Vai al contenuto

giustizia

“i giudici devono fare le sentenze, ma le leggi le fa il Parlamento”

Chiudete gli occhi e pensate a quante volte avete sentito negli ultimi vent’anni questa frase. Tanto che ci siete pensate anche a quante volte si è pensato all’organizzazione di un grande evento per rilanciare (o meglio: distrarre) una città dopo un terremoto (fosse anche giudiziario). Bene ora siete pronti per leggere l’intervista del premier Renzi al Messaggero:

“Roma deve ripartire”. Matteo Renzi, intervistato da Il Messaggero, non ci sta a subire l’attacco dell’Anm sulle norme anti-corruzione e contrattacca, ricordando che “i giudici devono fare le sentenze, ma le leggi le fa il Parlamento”. Ma assicura “durezza senza fine” contro i responsabili di Mafia Capitale, perché “chi lucra sui poveracci mi fa schifo”.

ROMA E LA MAFIA. “Roma non è corruzione. Roma è meno che mai la mafia. Roma, insisto, deve ripartire” dice il premier. Quanto all’amministrazione capitolina, “Marino deve fare il sindaco. I romani gli hanno chiesto proprio questo: tenere pulita la città, sistemare le buche, efficientare la macchina, far funzionare le scuole con le mense e i servizi, disciplinare il traffico, investire in cultura e tutto quello che deve fare un buon sindaco”. Tuttavia “al Campidoglio sono comprensibilmente scossi per quanto è accaduto. Ma mi verrebbe da dir loro, in romanesco: ahò, dateve ‘na mossa, non state fermi là. Roma deve ripartire. Com’era lo slogan di Marino in campagna elettorale? Daje! Appunto”. Renzi ricorda che il Pd ha saputo reagire: “Il Pd ha fatto una scelta semplice: commissariare per dire che noi non abbiamo paura di niente e di nessuno. Se qualcuno dei nostri ha sbagliato è giusto che paghi tutto, fino all’ultimo centesimo, fino all’ultimo giorno. Gli sconti si fanno al supermercato, non in politica. Detto questo, siccome noi siamo garantisti, chiediamo, anzi pretendiamo, che si corra, il più veloce possibile, verso i processi e le sentenze”.

ANM E IL DDL ANTI-CORRUZIONE. “Provo il massimo rispetto per i magistrati quando giudicano e fanno le sentenze. Ma preferisco i magistrati che parlano con indagini e sentenze a quelli che parlano con comunicati stampa. Un magistrato deve scrivere le sentenze, le leggi le fa il Parlamento” afferma Matteo Renzi, secondo cui “gli strumenti per combattere la corruzione ci sono. Li abbiamo aumentati”.

ROMA E LE OLIMPIADI. “Io non lascio Roma a quelli che rubano. E le Olimpiadi sono una grande occasione” prosegue il premier, “un progetto a lunga scadenza, perché il Paese torni a progettare, a pensare al futuro, a discutere, riflettere, sognare. Ma in modo concreto. E con tutti i controlli del caso. Saremo inflessibili. Ma non possiamo rinunciare a un sogno solo perché qualcuno vorrebbe rubare anche quello”.

QUIRINALE. “Il patto del Nazareno è stato siglato un anno fa, quando le dimissioni di Napolitano non erano in agenda. Questo è il motivo per cui non c’è nessun patto preventivo tra Pd e Fi” sull’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Matteo Renzi auspica che “nella maggioranza ampia che dovrà eleggere il nuovo garante dell’unità nazionale ci siano più partiti possibili”. Anche Berlusconi, che d’altronde “è stato decisivo nel votare Ciampi nel 1999 e Napolitano nel 2013”. Per questo “al momento opportuno ci incontreremo”. “Spero”, dice ancora Renzi, che gli esponenti del Movimento 5 Stelle “non rimangano anche stavolta alla finestra”. Nessun nome, perché “oggi chi fa nomi li vuole solo bruciare”. Come Nichi Vendola, che spinge per Romano Prodi: “Si ricordi di quando nel ’98 mandò a casa il prof, ormai fa il gioco di M5S e Lega”. Renzi fa notare che “Sel fa ostruzionismo su tutto, seguendo i grillini e la Lega di Salvini e Calderoli. Ma davvero non vogliono provare a uscire da questa logica di scontro frontale? E dire che gli abbiamo anche mandato un bel segnale con l’abbassamento della soglia per la legge elettorale. Ma sembrano sordi al dialogo”.

