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Graviano

Quando fanno comodo i pentiti

«Storicamente ho constatato che quando i collaboratori di giustizia o i testimoni parlano di bassa macelleria criminale va tutto bene, quando arrivano dichiarazioni che attingono alla sfera politica o istituzionale cominciano le polemiche e le delegittimazioni. Fino a quando Gaspare Spatuzza si limitò a ricostruire la vicenda esecutiva della strage di via D’Amelio anche a livello di opinione pubblica e forze politiche registrammo plausi, nel momento in cui riferì le confidenze dei Graviano su rapporti con esponenti politici non solo iniziarono le polemiche ma addirittura non fu accolta la richiesta delle procure di sottoporre Spatuzza a un programma di protezione. È andata sempre così: la solita litania delle delegittimazioni gratuite e in alcuni casi delle calunnie. Il nostro compito è di andare avanti. Comunque».

Nino Di Matteo qui.

Lo stipendio dei Graviano è nelle pompe di benzina

La Procura della Repubblica chiede il rinvio a giudizio per Angelo Lo Giudice e Rosa Bompasso. I loro distributori di carburante sarebbero stati per anni una fonte di reddito per i fratelli Benedetto, Filippo e Giuseppe Graviano. Come? Le colonnine degli impianti sarebbero state manomesse per ottenere maggiori ricavi da girare ai capimafia di Brancaccio e ai loro familiari. Da qui le accuse di truffa e riciclaggio che vengono contestate a Lo Giudice e Bompasso, marito e moglie, formalmente intestatari dei distributori Agip di viale Regione Siciliana, ad angolo con via Oreto, ed Esso di Piazza Sant’Erasmo. Entrambi gli impianti sono finiti sotto sequestro. Il primo è fallito e il secondo ha riaperto sotto un’altra insegna estranea ai fatti. Le due compagnie petrolifere, Esso e Agip, sono parte offesa dell’inchiesta e sono pronte a costituirsi parte civile con l’assistenza dell’avvocato Cristiano Galfano. Ad entrambi gli indagati i pubblici ministeri Vania Contrafatto e Francesca Mazzocco contestano l’aggravante dell’articolo 7, quella prevista per chi agevola Cosa nostra.

Nelle pompe non si vendeva solo carburante con il trucco. Sarebbero state anche due stazioni di posta del clan mafioso di Brancaccio. Il nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza vi trovò una sfilza di pizzini. E così sarebbe venuta a galla la contabilità che prevedeva stipendi sostanziosi per i parenti più stretti degli ergastolani che nonostante il 41 bis avrebbero continuato a gestire affari e potere. E cioè Rosalia Galdi, detta Bibiana, moglie di Giuseppe Graviano, Francesca Buttitta, moglie di Filippo, Nunzia Graviano, “a picciridda” sorella dei boss (pure lei è finita in carcere) a cui sarebbero spettati 4 mila euro al mese. E ancora mille euro ciascuno a Maria Anna Di Giuseppe ed Antonietta Lo Giudice, mogli di Giuseppe Faraone e Giorgio Pizzo, entrambi detenuti, e a Benedetto Graviano.

Nei due distributori i finanzieri trovarono tutto ciò che serviva per truffare, sostiene l’accusa, i clienti. C’era la calamita che diminuiva l’erogazione fino al dieci per cento in meno di quanto indicato sul dispaly. C’era l’interruttore piazzato in bagno che qualcuno pigiava quando il benzinaio azionava la pistola del carburante. Oppure il telefono che a distanza accelerava il conteggio della colonnina facendo semplicemente finta di essere impegnati in una conversazione.

Il difensore dei due indagati, l’avvocato Enrico Tignini non entra nel merito delle accuse, ma si limita a precisare che nel caso di Lo Giudice “alcune fattispecie di reato potrebbero essere già oggetto di analogo processo penale in fase di celebrazione con il rito abbreviato” (Lo Giudice è per imputato di intestazione fittizia di beni ndr). Nel caso della Bompasso, invece, “si tratta della titolare del Bar Liberty che nulla aveva a che fare con il distributore”. Anche il bar, annesso alla pompa di benzina di viale Regione Siciliana è finito sotto sequestro perché considerato di proprietà dei capimafia di Brancaccio.

(clic)

Giuseppe Di Matteo, per non perdere il senso del cuore

Consapevoli che l’ostaggio sarebbe stato ucciso, insieme a numerosi mafiosi agrigentini e del nisseno hanno gestito il sequestro di Giuseppe, appena dodicenne, prelevato il pomeriggio del 23 novembre 1993 da un maneggio di Villabate da un commando di mafiosi camuffati da agenti della Dia che lo convinsero a salire in auto raccontandogli che avrebbero dovuto portarlo dal padre. ‘’Papà, amore mio’’, esclamò il ragazzino, e quelle parole segnarono l’inizio di un incubo concluso la sera dell’11 gennaio 1996 quando Giovanni Brusca apprese dalla tv che era stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo reagì ordinando l’omicidio del piccolo Giuseppe, tenuto attaccato ad una catena e ridotto ormai ad una larva umana. A strangolarlo furono Enzo Chiodo ed Enzo Brusca, fratello di Giovanni, e il corpo fu poi disciolto nell’acido. Ora sono arrivate le condanne.

