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impunità

Sì Renzi, che Bin Salman sia il mandante dell’omicidio Khashoggi “lo diciamo noi”, e lo ripeteremo all’infinito

Sempre su Renzi, sì, ancora. Del resto sono giorni che questi arzigogolano su Scanzi e la dieta detox e figurati se non valga la pena imbrattare qualche giornale per un ex presidente del Consiglio che rivendica davanti a una telecamera di essere amico (ha detto proprio così, grande amico) di un principe che l’Onu e la CIA indicano come mandante dell’omicidio di un giornalista.

A proposito: sapete perché Khashoggi è stato ucciso? Perché anche questo punto sembra passato in cavalleria come se fosse una cosa da poco: Khashoggi è passato sotto una moto sega perché nei suoi articoli raccontava come l’Arabia Saudita stesse instaurando un regime dittatoriale costruendosi una maschera internazionale da Paese democratico e internazionale.

Anche questo non conta? Anche questo non vi dice niente? Per gli sbadati: due giorni fa il Guardian ha raccontato delle minacce ricevute dalla reporter dell’Onu che ha indagato sull’omicidio Khashoggi, Agnès Callamard, ma la stampa italiana è stata piuttosto sbadata e si è dimenticata di scriverlo. Del resto avrebbero dovuto scrivere che le minacce sono state pronunciate da un alto funzionario saudita durante un incontro ufficiale con funzionari dell’Onu, questo per dare l’idea del senso di impunità che vige nella rinascimentale Arabia Saudita.

Ci si è dimenticati perfino che un calciatore, Cristiano Ronaldo, sia riuscito a dare una lezione di etica a un ex presidente del Consiglio rifiutando un sontuoso contratto di 6 milioni di dollari per fare da testimonial all’Arabia Saudita in una campagna per il turismo. Mica solo lui: il quotidiano inglese Telegraph ha riportato anche il rifiuto di Lionel Messi. Capite di cosa stiamo parlando? Calciatori con una senso dell’etica e dell’opportunità maggiore di un senatore che siede nella Commissione Difesa.

Che l’esaltazione di un dittatore sanguinario venga fatta alla luce del sole, senza nemmeno un cenno dalle istituzioni della Repubblica Italiana per prendere le distanze, è un fatto politicamente rilevantissimo nonostante qualcuno giochi a minimizzare.

E non è un problema solo di Renzi (che la credibilità l’ha persa da un bel pezzo) ma è una situazione che chiede una presa di posizione forte da parte di tutti coloro che rivestono un ruolo istituzionale: “Questo lo dite voi” e noi lo scriviamo con forza, lo ripeteremo all’infinito, ce ne prendiamo tutte le responsabilità e lo leggiamo nei rapporti della CIA, dell’Onu e di chiunque abbia a cuore i diritti. Non si tratta di un pettegolezzo tra rignanesi, è una questione mondiale.

Leggi anche: 1. Conflitto d’interenzi (di Giulio Gambino) / 2. Quel rapporto con il principe d’Arabia Saudita: la crociata di Renzi sui servizi ora diventa sospetta (di Luca Telese) / 3. Se Renzi vivesse in Arabia Saudita (di Selvaggia Lucarelli)

4. 5 domande a cui Matteo Renzi deve rispondere (a un giornalista) / 5. Decapitazioni in piazza, attivisti frustati, civili bombardati: ecco l’Arabia Saudita di Renzi “culla del Rinascimento” / 6. Omicidio Khashoggi, la fidanzata Hatice Cengiz a TPI: “Pensavo che l’Occidente si sarebbe battuto, invece ho trovato reticenza”

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Omicidio Regeni, l’Egitto prende a schiaffi i pm italiani: il Governo faccia qualcosa

Ma che altro deve succedere perché l’Italia e la storia di Giulio Regeni non vengano usate come zerbino dall’Egitto? Ma che altro deve succedere perché il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, abbia un sussulto di dignità – lui e il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte – perché venga difesa non solo la memoria di un ragazzo che muore quasi ogni giorno sotto i colpi dell’impunità del governo di Al-Sisi, ma almeno la credibilità della Giustizia italiana, che viene addirittura definita “illogica” e basata su “fatti e prove errati, che costituivano uno squilibrio nella percezione dei fatti”?

È notizia recente la consegna di una fregata militare da parte dell’Italia all’Egitto che ecco subito dopo che la procura egiziana si diverte ad attaccare la procura di Roma, il procuratore capo Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco.

