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L’ipocrisia della politica italiana, che appoggia a prescindere Israele e non vede il dramma palestinese

A parole le posizioni sembrano tutte uguali: “due popoli e due Stati” dicono tutti, cambia solo il tono, qualche sfumatura. Di facciata il dibattito politico su Palestina e Israele e sulla guerra riesplosa in questi giorni è tutto un gioco di equilibrismi, tutti impegnati a sembrare equidistanti, una lunga bava di buone maniere che nasconde male l’ipocrisia di fondo.

Ha fotografato la situazione anche Emanuele Fiano, deputato del Partito Democratico e figlio di un ebreo deportato a Auschwitz, che ieri è sbottato sulla sua pagina Facebook: “Se uno in Italia, da sinistra, vuole difendere Israele […] vuole contemporaneamente tentare di mantenere accesso il lume della ragione del diritto palestinese ad avere uno Stato, viene contemporaneamente accusato dagli amici di Israele, di essere amico dei nemici di Israele, e dagli amici dei palestinesi di essere amico dei nemici dei palestinesi. […] Non avrete mai il mio diritto di ragionare con la mia testa. Non mi avrete mai dalla parte di chi vuole distruggere Israele ma neanche dalla parte di chi vuole che io non parli dei diritti del popolo palestinese. Passo e chiudo”.

Ed è proprio questo il punto: basta grattare la vernice per scoprire che molti “equidistanti” sono semplicemente impegnati a non cadere nella tentazione di dire apertamente quello che pensano, immaginando la Palestina come ospite indesiderato da cancellare poco a poco, come del resto sta accadendo.

Poi c’è la continua strumentalizzazione della Shoah, sventolata ogni volta nel tentativo di travestire ogni analisi o osservazione di antisemitismo. L’ha detto ieri a Adnkronos con parole chiare Moni Ovadia (uno dei cantori migliori della cultura ebraica): “Non si ha lo sguardo per vedere che la condizione del popolo palestinese è quella del popolo più solo, più abbandonato che ci sia sulla terra perché tutti cedono al ricatto della strumentalizzazione infame della Shoah. Tutto questo con lo sterminio degli ebrei non c’entra niente, è pura strumentalizzazione. Oggi Israele è uno stato potentissimo, armatissimo, che ha per alleati i paesi più potenti della terra e che appena fa una piccola protesta tutti i Paesi si prostrano, a partire dalla Germania con i suoi terrificanti sensi di colpa”.

E forse non è nemmeno un caso che gli “equidistanti” ieri si siano dati appuntamento a Roma, lì dove gli eventi di questi giorni sono stati derubricati all’ennesimo attacco a senso unico e dove i 72 i morti e oltre 400 i feriti (tra cui 115 tra bambini) ci vengono presentati come inevitabili danni collaterali di una doverosa legittima difesa. A proposito di equidistanza.

Leggi anche:  1.Gaza brucia ancora, pioggia di bombe nella notte: “Muoiono anche i bambini” /2. Conflitto tra Israele e Hamas, Unicef: “Sono i bambini di Gaza a pagare il prezzo più alto: 9 morti e 43 feriti” /3. È guerra tra Israele e Hamas: pioggia di razzi su Tel Aviv e Gaza. Morte 2 donne israeliane e 28 palestinesi / 4. “Una nuova catastrofe”: com’è iniziato il peggior conflitto degli ultimi anni tra Israele e Gaza

L’articolo proviene da TPI.it qui

Il piano piano vaccinale di Gallera

La Lombardia è in fondo alla classifica nella vaccinazione anti Covid: è stato usato solo il 3% dei vaccini a disposizione. E l’assessore alla Sanità della regione più martoriata dalla pandemia spiega che gli operatori sanitari sono in ferie e annuncia 10mila vaccini al giorno. Ma gli abitanti sono 10 milioni

Io un giorno, per qualche ora soltanto, vorrei affittare un angolo della testa di Gallera, sedermi in disparte in qualche angolo e ascoltare quello che ci ronza dentro, sentire quel turbinio di pensieri che spinge l’assessore alla Sanità della regione più martoriata dalla pandemia a rilasciare interviste che sembrano elaborati copioni di un teatro dell’assurdo, frasi che abbatterebbero in un attimo la carriera politica di chiunque e invece lui, Gallera sempre in piedi, continua impunemente a sfoderare assurdità una dopo l’altra e non si muove una foglia, non viene mai messo in discussione.