La cor­ru­zione in Ita­lia è così dif­fusa che è pra­ti­ca­mente impos­si­bile cer­care di porvi rime­dio per via giu­di­zia­ria

No, secondo me è un pro­blema di cul­tura. Se si trat­tasse sol­tanto di leggi, quelle che puni­scono la cor­ru­zione ci sono. Non sono per­fette, ci man­cano una sacco di cose ma ci sono. Credo invece che sia pro­prio un pro­blema di cul­tura, di modo di pen­sare. La cor­ru­zione in Ita­lia è così dif­fusa che è pra­ti­ca­mente impos­si­bile cer­care di porvi rime­dio per via giu­di­zia­ria, occorre inter­ve­nire attra­verso sti­moli edu­ca­tivi. Leggi più severe non ser­vono. Vede le leggi c’è il pre­cetto, che dice cosa è vie­tato, distin­gue quello che è lecito da quello che è ille­cito. Ora que­sta parte cer­ta­mente è uti­lis­sima, però non serve a mio parere per­ché com­porta gene­ral­mente solo il car­cere, che invece di aiu­tare a mar­gi­na­liz­zare la devianza alla fine la faci­lita. Se noi usiamo la san­zione per ren­dere vero il pre­cetto, va a finire che ci mor­diamo la coda.

Un’intervista a Gherardo Colombo che vale la pena leggere.

La fiducia, Bernardo Provenzano e l’utilizzo della sua famiglia

A proposito di “studio”, approfondimenti e tutte quelle altre cose che converrebbero ad un’attività terribilmente presa sul serio, è uscito un articolo di Patrick Illinger per sueddeutsche.de sulla ‘forma mentis’ mafiosa.

Per 30 anni, un certo Bernardo Provenzano, più conosciuto dalla gente del posto come “u tratturi” – il trattore – , ha vissuto lontano dalla vita pubblica. Ma nel 1992, è successo qualcosa di sorprendente. La famiglia del mafioso siciliano, successivamente divenuto capo di Cosa Nostra, è uscita dalla clandestinità trasferendosi, sotto gli occhi di tutti, nella città natale di Provenzano, Corleone, dove ha iniziato una vita apparentemente normale. Che cosa era accaduto? I familiari di Provenzano avevano rinunciato a tutti i legami con la mafia, per godere finalmente di una pacifica esistenza? O la famiglia ha perso la testa consegnandosi completamente indifesa nelle mani dei clan rivali?

Né l’uno né l’altro, dice il sociologo italiano Diego Gambetta, che da anni studia le relazioni tra i criminali. Secondo lui la famiglia di Provenzano è servita come una sorta di garanzia: ecco qui, amici mafiosi, Bernie il trattore non vi tradirà. A garanzia avete la famiglia, dato che ora sapete dove vive. Secondo Gambetta questa mossa per creare fiducia fu tanto infida quanto efficace. La fiducia tra menti criminali, un argomento complesso sul quale Gambetta, attualmente ricercatore universitario a Oxford, ha riferito lunedì sera alla Fondazione Carl Friedrich von Siemens di Monaco di Baviera. Con fascino italiano e humor britannico Gambetta ha guidato il pubblico in un viaggio attraverso la sociologia del crimine. L’argomento è stato già affrontato da Socrate secondo cui, anche in una banda di rapinatori e ladri, ci deve essere una sorta di giustizia che tenga uniti i membri nello svolgimento delle attività comuni. “Come fanno i criminali a fidarsi gli uni degli altri, quali strategie adottano?” chiede Gambetta. Dopo tutto, si tratta di un bene non tangibile, soprattutto se coloro che sono coinvolti sono criminali e non è possibile rivolgersi alla polizia per risolvere le proprie controversie. La risposta ci conduce innanzitutto nell’ambito della materia del comportamento in cui gli scienziati sondano quei meccanismi che provocano la collaborazione, quel fenomeno per il quale le persone rinunciano a vantaggi nell’immediato per conseguire, per mezzo di un agire comune, un  beneficio finale maggiore. In molti esperimenti di laboratorio è stato dimostrato che questo è difficile persino tra persone normali.