In sostanza l’Egitto, quello stesso Egitto che nel corso di tutti questi mesi ha inscenato le più improbabili storture per nascondere l’omicidio di Stato del giovane ricercatore friulano, ora vorrebbe farci credere che qualcuno lo scorso 25 gennaio del 2016 avrebbe ucciso Giulio Regeni per poi addossare la colpa al governo egiziano.

Ma avete capito fino a quanto si possa spingere l’ipocrisia omicida di un governo? Dicono in pratica che Regeni sia morto per creare danno a loro. Loro, che continuano a stringere mani insanguinate con pezzi di governo italiano per scambiarsi armi, loro che insistono nel prendersi gioco bellamente dei nostri rappresentanti di governo che non riescono a produrre nulla di più di qualche pelosa dichiarazione d’indignazione da consegnare alla stampa e da dare in pasto all’opinione pubblica.

Ma oggi, mentre la procura egiziana smentisce la ricostruzione dell’Italia, senza nemmeno prendersi la fatica di offrire almeno un’altra versione dei fatti, senza nemmeno curarsi di indicare dei presunti colpevoli, lo sentite l’odore della vergogna che si spande tutto intorno?

Davvero si vuole ottenere verità su Giulio Regeni limitandosi a intitolargli qualche stanza o qualche convegno? Ma qual è la strategia del governo? Aspettare che ce ne dimentichiamo? Augurarsi che smettiamo di scriverne?

La storia di Giulio Regeni sanguina un vocabolario che ci stringe ogni giorno a scendere negli inferi dell’incredulità di fronte a atteggiamenti così irresponsabili: irresponsabile il silenzio italiano, irresponsabile l’odore del sangue slavato male che arriva dall’Egitto. Ma ne scriveremo tutti i giorni, tutto il giorno, senza tregua.

Leggi anche: 1. Alla vigilia di Natale, nel silenzio generale, l’Italia ha consegnato una nave militare all’Egitto. Con buona pace di Regeni / 2. La verità su Giulio Regeni è un diritto: l’Italia smetta subito di vendere armi all’Egitto (di Alessandro Di Battista)

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I rider di Uber Eats erano schiavizzati: la compagnia commissariata per caporalato

L’inchiesta su Uber Italy che vede coinvolte 10 persone per caporalato tra cui la manager di Uber Gloria Bresciani è la perfetta fotografia di un momento storico, al di là poi della rilevanza giudiziaria: sistematizzare le disperazioni per poterle spolpare fino all’ultimo centesimo appoggiandosi sulle povertà e nascondendosi dietro l’algoritmo di una piattaforma è il comandamento degli sfruttatori del 2020, gli schiavi non sono più solo nei campi con le schiene spezzate ma macinano chilometri sotto il sole o sotto la pioggia per la miseria di una lavoro sottopagato a cottimo come nelle peggiori storie di secoli fa.

È uno schiavismo scintillante, quello del delivery che ci porta comodamente i cibi a domicilio, che una certa narrazione è riuscito addirittura a rivenderci come una conquista. Solo che nel vocabolario impolverato dei diritti ormai sembra essersi smarrito il senso che una “conquista” lo è se porta vantaggi a tutti e invece qui ci troviamo di fronte a lavoratori, ancora una volta, stretti nella morsa di azienda e clienti.

Tra gli indagati anche Danilo Donnini e Giuseppe e Leonardo Moltini, amministratori della Flash Road City Srl e della Frc Sr, che andavano a cercare carne da macello da fare salire in bicicletta nelle sacche più in difficoltà delle storture politiche: i “pericolosi” immigrati in attesa di protezione umanitaria, quegli stessi che vengono già mangiati da certa propaganda politica, tornavano utilissimi per diventare manovalanza. Sono perfetti, se ci pensate, per un certo tipo di capitalismo: si ritrovano in una posizione di debolezza per reclamare diritti e hanno troppa fame per rinunciare a un lavoro.