Partiamo dall’inizio: arriva il virus e la Lombardia esplode. Eravamo all’inizio dell’anno scorso e Gallera ci spiega che la Lombardia ha numeri così alti perché è stata la regione “più colpita”. La giustificazione, per quanto fosse superficiale, poteva anche starci: peccato che a livello di contagiati (con il 22% dei casi nazionali) e di deceduti (ben il 33%) la Lombardia abbia continuato e continui a svettare. Insomma, l’effetto “sorpresa” ormai non regge più come scusa. Poi ci sono stati i pessimi risultati della medicina generale e delle Rsa, storie piene di dolore e di lutti che hanno attraversato tutti i quotidiani per mesi. Poi c’è stato il fallimento del tracciamento e dei tamponi, con lombardi che si sono ammalati e dopo mesi non hanno nemmeno un tampone che lo certifica. Poi ci sono i numeri disastrosi della campagna vaccinale antinfluenzale: al momento attuale siamo a 1 milione e 135mila vaccini su una popolazione di 2.302.527 persone, con una percentuale del 49,32 per cento ben lontana dall’obiettivo prefissato e addirittura inferiore a quella dello scorso anno quando venne vaccinato il 49,8 per cento della popolazione over 65. Peggio ancora per i bambini dai 2 ai 6 anni: l’obiettivo era vaccinarne il 50% e siamo al 16,72 per cento del totale, con picchi verso il basso dell’8,23 per cento nella zona di Pavia e del 9,58 per cento a Brescia.

Ora ci sono i numeri sconfortanti della campagna vaccinale anti Covid: la Lombardia svetta, come al solito, in fondo alla classifica con un vergognoso 3% sui vaccini consegnati. E qui Gallera si erge a livelli impensabili. Ci spiega che i suoi operatori sanitari sono in ferie (come se il piano ferie in Lombardia fosse diverso, chissà perché, da quello delle altre regioni), ci dice che non vuole bloccare “interi reparti per eventuali reazioni allergiche” (buttando lì a caso un po’ di allarmismo di cui non si sa niente e non si hanno evidenze), poi rantola su un’eventuale mancanza di siringhe (ma come? E le altre regioni?) e infine si supera affermando: «Agghiacciante una simile classifica. Per non parlare di quelle regioni che hanno fatto la corsa per dimostrare di essere più brave di chissà chi. Noi siamo una regione seria. Partiamo domani con 6000 vaccinazioni al giorno nei 65 hub regionali. I conti facciamoli tra 15 o 20 giorni».

In sostanza nella testa di Gallera il Veneto, Lazio e tutte le altre regioni che stanno facendo meglio si sarebbero messe d’accordo bisbigliando e dandosi di gomito solo per fargli fare una brutta figura. Infine, convinto di calare l’asso, ci dice che la Lombardia a pieno regime riuscirà a fare 10mila vaccinazioni al giorno. Campa cavallo: con 10 milioni di abitanti il calcolo viene semplice semplice, tenendo conto che di vaccini per ogni persona ne vengono fatti due, basterebbero 2mila giorni. In Israele, 9 milioni di abitanti, solo per fare un esempio, sono a 150mila vaccini al giorno.

Sarebbe una tragicommedia se non ci fossero di mezzo però tutti questi morti, questi contagi che ora tendono a risalire, questo futuro che appare ancora nero. Ma davvero, sul serio, lo dico anche ai leghisti che sostengono questo governo in Lombardia, cosa altro serve? Cosa, ancora?

Buon lunedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Kamala Harris e la Palestina

Ci sono, tra le dichiarazioni della vicepresidente degli Usa, frasi che fanno accapponare la pelle a chi come noi ha a cuore i diritti dei palestinesi

Sì, certo, ci sono anche le ombre. Due giorni fa nel mio #Buongiorno mi permettevo di sottolineare come fosse un vento buono quello che ha portato alla vicepresidenza degli Usa una donna che ha una visione dei diritti completamente lontana da quella dei diritti negati secondo Donald Trump. E il dibattito si è infiammato: qualcuno giustamente fa notare a noi di Left che Kamala Harris è troppo poco progressista poiché molto vicina, anzi vicinissima a Hillary Clinton (come se una vittoria, ai tempi, di Hillary Clinton su Donald Trump non sarebbe stata comunque una buona notizia rispetto a quello che abbiamo vissuto), qualcuno sottolinea i diversi errori (e qualche omissione) di Kamala Harris nel suo ruolo di procuratrice (i 1.500 arrestati per reati legati al fumo di marjuana, ad esempio, oppure la proposta di mettere in prigione i genitori di bambini che registravano un elevato tasso di assenze scolastiche). Ed è tutto vero, verissimo. Vero anche che Kamala Harris sia parte integrante dell’establishment democratico. Mi permetto di credere però che se esponenti molto progressiste femministe vedono nella sua elezione un ulteriore passo in avanti verso la caduta del tetto di cristallo ci saranno delle buone ragioni.