Ma senza cooperazione, che si basa di nuovo sulla fiducia, non può funzionare nemmeno nel mondo della malavita, pensa Gambetta: i trafficanti di droga hanno bisogno di produttori e acquirenti, i ladri hanno bisogno di ricettatori, e persino i terroristi hanno bisogno di una rete di conoscenze. Si può imporre con la violenza o con le intimidazioni, come si è visto in innumerevoli film di gangster. Qui la sociologia del crimine diventa una sorta di meccanica newtoniana: una pressione produce una controspinta, una specie di equilibrio del terrore. Ma se la violenza è legata a costi e spese, anche il rischio di un’escalation di vendette è grande, come dimostrato in maniera grottesca nelle guerre per la droga che avvengono in Messico. Pertanto i criminali di successo preferiscono, a meno che non si tratti di psicopatici, meccanismi più efficaci. Così nel parallelogramma delle forze della sociologia del crimine gli ostaggi hanno un ruolo, proprio come nel tardo Medioevo, in cui erano in cui erano addittura usati come oggetto di scambio tra Stati. Se la collaborazione tra i cartelli colombiani della droga e la mafia dovesse consolidarsi intere famiglie emigrerebbero dall’Italia a Medellin, afferma Gambetta. In generale, la frequenza dei conflitti violenti fra i criminali viene sopravvalutata, avverte: in Sicilia, il tasso complessivo di omicidi è inferiore rispetto a molte altre regioni. Il successo della mafia siciliana risiede tra l’altro nella sua  capacità di agire come una sorta di protogoverno che vigila sulle trasgressioni nel rapporto di fiducia, punendole.

Gambetta è in grado di riferire fatti sorprendenti sulla mentalità dei mafiosi avendo egli stesso condotto ricerche per un anno in Palermo. Molti boss sono apparentemente persone modeste, che vanno in giro vestite come contadini col vestito della domenica, consapevoli dei propri limiti di conoscenze, ad esempio in termini di moderna economia aziendale. Anche le biforcazioni nelle attività, conseguenza ad esempio di appalti pubblici pilotati,  sarebbero meno elevate di quel che spesso si ritiene, normalmente dal 3 al 5 per cento del totale delle commesse. Ma nel momento in cui vedono messo in forse il loro potenziale di minaccia, lorsignori non stanno più allo scherzo. Gambetta racconta di un collega canadese al quale furono messi in macchina gli abiti freschi di lavanderia con su un biglietto che riportava la scritta “buon viaggio”. Un messaggio del tutto inequivocabile. Talvolta scaturiscono forme stabili di cooperazione criminale, anche come sistema che si autoprotegge. Questo è in particolare il caso di opportunità di mercato a lungo termine in cui a tutti i complici è chiaro che anche una sola deroga alla consuetudine significherebbe la disgregazione dell’intero modello affaristico. E così in Bangladesh esiste, racconta Gambetta, una rete di 10.000 ladri e scassinatori i cui informatori  partecipano ai saccheggi percependo laute percentuali.