Si legge nelle carte del pm di Milano Paolo Storari che gli indagati “approfittavano dello stato di bisogno dei lavoratori, migranti richiedenti asilo dimoranti nei centri di accoglienza straordinaria, pertanto in condizione di estrema vulnerabilità e isolamento sociale” e li destinavano al lavoro per il gruppo Uber “in condizioni di sfruttamento”. Pagamenti a cottimo per 3 euro a consegna, indipendentemente dalle distanze da percorrere e dalla fascia oraria, mance dei clienti che venivano sottratte, punizioni arbitrarie: “Abbiamo creato un sistema per disperati, ma i panni sporchi si lavano in casa”, diceva intercettata al telefono la manager di Uber. Consapevoli di essere degli schiavisti e sicuri di poter ambire all’impunità. Forse sarebbe il caso di imparare presto i nuovi riferimenti per riconoscere le nuove schiavitù. In fretta.

Leggi anche: Rider sfruttati, Uber Italia commissariata dal tribunale

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La giustizia sociale non è un tic

Il trucco è sempre lo stesso: qualcuno chiede giustizia sociale (soprattutto chi di ingiustizia sociale ci muore e si marcisce) e quegli altri rispondono che è un tic. Una volta sono gli antifascisti, una volta sono i giovani mai contenti, una volta sono le femministe nevrotiche, una volta sono i neri che vorrebbero essere bianchi, una volta sono gli stranieri che vogliono solo diritti, una volta sono i comunisti che vogliono dignità salariale, una volta sono i poveri che pretendono di essere ricchi, una volta sono i lavoratori che pretendono una giusta paga, una volta sono gli omosessuali che vorrebbero essere come gli altri, una volta sono i laici che pretendono troppo di essere laici, una volta sono i garanti che pretendono garanzie anche per gli assassini. È tutto così: chiedi un diritto e vieni etichettato come fronda, vieni messo nello scaffale di qualche associazione di idee e di persone e la richiesta di giustizia sociale viene trattata come il solito refrain da tralasciare com’è sempre stato tralasciato.

Il trucco è sempre lo stesso: normalizzare la mancanza di diritti come una situazione a cui non si può porre rimedio e come una conseguenza naturale di un modello che è l’unico possibile. Così mentre accade che negli Usa gli stranieri siano stanchi di un razzismo che oggi si è trasformato in profanazione socio economica qui da noi i subappaltatori dei rider di UberEats hanno l’impunità di dirci che i loro lavoratori  «sono africani perché gli italiani vogliono 2 mila euro al mese. Basta retorica del ‘poverini». Retorica dei poverini, eccolo il tic. E lo stesso vale per quelli che raccolgono la frutta nei campi.

La giustizia sociale non è un tic, no. E non è qualcosa che può essere coperta ogni volta invocando una guerra o una ribellione pericolosa. Quando negli Usa hanno ucciso George Floyd i bianchi vedendo le immagini hanno sospirato “oh, no” mentre i neri hanno pensato “è successo ancora”. Se avete la sensazione che su alcuni diritti “si continui a parlare sempre delle solite cose” è perché le solite cose non si sono mai risolte e sono ancora lì, a gridare vendetta.

Reclamate il diritto di essere perseveranti, giorno dopo giorno, goccia dopo goccia. Qualcuno vi additerà come noiosi e invece siete solo fedeli a voi stessi.

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Ma dove sono finiti i banchieri del crac? Vanno a cavallo e giocano a golf (e in pochi sono sotto processo)

(di Mario Gerevini, qui)

Oggi James passa il tempo giocando a bridge. Richard si è rimesso in affari nel mercato immobiliare e nel frattempo ha fatto causa al genero. Stanley passa il suo tempo tra la casa in Park Avenue a New York e la villa a Martha’s Vineyard. Giuseppe cavalca per le campagne toscane e da buon avvocato studia le carte dei suoi processi. Gianpiero fa il consulente, mentre la famiglia investe in ristoranti. Giovanni non molla la sua Genova dove una volta era uno dei potenti più riveriti, prima che lo pescassero a truffare la «sua» banca. Fred si è dato all’architettura. Gianni ha lasciato le vigne ai figli, giusto in tempo per affrontare (da quasi nullatenente) le richieste di risarcimento.

Fermiamoci qui. E diamo il cognome a ognuno di questi sciagurati rappresentanti della categoria dei banchieri. Ex banchieri, eternamente ex. Americani, inglesi e italiani. Che cosa fanno oggi dopo aver distrutto o contribuito a bruciare centinaia di miliardi? Nessuno è in galera. Alcuni di loro sono stati solo pessimi manager e non hanno commesso reati. Altri hanno fatto en plein.