È estremamente preoccupante anche la posizione di Kamala Harris sulla questione palestinese, con la Palestina che ancora una volta non vede una gran luce dalle elezioni americane (Israele è corso subito alla corte di Biden). Ci sono, tra le dichiarazioni di Kamala Harris, frasi che fanno accapponare la pelle a chi come noi ha a cuore i diritti dei palestinesi.

«L’ultima raffica di attacchi missilistici da Gaza contro israeliani innocenti non può essere tollerata: Israele ha il diritto di difendersi da questi orribili attacchi. Mi unisco agli altri nell’esortare contro un’ulteriore escalation», ha detto a JewishInsider il 15 novembre 2019. Sul fatto che Israele soddisfi o meno gli standard dei diritti umani: «Nel complesso, sì» ha detto al New York Times, 19 giugno 2019. E poi: «Per questo motivo sostengo fortemente l’assistenza alla sicurezza dell’America a Israele e mi impegno a rafforzare il rapporto americano di sicurezza e difesa israeliana… Credo che quando una qualsiasi organizzazione delegittima Israele, dobbiamo alzarci in piedi e parlare apertamente contro di essa. Israele deve essere trattato allo stesso modo, ed è per questo che la prima risoluzione che ho co-sponsorizzato come senatore degli Stati Uniti è stata quella di combattere i pregiudizi anti-israeliani alle Nazioni Unite e di affermare e riaffermare che gli Stati Uniti cercano una soluzione giusta, sicura e sostenibile per due Stati» (intervento al Comitato ebraico americano, 3 giugno 2019).

Le debolissime politiche di Biden sui diritti dei palestinesi sembrano avere trovato un ottimo appiglio in Kamala Harris. Purtroppo per noi e purtroppo per tutti quelli che tengono alla situazione mediorientale. Sarà un’altra presidenza americana dura dalle parti di Gaza, senza dubbio. E su questo ci sarà da lottare.

Poi, mi sia concesso, il profumo dell’assenza di Trump è una vittoria politica. Una vittoria breve? Può essere. Noi siamo qui proprio per questo, per osservare e informare, osservare e informare, osservare e informare.

Buon mercoledì.

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Ci vogliono credenti. Ma sono credibili?

Con un paziente lavoro di raccolta di atteggiamenti e dichiarazioni Fabio Chiusi racconta la parabola di Luca Zaia nei confronti dell’app Immuni, quella che nelle intenzioni avrebbe dovuto aiutare la fase di tracciamento dei contatti dei positivi (che funziona poco e male) e che il governo ha fortemente sponsorizzato mentre una parte dell’opposizione ha osteggiato fin dall’inizio. Matteo Salvini, per dire, proprio ieri ha raccontato di non avere scaricato l’app perché sua figlia gli “incasina sempre il telefono”. Siamo un Paese così. Messo così.

Tornando a Zaia si torna al 26 marzo quando il presidente del Veneto proponeva di “sospendere la privacy” per garantire il tracciamento. Disse Zaia: «in questo Paese sono convinto che in questo momento bisognerebbe sospendere le norme sulla privacy e lasciare ai sistemi sanitari di essere un po’ più liberi». E si lanciò addirittura a proporre Israele come modello: «sulla tracciabilità abbiamo disponibilità anche da Israele per la verifica degli spostamenti con sistemi intelligenti», disse.

Il 20 aprile chiede addirittura che l’app sia obbligatoria e che i vigili possano controllare: «se noi passeggiamo per strada un vigile può controllare che abbia guanti e mascherine e poi chiedere di vedere il telefono, per verificare che la app sia accesa». Ci si immagina quindi che Zaia ci tenga veramente moltissimo all’utilità dell’app, a differenza del capo del suo partito.

Il 21 maggio Zaia cambia idea e dice che l’app è stata poco scaricata per le «giuste preoccupazioni di privacy e gestione dati». Quella stessa privacy che voleva abolire. Ma va bene così.

