovvio. I numeri di «Space I – Prison Populations», il rapporto annuale del Consiglio europeo sulle statistiche giudiziarie, curato da Marcelo F. Aebi, Mélanie M.Tiago e Christine Burkhardt dell’ Università di Losanna, mostrano però che su alcuni temi la nostra giustizia, per usare un eufemismo, è distratta.

 

Prima, qualche curiosità. Per cominciare, nel 2015 l’ Europa allargata (compresi l’Armenia, l’Azerbaijan, la Russia, la Turchia, la Macedonia e altri ancora) aveva 1.404.398 detenuti. Cioè circa 800 mila in meno dei soli Stati Uniti, dove vive meno di un ventesimo della popolazione mondiale ma un quarto dei carcerati del pianeta. E dove, come ricordava tempo fa il sito web poliziapenitenziaria.it, sono in galera un bianco su 214, un ispanico su 88, un nero su 35. Al punto che, stando a Barack Obama, un bambino nero su nove ha il padre in prigione. Cifre che danno da pensare sull’ uso dei due pesi e delle due misure.

In Europa sono in carcere 115,7 cittadini su 100.000 abitanti, per il 94,8 % maschi, ospitati in penitenziari per un terzo (33%) sovraffollati. Trattamenti diversissimi, e non solo per il costo del lavoro degli agenti di custodia (in media uno ogni tre carcerati ) e del personale. Basti dire che per la sorveglianza, il vitto, l’ alloggio, le spese varie eccetera eccetera il peso di un detenuto sul bilancio è in media di 52 euro e 36 centesimi al giorno.

Ma c’ è chi spende moltissimo pagando 354 euro come in Svezia o addirittura quasi 481 come a San Marino (quanto un hotel sei stelle deluxe con trattamento principesco), chi molto (129 euro in Germania, 141 in Italia, 273 in Olanda…) chi poco o pochissimo: 22 euro in Turchia, quasi 20 in Romania, 19 euro in Serbia, poco meno di 10 in Macedonia… Fino al record in Georgia: cinque euro e 66 centesimi.

Segno che i custodi non devono essere pagati benissimo ma soprattutto che i pasti ai detenuti non vengono serviti da master chef. La (scarsa) relazione tra la spesa e il tasso di suicidi Eppure, a guardar dentro a questi dati, c’ è qualcosa che colpisce ancora di più: la scarsa relazione tra la spesa giornaliera per ogni carcerato e il tasso di suicidi. Che ad esempio resta relativamente basso (4,7 ogni 10.000 detenuti) in Spagna dove la «retta» onnicomprensiva costa allo Stato meno di 60 euro e s’ impenna a 11,9 in Svezia dove la «retta» costa sei volte di più: 354. Sia come sia, il tasso di suicidi si conferma spaventoso: uno ogni quattro morti per cause naturali. E una volta su quattro chi si uccide è in attesa di giudizio.

Quanto ai reati, i numeri sono abissalmente differenti da Paese a Paese. I condannati per omicidio o tentato omicidio, ad esempio, sono il 9,2% in Portogallo, il 12,1% in Svizzera, il 13,6% in Irlanda, il 19% in Italia, il 24,2% in Finlandia, il 26,4% in Lituania e addirittura il 39,4% in Albania. Stereotipi più o meno confermati. Ma smentiti su altri fronti. Come quello dei ladri. I Paesi che ne hanno di più in carcere sono nell’ ordine la Bulgaria (44,4% della popolazione in cella), l’ Austria (31%), la Georgia (29%) e giù giù la Turchia, l’ Ungheria, il Liechtenstein… E l’ Italia? Nei primi venti non c’ è. Perché i nostri vengono presi di rado o perché ce ne sono meno di quanti siano percepiti? Boh…

La percezione sulla presenza di stranieri nei penitenziari Certo la percezione è sbagliata sul fronte degli stranieri. Dicono i sondaggi Ipsos di Nando Pagnoncelli che gli italiani pensano che gli immigrati in Italia siano il 30% (nella realtà tra il 7 e l’ 8%) e gli islamici il 20%, quando non arrivano al 4%. Lo stesso vale per le carceri. Dove gli immigrati non sono la maggioranza come molti pensano ma il 33%. Percentuale altissima, sia chiaro, rispetto alla quota di popolazione.