Soggiorno in carcere come referenze

Una lotteria illegale organizzata dalla Camorra è strutturata allo stesso modo: le vincite sono pagate puntualmente per preservare la buona reputazione. Una mentalità simile è riscontrabile anche in ambienti accademici, avverte Gambetta: è prassi consolidata nelle Università italiane che i docenti promuovano gli studenti di altri professori con la legittima aspettativa che i propri studenti vengano trattati allo stesso modo dai propri colleghi. Questo permanente sistema di  continui favori reciproci viene mantenuto in essere anche dai docenti che li sostituiranno. Ma questo tipo di cooperazione poggia su un terreno molto friabile. Se una delle persone coinvolte mette un piede in fallo, le figure che operano nel campo penale devono guardare dall’altra parte e la questione può finire nel nulla. Fondamentalmente, i criminali apprezzano la prova tangibile della fiducia. A questo scopo per esempio è prassi comune che i mafiosi alle prime armi partecipino precocemente ai crimini. “Per un omicidio la mafia impiega sempre molte più persone del necessario”, osserva Gambetta. Il motivo è semplice: è più difficile che i complici compaiano come informatori dinanzi alle forze dell’ordine. Ma nel mondo della criminalità la dimostrazione di gran lunga più apprezzata di essere meritevoli di fiducia è una detenzione in carcere, in fondo è improbabile che un informatore sotto copertura si faccia metter dentro per anni. Chi esce di galera ha, quindi, le migliori referenze. Funzionava così anche nella Germania degli anni Trenta, dice Gambetta. Allora esistevano i cosiddetti “Ringverein” (circoli criminali), con il suggestivo nome di  ”Immertreu” (Fedele per sempre) che, se esternamente  sembravanbo associazioni di sostegno ad ex detenuti, nella realtà si davano al crimine organizzato e che, diversamente da quanto affermava la propaganda nazista, non furono smantellate totalmente nemmeno sotto il Terzo Reich. Gambetta parla con molta chiarezza di un paradosso che colpisce: è proprio lo Stato con il suo sistema carcerario a costituire, per i criminali, la principale istituzione che infonde fiducia.

[Articolo originale “Auch Verbrecher brauchen Vertrauen” di Patrick Illinger] [tradotto da Claudia Marruccelli]

Oggi non si invidia più ma si disprezza.

Viviamo nell’età del disprezzo?
«Siamo passati dall’ammirazione per il potere all’invidia e alla conseguente frustrazione. Oggi non si invidia più ma si disprezza. La società si è divisa tra i molti che disprezzano e i pochi che sono disprezzati».

Chi sono i pochi?
«Sono le oligarchie che un tempo erano nascoste e oggi sono percepite come tali».

Ovvero gli inammissibili privilegi di cui ancora godono?
«Sono mondi — finanziari e politici — chiusi all’esterno e molto litigiosi al loro interno. Da qui ne consegue quello che per me è diventato il chiodo fisso: aprire il mondo dei piccoli numeri ai grandi numeri, immettere energie sociali nuove in questo mondo chiuso »

Gustavo Zagrebelsky, uno dei pochi intellettuali di questi nostri anni, intervistato da Antonio Gnoli.

Potevano stare zitte

Quindi Silvio Berlusconi decide di paragonarsi a Enzo Tortora volendo farci intendere di essere vittima di “errori giudiziari” (l’abbiamo capito vero che il senso era questo in previsione di sentenze di condanna?).

La figlia d Tortora puntualizza che le cose non sono proprio simili anzi per niente.

Berlusconi dichiara: “le figlie di Tortora potevano stare zitte”.

Capite perché ogni pacca sulla spalla a questo uomo e il partito che possiede è una manciata di fango sulla politica, sulla democrazia e sulla memoria di questo Paese? Eh, Letta?

A proposito della “giustizia ad orologeria”

loadImageScrive bene l’amica Lidia Ravera su Il Fatto Quotidiano:

Cari lettori, mi rivolgo a voi perché mi sosteniate in una disperata battaglia culturale: riformiamo il “Polit-taliano”, la lingua stanca delle cronache partitiche! Se leggo ancora una volta la frase “Giustizia a orologeria”, giuro che mi acceco con le mie stesse mani, mi pianto due baionette nei bulbi oculari.