Arriviamo al 3 giugno quando il presidente del Veneto ci delizia con un’altra dichiarazione: «l’app immuni ha due grandi limiti il primo è che non sa dove finisce il gran bagaglio di dati, il secondo che rischia di mettere in crisi l’ossatura della sanità». Come possa entrare in crisi l’ossatura della sanità sapendo dei contatti a rischio è un mistero.

Arriviamo al 14 ottobre quando si scopre, grazie a una segnalazione del Corriere del Veneto che il database di Immuni nella regione non è mai stato aggiornato. Sostanzialmente l’app Immuni nel regno di Zaia è inutile.

E, badate bene, stiamo parlando di uno di quei presidenti che nei tempi della pandemia è stato ritenuto tra i più “credibili” e che ha sempre mostrato il pugno di ferro. Zaia dovrebbe essere, secondo molti, il compagno bravo e buono di Salvini. Però questa breve cronistoria ci pone un problema sostanziale che stiamo vivendo in questi mesi: la comunicazione della politica (tutta, mica solo Zaia) durante la pandemia è stata pessima, discordante, incoerente e spesso molto superficiale. Il governo e le regioni hanno dondolato tra dichiarazioni e scelte (spesso che si smentivano l’una con l’altra) che chiedono ai cittadini di “fidarsi ciecamente” di decisioni che forse sarebbe il caso di spiegare e di motivare con più cura, con più responsabilità e con più precisione. Perché altrimenti lo sforzo sembra quello di allevare cittadini credenti piuttosto che amministratori credibili. No?

Buon venerdì.

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Intanto Israele lancia il suo ultimatum ai migranti

A proposito di destrismi che inquinano il mondo, solo che di Israele, chissà perché, se ne lamentano sempre in pochi:

Lasciare il Paese per sempre oppure affrontare il carcere a vita. È l’ultimatum israeliano ai migranti che sono riusciti a rifugiarsi sul suolo ebraico. Ai 40mila profughi africani rimangono tre mesi. A chi se ne va nei prossimi novanta giorni verranno dati 3500 dollari, per tornare in patria o andare in altri paesi. Arrivano da Eritrea e Sudan, ma alcuni di loro ora potrebbero finire in Ruanda. Accadrà dopo l’annunciata chiusura del centro Holot nel deserto del Negev, per la gestione di quelli che lo Stato chiama “infiltrati” e non migranti, profughi o rifugiati. Ce ne sono 1420 nella struttura, 38 mila nel paese e sono arrivati scappando sulla sabbia bollente del deserto in fuga dalla guerra. Eppure Israele li considera migranti economici, perché sono entrati nel paese illegalmente e non li accetta per “preservare il carattere ebraico dello Stato”.

Lo stato dell’Africa orientale, il Ruanda, ha acconsentito ad accettarne diecimila, se Israele pagherà 5mila dollari per ogni profugo che verrà rispedito indietro. L’ong Hotline for Migrant Workers ha già documentato che cosa succede a chi decide di assecondare la scelta e tornare in Africa: minacce e morte. Amnesty International e l’Associazione per i diritti umani hanno mandato una lettera per chiedere di mettere fine alle espulsioni: “il Ruanda non è uno stato sicuro, chi vi arriva si trova senza status e senza diritti, esposto a rapimenti, tortura, traffico di esseri umani, minacce”. Filippo Grandi, Alto Commissario per i rifugiati alle Nazioni Unite, ha ricordato che questo piano viola la legge nazionale ed internazionale e che “Israele ha una dolorosa storia di migrazione ed esilio. Le nuove generazioni non devono dimenticare che i rifugiati non scappano per scelta, ma perché non hanno nessuna altra scelta”.

(fonte)

Scusaci, Vik

Ancora una volta. Come sempre. La Freedom Flotilla Zaytouna-Oliva in missione umanitaria verso Gaza è stata braccata dalla marina israeliana. Un’imbarcazione pericolosissima: un equipaggio interamente femminile (per ricordare il ruolo delle donne nei territori occupati) tra cui un premio Nobel. Ancora una volta la notizia rimarrà sepolta tra le esotiche vicende dai luoghi lontani che non ci interessano troppo. Ancora una volta la politica italiana rimarrà troppo silente (grazie a Pippo e Bea che hanno presentato alla Camera questa interrogazione per Possibile) e ancora una volta noi non riusciremo a raccontare la vicenda all’altezza del dolore che procura.

E ogni volta penso a come Vittorio Arrigoni invece trovasse la chiave giusta per dare un nome, una forma, un posto a notizie come queste. A come fosse chirurgico nel racconto. E quanto poco ci riusciamo noi.