Ma dovuta anche all’ impossibilità per chi non ha una casa di godere di pene alternative e comunque inferiore a quella registrata in altri Paesi: 38% dei detenuti a Cipro, 40% in Belgio, 44% in Catalogna, 53% in Austria, 54% in Grecia, 71% in Svizzera e su su fino alle stratosferiche (e un po’ irreali) percentuali dei Paesi piccolissimi sui quali svetta San Marino: 100% dei reclusi stranieri. Non un sanmarinese. Manco per sbaglio.

Da notare la Germania di Angela Merkel: è il Paese che ha assorbito più immigrati di tutti (il doppio dell’ Italia) ma nelle carceri è messo meglio di noi. Prova provata che dipende da «come» il problema è gestito. Ancor più umiliante però, lo dicevamo, è lo spread con la Germania sul versante della guerra a chi infrange le norme che regolano l’ economia. Per ogni spacciatore in carcere (6820), a Berlino e dintorni, c’ è quasi un «colletto bianco» (5973, cioè l’ 11,7% del totale) condannato con sentenza definitiva per reati economici, finanziari, truffe fiscali…

Da noi no: nonostante i disastri causati dalla pirateria economica, finanziaria, fiscale, i delinquenti di quel tipo finiscono assai di rado in galera: ne abbiamo 312, pari allo 0,9% dei nostri «ingabbiati». Il 5,2% rispetto alla Germania. Neppure il 3% rispetto agli spacciatori che teniamo in cella. I cattivi maestri che per anni hanno teorizzato che una certa dose di illegalità fa bene all’ economia hanno lasciato rovine. Non solo morali.

Dubitate. Sempre.

Piergiorgio-Morosini

Ci sono aspetti, come al solito che vanno valutati nella loro completezza. Forse è davvero il tempo di tenere allenato il dubbio. Ne scrive Mantellini nel suo blog:

«Il folklore ce lo togliamo dai piedi subito: immagino che nessun giudice del CSM arderebbe dalla voglia di salutare una giovane giornalista italiana se questa non fosse una signora ben nota nei salotti romani per essere la fidanzata di Chicco Testa (in odore – speriamo di no – di diventare Ministro) nonché autrice del libro dal titolo panegirico “Siamo tutte puttane“.

La faccenda giornalistica invece è assai pià complicata. Non mi interessa troppo nessune delle due questioni di cui si è discusso nei giorni scorsi vale a dire il titolo truffaldino dell’articolo (una frase contro Renzi attribuita a Morosini che poi nell’articolo non c’è) e nemmeno il fatto che l’intervista fosse o non fosse esplicita e le parole (che il magistrato ha smentito) correttamente riportate. Il giornalismo italiano è pieno di titoli con falsi virgolettati per uccellare i gonzi e di chiacchierate off the records poi finite sui giornali in formati allusivi così da farle assomigliare ad interviste vere e proprie. È cattivo giornalismo, lo conosciamo, purtroppo non riguarda solo Il Foglio.

No, il punto rilevante è secondo me la biografia della Chirico. Che nel 2012 (alla bella età di 26 anni) ha pubblicato il libro “Condannati preventivi” con prefazione di Vittorio Feltri e che soprattutto è da poche settimane presidentessa della neonata Associazione “Fino a prova contraria” (qui una intervista alla presidentessa sul magazine ciellino Tempi) il cui scopo è quello di dare all’Italia “una giustizia giusta”.

Cerco di rimanere a debita distanza da tutte le ironie che sarebbero possibili in un caso del genere (per esempio da quella che riguarda i livelli occupazionali medi dei giovani giornalisti) per dire che Il Foglio, nella lunga (e verbosissima) inchiesta sulla magistratura che ha affidato alla Chirico, nelle polemiche di ieri e nemmeno nella replica del suo direttore ha ritenuto di informare i suoi lettori dell’evidente conflitto di interesse fra il cronista ed i temi che tratta.»

(continua qui)