Formigoni, per tutta la durata del suo mandato si è ingozzato a scrocco nei ristoranti di lusso, ha distribuito mazzette e si è svagato a spese dei suoi faccendieri parassiti. Della vicenda si parla ininterrottamente da mesi e mesi. Perché, signor Maroni, la “giustizia” sarebbe, in questo caso pure, a “orologeria”? Mi spieghi la metafora, eccellenza. Si tratta forse di unabomba? Allora è una bomba a molla, semmai, di quelle che, caricate dai bambini, fanno “Boom boom” tutti i giorni.

Ho trovato Roberto Maroni parecchio involuto in questa assonanza con Berlusconi negli attacchi alla magistratura. L’impressione è che il “nuovissimo” di cui la Lega andava fregiandosi all’inizio di questa campagna elettorale quando con una certa sfrontatezza si dichiarava lontana e disinteressata da Formigoni e PDL sia sul piano lombardo che sul piano nazionale (nonostante una convergenza di programmi che sfiora il ridicolo per il copia e incolla) si stia trasformando in questi ultimi giorni in una vecchia “vicinanza” esibita per raschiare il barile.

Le tortuose vie della Lega sono finite: è ritornata ad essere la servetta del capo appollaiata sui vecchi vizi peggiori.

Una normalizzazione mafiosa e anche sociale (editoriale per “I Siciliani giovani”)

La discussione in corso sul ruolo della magistratura e sugli argini permessi ai magistrati nell’esprimere giudizi politici è la ciclica riproposizione di uno scontro che sembra essere diventato inevitabile in Italia. Un campo di battaglia tra favorevoli e contrari, una tribuna (spesso televisiva) di tifosi delle diverse fazioni che si esibiscono nella continua delegittimazione l’uno dell’altro e ha portato alla banalizzazione di fondo da cui sembra così difficile uscire: ci si dice che in questo Paese esistano poteri buoni e poteri cattivi, dimenticandosi le persone che li interpretano. E il risultato è fatto: giustizialismo contro il partito antiprocure, antipolitica contro politicismi e, quando il gioco sembra farsi duro, complottisti contro innocentisti. E sotto spariscono i fatti, le persone, i riscontri e alla fine la verità.

Ricordo molto bene una mia discussione qualche anno fa quando mi capitò di essere “accusato” da alcuni colleghi teatranti di scrivere spettacoli con giornalisti di giudiziaria e giudici, “è compito degli intellettuali la cultura, mica dei giudici” mi dissero. Erano colleghi che stimo, gente che scrive spettacolo preferendolo all’avanspettacolo, che ha un senso alto dell’arte e della cultura, per dire, ma quello che mi aveva colpito era l’eccesso di difesa legittimato dalla presunzione di un’invasione di campo che non poteva e non doveva essere tollerata. Confesso anche che il concetto di intellettuale oggi, nel 2012 in un’Italia culturalmente berlusconizzata alle radici, è un tipo che mi sfugge perché si arrotola troppo sugli scaffali o nei salotti televisivi di una certa sinistra piuttosto che tra le idee della gente. Un nuovo intellettuale imborghesito e bolso che mostra il suo spessore nel “l’avevo detto” piuttosto che anticipare i tempi come quei belli intellettuali che si studiavano a scuola. C’è la mafia a Milano, l’avevo detto, c’è la massoneria tra le righe del Governo, ve l’avevo detto, c’è l’Europa antisolidale, ve l’avevo detto e via così come una litania di puffi quattrocchi che svettano come giganti per il nanismo degli avversari.