La mafia che gocciola dai polsini del Re

La notizia dei 100 milioni versati da Silvio Berlusconi alla mafia secondo il foglio dattiloscritto e controfirmato da Vito Ciancimino secondo quanto scritto da Felice Cavallaro sul Corriere della Sera sarebbe una notizia solo in un Paese con la memoria andata in prescrizione dove un Governo ricattabile gioca a confondere i fatti con le opinioni, e a curare il cancro delle mafie con i cerotti. Quindi è una notizia.

Eppure, nell’Italia dell’informazione trasformata in vassoio per raccogliere le bave del re, l’ultima rivelazione di Massimo Ciancimino (e, per la prima volta, di sua madre Epifania Scardino) è passata come una brezza di ferragosto perfettamente inscatolata tra i “complotti” e le “invenzioni” che sono la ciclica difesa del fedele Ghedini a tutela servile del premier. Non importa nemmeno che l’anziana moglie di Don Vito dica «Si, mio marito incontrava negli anni Settanta Berlusconi a Milano… Ma alla fine si sentì tradito dal Cavaliere…». Eppure di un assegno di 25 milioni dato dal Cavaliere ai Ciancimino se ne parla ormai da sei anni, dopo un’intercettazione in cui il figlio Massimo parla della regalìa berlusconiana alla sorella dichiarando di avere ricevuto quei soldi direttamente dalle mani di Pino Lipari. Sarebbe una notizia, in un Paese normale. In questo ferragosto di battibecchi e divorzi è diventata invece una voce di corridoio.

O forse non è una notizia perché la memoria non si è appassita come qualcuno vorrebbe e ci si ricorda che nel processo Dell’Utri si legge che ogni anno arrivavano milioni in regalo direttamente da Arcore. Dichiarazioni di più pentiti ma (poiché il cecchino Feltri ci insegna che solo la “carta canta”) anche ben documentati: durante le indagini negli anni novanta sulla famiglia mafiosa di San Lorenzo infatti si ritrova un appunto nel libro mastro del pizzo che dice “Can 5 5milioni reg”. O forse ci si ricorda perfettamente che che i fratelli Graviano furono spediti a Milano a partire dal ’92 dove “avevano contatti importanti” e dove incontrarono più volte anche Marcellino Dell’Utri. Lo dice il pentito Gaspare Spatuzza ma (siccome vi diranno che Spatuzza non è credibile e i pentiti non possono deviare il corso della politica) lo dice anche l’ex funzionario della DC Tullio Cannella, politico per nulla pentito. E ci si ricorda che Gaetano Cinà, uomo d’onore della famiglia di Malaspina (un clan vicinissimo a Provenzano), visitava spesso gli uffici di Milano 2 e l’ex fattore di Arcore Vittorio Mangano sia un condannato mafioso con il tratto per niente eroico della vile omertà.

Nonostante il premier si affanni a scrivere pizzini a Cicchitto in cui gli raccomanda in Aula di parlare di mafia (avendo già altri nel partito che si occupano a parlare “con la mafia”), nonostante anche nel centrosinistra qualcuno insista per scambiare la mafia come sceneggiatura buona per le fiction piuttosto che cancro delle istituzioni, oggi Cosa Nostra può guardare dall’alto i frutti della propria strategia di tensione e poi cooperazione con le istituzioni: tra il ’95 e il 2001 sono state approvate alcune leggi che sono fatti, mica opinioni. Sono state chiuse le carceri di massima sicurezza di Pianosa e dell’Asinara. Con la scusa della privacy si è imposta la distruzione dei tabulati telefonici più vecchi di cinque anni. In modo bipartisan è stata riformata la legge sui collaboratori di giustizia con il risultato di una diminuzione sensibile dei pentiti (calpestando il modello di Falcone e Borsellino). Si è pressoché smantellato il 41 bis e con la riforma del “giusto” processo si è concessa la facoltà di non rispondere, elevando l’omertà ad un (eroico) diritto di stato. Alcuni parlamentari hanno anche provato a parlare di “dissociazione” mafiosa. Il ministro Alfano ha proposto una riforma che consentirebbe alle difese di chiamarei in tribunale un numero illimitato di testimoni, per ingolfare ancora meglio la palude dei processi. L’onorevole Gaetano Pecorella ha proposto il ricorso alla Convenzione Europea per la revisione dei processi (guarda caso, idea del vecchio Vito Ciancimino per annullare la sentenza del maxi processo di Palermo). Sempre ricalcando l’idea del vecchio boss Don Vito la Lega propone l’elezione dei giudici. Ad abbattere le difficoltà del riciclaggio ci ha pensato lo “scudo fiscale”.

Cosa dobbiamo aspettare perché sia un diritto (e soprattuto un dovere) raccontare e dire del rapporto adultero tra le mafie e questa Seconda Repubblica? Quando si riuscirà a gridare che il marcio di questo Stato sta uscendo dai polsini dei nostri governanti?

Mafia é mafia. Senza sinonimi, senza moderazioni.