Seguiamo la vicenda. Almeno noi.

#Gaza: i disertori d’Israele che si rifiutano di bombardare

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Udi Segal, 19 anni, israeliano, sta aspettando di essere preso e incarcerato nella prigione militare Prison Six dalle autorità del suo paese. L’accusa è aver rifiutato di arruolarsi nell’esercito: “Israele può continuare questa occupazione, ‘but not in my name’, non nel mio nome”, racconta a IlFattoQuotidiano.it. Un sondaggio del Jerusalem Post rivela che l’86% dei cittadini israeliani si dichiara favorevole all’operazione Protective Edge. Dall’altra parte, però, almeno 50 soldati dell’Israel Defense Force hanno annunciato il loro rifiuto di partecipare all’operazione e migliaia di rappresentanti delle comunità ebraiche di tutto il mondo, guidate dal movimento di ebrei ortodossi antisionistiNeturei Karta, stanno manifestando nelle piazze contro l’attacco israeliano a Gaza.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, ieri in tremila sono scesi in piazza Rabin, a Tel Aviv, per manifestare contro i raid d’Israele sulla Striscia. “L’appoggio del paese alla politica del primo ministro,Benjamin Netanyahu, è ancora forte – spiega Segal – ci sono molte persone, però, che sono stanche di questa guerra. Solo tra i miei coetanei, conosco almeno 120 o 130 ragazzi che hanno preso la mia stessa decisione”. A New York, Parigi, Londra, migliaia di ebrei hanno manifestato in strada al grido di “Palestina libera” e “no allo stato d’Israele” per protestare contro la politica militare del premier israeliano. A capo della maggior parte di queste manifestazioni c’erano gli ebrei ortodossi di Neturei Karta, un movimento antisionista nato a Gerusalemme nel 1938.

Il principio che muove il gruppo e i rappresentanti dell’ortodossia ebraica che non appoggiano le idee sioniste, però, non è di matrice politica, ma religiosa. Sostengono, infatti, che la costituzione di uno stato d’Israele violi le leggi della tradizione religiosa. Secondo i testi sacri, la diaspora ebraica è il frutto dei numerosi peccati commessi dal popolo d’Israele e solo l’avvento del Messia potrà restituirgli una patria. L’accusa mossa da Neturei Karta nei confronti dei sostenitori dello stato ebraico è quella di violare le leggi della tradizione religiosa, strumentalizzandola per meri fini politici. I membri del movimento sostengono che l’Onu, riconoscendo lo stato d’Israele, abbia commesso un’ingiustizia anche nei confronti del popolo ebraico.

“Quando mi sono avvicinato all’età della leva obbligatoria – racconta Segal – ho iniziato a leggere, studiare e documentarmi sul conflitto tra Israele e Palestina. È più di un anno che mi informo sui giornali e studio la storia e ho deciso che non posso prendere parte a questa occupazione”. In Terra Santa molte altre persone hanno deciso di fare obiezione di coscienza per protestare contro l’occupazione israeliana nella Striscia di Gaza e nella West Bank, rischiando il carcere come Udi Segal. “Non so ancora di preciso quanto rimarrò in carcere – continua Segal -, anche se la pena prevista in questi casi è di circa 6 mesi. Non basterà questo a farmi cambiare idea in futuro”. Anche 50 soldati israeliani hanno deciso di rifiutare qualsiasi incarico nei territori occupati. Lo hanno comunicato con una lettera al Washington Post in cui spiegano i motivi che hanno portato alla loro decisione: “Ci opponiamo – scrivono – all’esercito israeliano e alla legge sulla leva obbligatoria perché ripudiamo questa operazione militare”.

Quello di Udi Segal, però, non è un caso isolato. Il primo risale 1954, quando Amnon Zichroni, militare, chiese di essere sollevato dal servizio militare perché pacifista. Da quel momento in poi sono molti i movimenti che raggruppano, per motivi diversi, obiettori di coscienza o militari che si rifiutano di servire l’esercito. Nel 1982, durante la guerra tra Israele e Libano, è nato il movimento Yesh Gvul formato da veterani dell’esercito che si rifiutarono di combattere per Israele al confine con il Libano. Questo “rifiuto selettivo” si estese, successivamente, anche ai territori occupati. Il più famoso e nutrito gruppo di militari che hanno deciso di non combattere nei territori occupati è l’Ometz LeSarev o “Coraggio di rifiutare“. I 623 componenti del movimento, formatosi nel 2002, si sono rifiutati di combattere nella Striscia di Gaza e in West Bank, ma hanno giurato di servire fedelmente il loro paese in qualsiasi altra operazione militare. Per questo, nel 2004, il gruppo è stato candidato al premio Nobel per la pace.