C’è un momento storico negli ultimi decenni che ha svelato l’arcano: 1992-93, le bombe, Falcone e Borsellino, la mafia, Palermo che si ribella, la Sicilia che rialza la testa e per un momento si sente abbracciata da una solidarietà nazionale come non sarebbe più successo. La gente che decide di non potere stare a guardare e la magistratura che cerca la vendetta con la verità: due mondi così distanti, con regole e modi così diversi, spinti dallo stesso sdegno e uniti nella stessa ricerca. Ma non comunicanti. Il popolo con la fame dei popoli, quella tutto e subito, per riempire la pancia di quel dolore e avere almeno una spiegazione e la magistratura ingabbiata tra i veti, la politica, i depistaggi e i falsi pentiti e le leggi che non lasciano spazio all’urgenza democratica. Forse gli intellettuali ci sono mancati proprio lì. Chi poteva avere il polso di quegli anni così caldi e aveva gli occhi per metterci in guardia dai demoni che si infilano nei grandi cambiamenti storici: sono rimasti isolati, inascoltati o morti ammazzati. E tutto intorno un allineamento rassicurante, come chiedeva il popolo sotto le mura; come se la “normalizzazione” non sia stata solo mafiosa ma anche e soprattutto sociale. La rassicurazione normalizzante è stata l’ultima chiave di lettura collettiva. Poi la frantumazione, prima composta come quando si saluta per tornare a casa fino al cagnesco muso contro muso degli ultimi vent’anni.

Per questo mi incuriosisce ascoltare il dibattito sui modi e le parole della magistratura che non tiene conto del percorso che ci ha portato fino a qui, della polvere che si è appoggiata su verità che cominciano a mancare come un lutto piuttosto che un viaggio. Tutto condito con un’etica slegata dalla storia, dagli interpreti della classe dirigente che abbiamo dovuto digerire e dai protagonisti che ci siamo trascinati legati al piede da quegli anni. Non esiste un modus operandi decontestualizzato dal mondo, non sarebbe concepibile nemmeno per un filosofo utopista con fiducia illimitata negli uomini. C’è un tempo per alzare la voce, dopo anni di latitanza degli intellettuali asserviti troppo spesso al padrone di turno, un buco da colmare per tenere in piedi i pilastri della democrazia. Come dice bene Gian Carlo Caselli ci sono stagioni che impongono la parola. E ci vuole la schiena diritta per portarla in tasca, la parola.

(pubblicato per I SICILIANI GIOVANI, il numero è scaricabile dal sito)

La pena utile

Parole come aria fresca. Finalmente. Quasi da paese civile. Le parole, per ora.

È, piuttosto, la capacità di rinnovarsi in relazione al modo di vedere il detenuto: non più come «peso morto» da tenere rinchiuso e guardare a vista 24 ore al giorno, non più come «zavorra inutile» per la società, ma piuttosto come risorsa. Risorsa che può e deve diventare concreta in tutti i casi – e non sono tutti i detenuti, ma non sono nemmeno pochi – si riesca a mettere a frutto le capacità e la buona volontà che molti detenuti non hanno perduto definitivamente. Sta all’ Amministrazione farle emergere per rendere le persone che scontano la pena del carcere utili per la società. Questo e niente altro, lo ripeto, significa rendere la pena utile per il condannato stesso. Come ottenere questo risultato, difficile, ma non impossibile rispetto a un notevole numero di detenuti? Non vi è altro modo che il richiamo alla responsabilità. Far crescere il senso di responsabilità, nella convinzione che non vi è altra strada per preparare il rientro nella società. È una visione comoda e rassicurante, ma del tutto arcaica quella che vede il detenuto come soggetto meramente passivo di interventi che piovono dall’ alto. Occorre certamente dirigerlo, reggerlo, orientarlo: ma alla fine tocca a lui assumere il peso del proprio destino attraverso la sua volontà di riscatto, se questa volontà è abbastanza seria e forte. Chi mai potrebbe farlo al suo posto? In questo percorso di crescita il lavoro è uno strumento potente ed insostituibile. Il lavoro crea relazioni sociali costruttive. Produce benessere a sé e agli altri. Fa crescere l’ autostima. Non è un caso che la Costituzione ponga il lavoro a pietra fondante. Vi è una stretta relazione tra lavoro e dignità sociale. In astratto ogni persona ha una dignità. In concreto la dignità può andare perduta e senza il lavoro questa perdita è facile che avvenga. Ecco perché iniziative come la «Giornata della Restituzione» sono positive. Non è ancora il risultato di dare al detenuto un lavoro, risultato che purtroppo manca spesso anche fuori dal carcere. Ma quella iniziativa ha dato a settanta detenuti la possibilità di offrire alcune ore di fatica per rendere un servizio alla città e riconoscere in tal modo di essere ancora parte costruttiva della società.