James Cayne guidava Bear Stearns e Richard Fuld era il numero uno di Lehman Brothers, Stanley O’ Neal era al timone di Merrill Lynch, Giuseppe Mussari del Monte dei Paschi, Gianpiero Fiorani della Popolare Lodi, Giovanni Berneschi alla Carige,Fred Goodwinera il capo di Royal Bank of Scotland e Gianni Zonin il re della Popolare Vicenza.

La tempesta

Rimarranno nella storia la faccia da mastino del capo di Lehman Brothers e le immagini dei dipendenti che lasciano gli uffici con gli scatoloni di cartone. RichardFuld, detto «Il Gorilla» per il carattere scontroso, oggi 71 anni, è il simbolo perenne di quel fatidico 15 settembre 2008 che con il fallimento di Lehman, sepolta da 600 miliardi di debiti, scatenò l’inferno della crisi mondiale, già latente. In quei giorni e quei mesi di grandissima tensione, trattative febbrili, riunioni segrete e filo diretto con la Fed e il governo Usa, emersero due tipi di banchiere. Fuld, appunto, con i denti sulla scrivania fino all’ultimo e poi a ripetere: «Non è colpa mia, Lehman è stata lasciata fallire».

E James Cayne, il ceo nonché grande azionista di Bear Stearns che nei giorni cruciali del crac non si trovava: stava giocando a golf. La quinta banca d’investimento Usa è collassata per l’effetto subprime e quel che restava è stato poi acquisito da Jp Morgan. Oggi Cayne si dedica al bridge, da giocatore professionista, anche perché non si ha notizia di procedimenti giudiziari a suo carico. Il flemmatico ex banchiere avrebbe portato a casa da Bear Stearns 370 milioni di dollari. Forse gran parte li ha persi con il crollo del titolo ma non se la passa male: villa a Boca Raton in Florida, case nel New Jersey e in Park Avenue a New York e residenza, pare, al Plaza Hotel di New York.

Fuld invece non ha mollato la finanza. E dopo 14 anni in Lehman, 457 milioni tra bonus e stipendi dal 2000 (ma lui dice: in maggioranza azioni Lehman, diventate carta straccia) ora gestisce una società di consulenza finanziaria e immobiliare, Matrix Advisors, da lui fondata nel 2009. Disastro reputazionale, ma nessuna seria conseguenza giudiziaria. Due anni fa ha venduto per almeno 20 milioni di dollari la sua splendida residenza vacanziera nelle montagne di Sun Valley (Idaho). E ha confermato anche in famiglia la sua fama da «duro», facendo causa al marito della figlia: non gli avrebbe restituito i soldi del prestito per acquistare un appartamento da 10 milioni a Manhattan. Il quadro d’insieme rende più plausibile la mai confermata storia del dipendente Lehman che, abbandonando gli uffici, avrebbe sferrato un pugno a Fuld.

Bolle

Uno dei grandi «cavalieri» della bolla immobiliare, Stanley O’ Neal, 65 anni, banchiere afroamericano, ex amministratore delegato di Merrill Lynch, oggi siede nel consiglio di Alcoa, colosso dell’alluminio. Era stato accompagnato all’uscita della banca d’affari nel 2007, un anno prima di Fuld, quando s’accorsero che in pancia c’erano 41 miliardi di sofferenze, causa derivati. Merrill crollava e intanto lui, ormai isolato, faceva delle gran partite a golf. Come Cayne di Bear Stearns. E come Cayne anche O’Neal ha casa in Park Avenue a New York ma sverna a Martha’s Vineyard nel Massachusets, la Capri dell’Atlantico, paradiso delle aragoste. Lì è sepolto l’attore comico John Belushi e lì è stato girato il film «Lo Squalo». L’impressione è che di entrambi, Belushi e lo squalo, si ritrovino alcune caratteristiche nei banchieri di questa piccola rassegna.