(fonte)

(la lettera dei soldati)

Le novità dalla Freedom flotilla

Le autorità israeliane hanno espulso l’ex presidente tunisino Moncef Marzouki e la eurodeputata Ana Miranda che si trovavano a bordo di una imbarcazione umanitaria in rotta verso la Striscia di Gaza con l’obiettivo di rompere l’assedio.La Marina israeliana ha accostato la nave ‘Marianna’ scortandola verso il porto di Ashdod senza incidenti. Le altre tre imbarcazioni della Freedom Flotilla salpata da Creta lo scorso 26 giugno, sono ripartite verso porti greci. In totale 16 cittadini di diverse nazionalità e due israeliani si trovavano a bordo della Marianna.
La piccola flotta voleva portare a Gaza attrezzature mediche e pannelli solari per la popolazione palestinese, ridotta allo stremo dopo un assedio in corso dal 2007, alle prese con gravi carenze di generi alimentari, medicinali e mancanza di energia elettrica.
Questa è la terza spedizione tentata dagli attivisti filo-palestinesi dopo che la prima, nel maggio del 2010, si era conclusa con la morte di nove persone. Questa volta non ci sono stati incidenti.

Palestina: anche il Vaticano ci batte in laicità

Lo spiega bene IlPost:

Mercoledì il Vaticano ha riconosciuto ufficialmente lo stato palestinese, nominandolo per la prima volta in un trattato bilaterale. Il Vaticano aveva già aderito alla decisione presa nel 2012 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in cui si promuoveva la Palestina da “entità non statuale” a “stato osservatore non membro”. Il trattato di oggi è comunque il primo documento legale in cui il Vaticano parla di “Stato di Palestina” anziché di “Organizzazione per la Liberazione della Palestina” (OLP): si tratta di fatto di un riconoscimento ufficiale. Domenica prossima il presidente palestinese Mahmoud Abbas e Papa Francesco si incontreranno in Vaticano, prima della messa di canonizzazione di due suore nate in Palestina nell’Ottocento.

Sulla Palestina il Parlamento italiano balbetta e il Vaticano decide. Altro che Dan Brown.

 

Torno a Gaza anche senza gambe

faiz2In primo piano c’è una donna col capo coperto, intenta a scappare mentre dal cielo piovono schegge di morte. Sullo sfondo cumuli di macerie a perdita d’occhio, deserto di solitudine e distruzione. Questa è una delle foto scattate a Gaza da Momen Faiz, giovane fotografo palestinese costretto su una sedia a rotelle dopo che, nel 2008, i proiettili israeliani gli hanno portato via le gambe.

«È successo mentre ero in servizio», racconta. «Indossavo un cappello e un giubbotto con la scritta “stampa”. Mi ero appostato per fotografare la frontiera chiusa, che impediva il passaggio delle merci necessarie a festeggiare la Id al-Adha, la tradizionale festa islamica del sacrificio».

Di colpo frastuono, sangue, poi più nulla. Momen non può più camminare, resta invalido per sempre.

Una vita, la sua, che non è mai stata facile. Orfano di padre, è il più piccolo di sette fratelli. Nonostante le tante bocche da sfamare, sua madre crede nel valore dell’istruzione: Momen si iscrive alla facoltà di Giornalismo e media, anche se l’incidente blocca il suo percorso.

Si ferma, ma non si arrende. «Dopo quell’attacco la mia vita è cambiata», spiega, «ma io ho scelto di continuare il mio lavoro». Così ogni mattina esce di casa con la macchina fotografica per immortalare la tragedia che travolge Gaza. Ovunque strazio e macerie.

Tornare sui campi di battaglia non è facile per chi ha subito un trauma come il suo. C’è la disabilità, c’è la paura. Ma c’è anche la voglia di continuare a essere un fotoreporter, di documentare crimini e massacri, perché sia i contemporanei che i posteri ne abbiano memoria. Chi crede ancora che esistano guerre giuste dovrebbe conoscerlo di persona o almeno parlarci mezz’ora al telefono. Dovrebbe guardare le sue foto, un grande, pacifico manifesto contro tutte le guerre.

(clic)