(Giovanni Tamburino, capo del Dipartimento amministrazione penintenziaria Ministero della Giustizia)

Solidarietà a Roberto Scarpinato

L’infaticabile Jole Garuti mi invia un appello che sottoscrivo e rilancio:

Cari soci e amici,
più di 320 magistrati (le adesioni continuano a pervenire) hanno firmato la seguente lettera da inviare al CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) come solidarietà al magistrato Roberto Scarpinato che il 19 luglio a Palermo ha letto una lettera indirizzata a Paolo Borsellino, in cui c’è una analisi molto chiara della situazione ion cui ci troviamo a proposito della cosiddetta e già in parte provata trattativa fra lo Stato e la mafia. Per questa sua ‘colpa’ è stato chiesto il trasferimento di Scarpinato ad altra sede.
E’ ora possibile anche ai cittadini sottoscrivere tale lettera.

Va inviata a marco.imperato@giustizia.it e info@centrostudisao.org

Sul sito www.centrostudisao.org trovate la lettera di Scarpinato a Borsellino.
Di seguito invece copio il documento dei magistrati.

Cari saluti
Jole Garuti

***********************
SOTTOSCRIVO LA PRESENTE LETTERA

Chi ha memoria storica e consapevolezza culturale sa che la storia del nostro Paese è anche la storia di poteri criminali che ne hanno condizionato lo sviluppo sociale, politico ed economico.

Chi ha una coscienza morale e professionale e il coraggio di non rassegnarsi a quello che è accaduto ed accade nel nostro Paese, ha il dovere civico di associare il proprio impegno professionale e culturale alla difesa intransigente dei valori Costituzionali e di opporsi al rischio di un progressivo svuotamento dello Statuto della Cittadinanza che, lasciando spazio al crescere di una rassegnata cultura della sudditanza, determina il degrado del vivere comune a causa del proliferare di furberie, sopraffazioni, arroganze, servilismi e cortigianerie interessate.

Chi, oltre a possedere quella coscienza e quel coraggio, può spendere la credibilità di una vita passata a combattere i poteri criminali, ha il dovere e il diritto di marcare la differenza tra l’agire autenticamente democratico e quello di chi si adatta alle situazioni e preferisce il vivere mediocre che supporta e stabilizza le ingiustizie e le mistificazioni. E’ il dovere della Verità e della conoscenza ciò che qualifica la statura etica della persona, qualunque sia la sede o il contesto in cui si concretizza la sua esistenza.

La Verità e la Giustizia insite nella coscienza, nel coraggio, nell’impegno di ogni cittadino non possono essere fonte di equivoci o divenire espressione di un sapere egoistico in quanto socialmente limitato. Esse devono, invece, manifestare il pregio della chiarezza, della trasparenza, del riconoscimento, anche ricordando quanto la fatica giurisdizionale ha accertato nell’interesse primario del sapere collettivo.

Il 19 Luglio 2012 Roberto Scarpinato ci ha ricordato la coscienza, il coraggio, l’impegno per la Giustizia e la Verità di Paolo Borsellino, il quale, esponendosi in prima persona, denunziò pubblicamente più volte come per mobilitare tutte le migliori risorse della Società Civile nel contrasto alla mafia, fosse indispensabile ripristinare la credibilità dello Stato minata da quanti, pur ricoprendo cariche pubbliche, conducevano tuttavia vite improntate a quello che egli definì il “puzzo del compromesso morale che si contrappone al fresco profumo della Libertà”.