Caliamoci in Italia. L’avvocato Giuseppe Mussari, 54 anni, ha una passione per i cavalli cui dedica parecchio tempo da quando nel 2012 ha lasciato Mps, tra l’approvazione generale. Più pascoli (e meno Paschi) per Mussari, verrebbe da dire. Ma qualcuno doveva pensarci una decina di anni fa, quando pilotò l’acquisto di Antonveneta per l’astronomica cifra di 9 miliardi che era come dar da mangiare un cinghiale a un bambino. E poi pretendere che lo digerisse a forza di Alka Seltzer. Infatti il bambino senese dopo anni di ricovero e aumenti di capitale ha alzato bandiera bianca ed è stato salvato dallo Stato. Mussari e altri manager del gruppo sono accusati di ostacolo alle funzioni di vigilanza (condanna in primo grado a tre anni e sei mesi a Siena), falso in bilancio e aggiotaggio. Male che vada (dal punto di vista economico) l’avvocato ha una moglie che sa gestire molto bene, e far guadagnare, i suoi hotel senesi. E paga puntualmente le rate dei prestiti erogati da Mps.

Su al Nord

La batosta giudiziaria più pesante ha colpito il self made banker Giovanni Berneschi (79), l’impiegato della Carige diventato amministratore delegato e poi presidente. L’hanno beccato con le mani nel sacco, cioè a truffare la sua banca e ha conosciuto anche il carcere. Da anni si sapeva delle manovre spericolate e illecite sulle compagnie di assicurazioni che hanno zavorrato il gruppo. MaBerneschi ha tenuto sotto controllo interi consigli di amministrazione, salendo al vertice dell’Abi, come vicepresidente. E adesso? L’assemblea di Banca Carige ha appena approvato l’azione di responsabilità anche contro di lui. E lo scorso 22 febbraio Berneschi è stato condannato a 8 anni di reclusione con la confisca di beni per 26 milioni. Ha una ricca pensione (200 mila euro solo di Inps, più il fondo integrativo della banca) e conta sull’appello, anche perché non è tipo da golf o bridge.

Chi ormai sembra essersi smarcato da un passato (2005) fatto di spericolate scalate (Antonveneta), soldi in nero a Singapore e baci in fronte al governatore della Banca d’Italia, è Gianpiero Fiorani (57) ex numero uno della Popolare Lodi. Un eclettico. Passato dagli austeri uffici di Antonio Fazio alle goderecce ville sarde di Lele Mora. Da banchiere si è arricchito illecitamente ai danni della banca, ha commesso reati, ha confessato molto, ha fatto mesi di carcere e di servizi sociali, ha patteggiato, risarcito la banca con 34 milioni. E oggi affianca l’imprenditore ligure Gabriele Volpi, padrone dello Spezia Calcio e della Pro Recco di pallanuoto, nella riorganizzazione delle attività di logistica petrolifera in Nigeria. La sua famiglia ha investito in immobili, nelle energie rinnovabili (con alterne fortune) in un ristorante a Bologna in via D’Azeglio e in un grande negozio a Lodi di specialità alimentari di lusso («E.Vent, la vida y el gusto»).

Siamo in tema, parliamo di vino: Zonin Gianni (79). Se si fosse occupato per 35 anni esclusivamente delle sue vigne, di vendemmie e barrique, invece che dedicarsi a fare anche il banchiere, avrebbe fatto un favore ai 120 mila soci «azzerati» della Banca Popolare di Vicenza. L’inchiesta della procura di Vicenza per aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza avanza alla velocità di un bradipo zoppo, ma ciononostante ha procurato a Zonin la seccatura di un interrogatorio di 5 ore in due anni. La banca intanto ha chiesto 2 miliardi di risarcimento all’ex presidente e agli ex consiglieri. Ma molti di loro, compreso Zonin, hanno già svuotato il portafoglio delle proprietà. Se mai un giorno l’ufficiale giudiziario gli presenterà il conto, qualche euro di moneta forse lo troverà.

Mutui tossici

Alla fine resta il vecchio Fred. Il Goodwin che nonostante il promettente cognome tra il 2001 e il 2009 affossò la Royal Bank of Scotland (perdite per decine di miliardi di sterline) speculando sui mutui e trascinandola in un’assurda politica di acquisizioni. Il simpatico «Fred the Shred», tagliatore di posti di lavoro altrui. Finché non gli hanno tagliato il titolo di Sir e dimezzato la pensione annua di 703 mila sterline. Resta sempre un bel vivere per coltivare il suo costoso hobby: restaurare auto d’epoca. Dopo il licenziamento ha lavorato in un grande studio di architettura di Edimburgo. Per dire come gira la ruota: ieri (2002) Forbes lo indicava come «Businessman of the year» e un anno dopo si fregiò del titolo di «European banker of the year». Oggi molti lo ritengono il peggior banchiere della storia. Domani chissà, tutto è in mano agli architetti di Edimburgo.

Incroci

Divagazione finale. Chi c’era a fianco di Gnutti e Colaninno nella scalata ostile a Telecom del 1999? Lehman Brothers. E chi entrò nelle holding della cordata? Mps e Popolare Lodi oltre a Stefano Ricucci. Fu Fiorani con gli amici bresciani, carichi di soldi per la vendita di Telecom a Pirelli, a tentare la scalata di Banca Antonveneta. Con l’appoggio ufficiale della Carige di Berneschi che finanziava Ricucci. Intervenne la Procura di Milano e la scalata fallì. Ma chi conquistò alla fine la banca padovana? Gli olandesi di Abn Amro. E chi poi comprò Abn Amro? Una grossa fetta finì alla Royal Bank of Scotland di Fred Goodwin mentre Antonveneta passava al Santander. Finché un giorno Emilio Botin non trovò i polli di Siena guidati da Mussari cui rivenderla per 9 miliardi. Non ci sarà una logica, ma una scia di jella forse sì.

Femminicidio: Marianna uccisa 12 volte prima di essere uccisa davvero

“Mi ha minacciato con un coltello, non so più che devo fare: aiutatemi”. Diceva così Marianna Manduca quando implorava di essere ascoltata dalla Procura di Caltagirone, terrorizzata da un marito vigliacchetto e violento come ne leggiamo troppi nelle cronache italiane.

Dodici denunce. Dodici volte Marianna ha chiesto aiuto a un Paese che continua a derubricare i segnali di femminicidio a piccole beghe famigliari che non meritano attenzione, contribuendo al senso di impunità dei maschi che si arrogano il diritto di ritenere le proprie compagne proprietà private a cui dare un senso con le botte e con la morte.

Io non so nemmeno se si riesce a scrivere con che sguardo una donna possa uscire dalla caserma per la dodicesima volta. Non so nemmeno immaginare dove finisca la sfiducia e dove inizi la paura per chi poi alla fine di coltellate ci è morta davvero: il marito Saverio Nolfo l’ha uccisa con sei coltellate al petto e all’addome il 4 ottobre del 2007 a Palagonia.

La procura di Caltagirone per la morte di Marianna è stata condannata dalla corte d’Appello di Messina: hanno riconosciuto il danno patrimoniale condannando la presidenza del Consiglio dei ministri al risarcimento di 260mila euro, e riconoscendo l’inerzia dei magistrati dopo una lunga trafila giudiziaria.

Dopo dodici volte insomma Marianna è morta per davvero. E dodici anni dopo le hanno chiesto scusa.

Perché non basta quasi mai solo un assassino per compiere un femminicidio.

Buon mercoledì.

(continua su Left)

È che ci vuole il fisico, per sapere non fare la guerra

Angelino Alfano, ministro agli Esteri: «L’Italia comprende le ragioni di un’azione militare USA proporzionata nei tempi e nei modi, quale risposta a un inaccettabile senso di impunità nonché quale segnale di deterrenza verso i rischi di ulteriori impieghi di armi chimiche da parte di Assad, oltre a quelli già accertati dall’ONU».

Paolo Gentiloni, Presidente del Consiglio: «L’azione ordinata dal presidente Trump. È una risposta motivata a un crimine di guerra. L’uso di armi chimiche non può essere circondato da indifferenza e chi ne fa uso non può contare su attenuanti o mistificazioni».

Nicola La Torre, senatore del PD, presidente della Commissione Difesa al Senato: «L’azione USA è un’opportunità. Obama con Mosca sbagliava strategia. Ogni sforzo diplomatico era azzerato. L’attacco ha fermato la china criminale e può riaprire il negoziato».

Queste le dichiarazioni. E il commento, alla fine, non c’è nemmeno bisogno di scriverlo perché l’ha già detto come meglio non si poteva dire George Orwell nel 1938:

(continua su Left)

Ecco sì, ci siamo capiti

Malvino oggi lo scrive come non si potrebbe scrivere meglio:

Le sentenze vanno rispettate, sempre, anche quando sono considerate ingiuste, perciò, da quando la Corte di Cassazione ha stabilito che l’espressione «paese di merda» configura il reato di vilipendio alla nazione, io mi limito a pensarlo, e, anche se ritengo che non ci sia definizione più efficace per esprimere il degrado morale, culturale e politico in cui versa l’Italia, la evito, e mai – mai, ripeto – verrei qui a scrivere che «questo è un paese di merda»: mi costa enorme sacrifizio, ma la legge è legge, e dinanzi ad essa mi inchino. Tuttavia, anche se vanno rispettate, le sentenze possono essere criticate, ed io qui potrei avvalermi di tale diritto, spiegando perché, a mio modesto avviso, «paese di merda» sia definizione che all’Italia va proprio a pennello, chiamando illustri autori in favore della mia tesi, vuoi sulla forma, vuoi sulla sostanza, e però ci rinuncio, anche perché al post dovrei dare necessariamente un titolo che contenga l’espressione, e questo potrebbe dare l’impressione, almeno al lettore malizioso, che, per capzioso aggiramento, io voglia violare la legge sopravanzando il legittimo diritto. Perciò mi risolvo a titolare: Ci siamo capiti.

Il resto (da leggere) è qui.

Al ricordo della strage di Bologna i mandanti sono assenti

La strage di Bologna, compiuta sabato 2 agosto 1980, è uno degli atti terroristici più gravi avvenuti in Italia nel secondo dopoguerra. Per Bologna e per l’Italia è stata una drammatica presa di coscienza della recrudescenza del terrorismo.

Alle 10:25, nella sala d’aspetto di 2º classe della Stazione di Bologna Centrale, affollata di turisti e di persone in partenza o di ritorno dalle vacanze, un ordigno a tempo, contenuto in una valigia abbandonata, esplose, causando il crollo dell’ala ovest dell’edificio. L’esplosivo, di fabbricazione militare, era posto nella valigia, sistemata a circa 50 centimetri d’altezza su di un tavolino portabagagli sotto il muro portante dell’ala ovest, allo scopo di aumentarne l’effetto; l’onda d’urto, insieme ai detriti provocati dallo scoppio, investì anche il treno Ancona-Chiasso, che al momento si trovava in sosta sul primo binario, distruggendo circa 30 metri di pensilina, ed il parcheggio dei taxi antistante l’edificio.

L’esplosione causò la morte di 85 persone ed il ferimento o la mutilazione di oltre 200.

20 anni dopo, 2 agosto 2010, di Bologna ci rimangono i nomi dei presunti esecutori (Valerio Fioravanti e Francesca Mambro), qualche nome eccellente tra i depistatori (come Licio Gelli, cancro della prima repubblica e inventore della seconda) e un esercito di sopravvissuti: vedove, figli, madri e padri. Eppure nessun membro di questo governo di vili parteciperà alla manifestazione. E’ la codardìa del sultano e la sua corte che si sfila dai luoghi e dalle commemorazioni dove non è riuscito ad imporre la propria verità. Dove non è riuscito a prostituire il favore del popolo all’immagine pubblicitaria che vuole dare di questo Paese. La nuova strategia (che in realtà di nuovo ha ben poco) è evitare di partecipare a tutte quelle cose che non si vogliono affrontare e raccontare. Perché nella Telecrazia meno si parla e si fa parlare di qualcosa e meno magicamente comincia ad esistere. Come un gioco di spot applicati alla coscienza, un aggiotaggio dell’informazione e della conoscenza. Il Re vuole solo bocche aperte di meraviglia o bocche piene; niente fischi o sdegni. In una tirannìa del consenso espresso dove l’olio di ricino e i manganelli sono stati sostituiti dall’arma dell’oblìo. Un arma che gli abbiamo costruito (e regalato con colpe politiche bipartisan) nel momento in cui al Re Berlusconi è stato concesso (o addirittura “garantito” come ha riferito alla Camera l’allora capogruppo dei DS Luciano Violante) di diventare il detentore unico della memoria presente, del revisionismo storico e del pensiero unico futuro.

A Bologna l’assenza del governo non è bile da condominio (con La Russa che si può permettere di dire “Gli altri anni i ministri li avete fischiati. E allora avete già la risposta al perché non viene nessuno…”) e nemmeno l’ennesimo atto di una codardia che conosciamo ormai troppo bene (dalle manganellate agli aquilani fino al valzer triste su Falcone e Borsellino): a Bologna si celebra l’assenza impunemente possibile coltivata da anni di indifferenza, di superficialità e di inconsistenza politica di un popolo che è bravissimo nelle cerimonie ma latitante nella ricerca della verità. A Bologna si celebra uno Stato a cui permettiamo di non dare risposte.