A vent’anni dalla strage di Via D’Amelio restano, purtroppo, attuali le sofferte parole che Paolo Borsellino, esempio illuminante di uomo di Stato, dedicò a questo tema e ricordate da Roberto Scarpinato: “Lo Stato non si presenta con la faccia pulita … Che cosa si è fatto per dare allo Stato … una immagine credibile ? … La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinchè lo Stato diventi più credibile, perchè noi ci dobbiamo identificare di più in queste Istituzioni”. “No, io non mi sento protetto dallo Stato perchè quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla Magistratura e alle Forze dell’Ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”.

Lo scritto di Roberto Scarpinato, nella forma di una lettera ideale, così come gli era stato richiesto dai familiari di Borsellino, è stato un omaggio alla Verità ed alla Giustizia, un ringraziamento a Paolo Borsellino, un corrispondere a un debito di riconoscenza che mai salderemo del tutto. E’ stato l’espressione concreta del dover essere al servizio della comunità attraverso una partecipazione “alta” alla vita della “polis”, finalizzata alla consapevolezza e alla responsabilizzazione critica di ogni cittadino.

Le parole di Roberto Scarpinato, nell’esaltare la cultura delle Istituzioni, sono state anche esempio di adeguatezza comunicativa: hanno assolto al dovere di comprensibilità verso chi ha meno presìdi culturali, senza abbassare il sentimento di autentica Giustizia, che troppe volte viene eluso preferendo la comodità del linguaggio autoreferenziale dei pochi, insensibile al desiderio di conoscere e di crescere culturalmente dei molti. Il suo discorso non ha seguito la celebrazione del “mito” di Paolo Borsellino, tranquillizzante nella sua fissità sterile, ma ha voluto indicare l’Uomo e il Magistrato come suscitatore di coscienze profonde che avvertono l’ineludibile necessità di pensare e di agire nella prospettiva di un positivo cambiamento comune.

Abbiamo appreso dalla stampa che, a seguito della lettera dedicata da Roberto Scarpinato a Paolo Borsellino, è stata aperta presso la Prima Commissione del C.S.M. una pratica per il suo trasferimento di ufficio e che la richiesta di apertura della pratica è stata trasmessa dal Comitato di Presidenza del C.S.M. alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione per eventuali iniziative disciplinari.

L’Associazione Nazionale Magistrati, il 26 Luglio 2012, ha espresso sorpresa e preoccupazione per tale iniziativa ritenendo che quel discorso non possa essere inteso che come “manifestazione di libero pensiero, quale giusto richiamo, senza riferimenti specifici, nel ricordo delle idee e delle stesse parole di Paolo Borsellino, alla coerenza di comportamenti ed al rifiuto di ogni compromesso, soprattutto da parte di chi ricopre cariche istituzionali”.

Il discorso di Roberto Scarpinato, a nostro parere, merita di essere diffuso, nelle Istituzioni e nelle scuole, tra i concittadini onesti ed impegnati. A titolo di merito per chi ha ricordato un pezzo della nostra storia con la credibilità del proprio passato. Come monito alle tante persone che si stanno formando una coscienza civile o a quelle che possono cedere alla tentazione della disillusione, e come esortazione a tener sempre un comportamento esemplare e onesto nell’interesse dello Stato democratico e costituzionale. Non si tratta di discutere solo della possibilità di un Magistrato (dell’autorevolezza di Roberto Scarpinato) di esprimere le proprie opinioni con la ponderazione e lo scrupolo che derivano dalla delicata funzione svolta, ma anche di assicurare alla collettività italiana il congruo bagaglio cognitivo ed etico.

C’è necessità di parlare con quella che i greci chiamarono “parresia”, ovvero con la libertà e il dovere morale di chi non teme di urtare la suscettibilità di alcuno perchè non prevede di aver benefici o debiti nei confronti del Potere.

Per questi motivi facciamo nostre le nobilissime parole della lettera di Roberto Scarpinato

20120808-090307.jpg