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lavoratori

La democrazia secondo Confindustria

Carlo Bonomi si è lanciato perfino in un neologismo: “democrazia negoziale”. Quando mi è capitato di leggerlo ho pensato che la democrazia è democrazia, ed è contendibile per natura altrimenti non lo sarebbe poi ho letto ancora di più e mi sono accorto che sarebbe “una grande alleanza pubblico-privato” in cui “il decisore politico non ha delega insindacabile per mandato elettorale” ma dialoga “incessantemente attraverso le rappresentanze del mondo dell’impresa, del lavoro, delle professioni, del terzo settore, della ricerca e della cultura”. È un fighissimo esercizio retorico ma in realtà, grattando grattando, significa che secondo Bonomi Confindustria dovrebbe essere la terza Camera dell’iter parlamentare. I cittadini votano un governo ma il governo deve essere avallato da loro. Forte, eh?

Peccato che proprio sulla rappresentanza di Confindustria ci sarebbe qualcosa da ridire visto che la Confindustria di oggi rappresenta quel bel capitalismo fatto con i soldi degli altri (Eni, Enel, Leonardo, Poste, tanto per citare qualcuno) che ha consigli d’amministrazione decisi dal governo e ha perso parecchia rappresentanza di quel capitalismo privato che ormai dalle nostre parti è diventato una rarità.

Ma non è tutto, no. Confindustria per bocca del suo presidente Bonomi ha criticato (legittimamente) le scelte del governo definendo (legittimamente) assistenzialismo le iniziative prese come i bonus e la cassa integrazione: peccato che proprio Confindustria abbia usato la cassa integrazione per i giornalisti del suo quotidiano Il Sole 24 Ore. Curioso, no?

E poi c’è la ricetta per ripartire, questo è il vero capolavoro: meno regole per gli appalti, più cemento per tutti e soldi alle imprese e possibilmente più possibilità di precarizzare i lavoratori. Sono le stesse ricette di tutti questi stessi anni. Sempre.

Sarebbe bastato dire invece: «caro Conte sappiamo che arriverà una montagna di soldi dall’Europa e vogliamo la nostra fetta». Un po’ crudo, molto più apprezzabile. Senza nemmeno troppo sforzo nell’inventare nuove parole.

Buon venerdì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La giustizia sociale non è un tic

Il trucco è sempre lo stesso: qualcuno chiede giustizia sociale (soprattutto chi di ingiustizia sociale ci muore e si marcisce) e quegli altri rispondono che è un tic. Una volta sono gli antifascisti, una volta sono i giovani mai contenti, una volta sono le femministe nevrotiche, una volta sono i neri che vorrebbero essere bianchi, una volta sono gli stranieri che vogliono solo diritti, una volta sono i comunisti che vogliono dignità salariale, una volta sono i poveri che pretendono di essere ricchi, una volta sono i lavoratori che pretendono una giusta paga, una volta sono gli omosessuali che vorrebbero essere come gli altri, una volta sono i laici che pretendono troppo di essere laici, una volta sono i garanti che pretendono garanzie anche per gli assassini. È tutto così: chiedi un diritto e vieni etichettato come fronda, vieni messo nello scaffale di qualche associazione di idee e di persone e la richiesta di giustizia sociale viene trattata come il solito refrain da tralasciare com’è sempre stato tralasciato.

Il trucco è sempre lo stesso: normalizzare la mancanza di diritti come una situazione a cui non si può porre rimedio e come una conseguenza naturale di un modello che è l’unico possibile. Così mentre accade che negli Usa gli stranieri siano stanchi di un razzismo che oggi si è trasformato in profanazione socio economica qui da noi i subappaltatori dei rider di UberEats hanno l’impunità di dirci che i loro lavoratori  «sono africani perché gli italiani vogliono 2 mila euro al mese. Basta retorica del ‘poverini». Retorica dei poverini, eccolo il tic. E lo stesso vale per quelli che raccolgono la frutta nei campi.

La giustizia sociale non è un tic, no. E non è qualcosa che può essere coperta ogni volta invocando una guerra o una ribellione pericolosa. Quando negli Usa hanno ucciso George Floyd i bianchi vedendo le immagini hanno sospirato “oh, no” mentre i neri hanno pensato “è successo ancora”. Se avete la sensazione che su alcuni diritti “si continui a parlare sempre delle solite cose” è perché le solite cose non si sono mai risolte e sono ancora lì, a gridare vendetta.

Reclamate il diritto di essere perseveranti, giorno dopo giorno, goccia dopo goccia. Qualcuno vi additerà come noiosi e invece siete solo fedeli a voi stessi.

Buon giovedì.

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Reddito cittadinanza, il razzismo dei pochi fortunati lavoratori contro l’uomo sul divano


Dirò di più: sono sempre dalla parte della ridistribuzione del denaro in un mondo in cui il ricco continua ad arricchirsi e i poveri diventano sempre più poveri. Sarò sempre dalla parte di uno Stato che non ti affossa perché l’età anagrafica, la condizione sociale o semplicemente i fortunati casi della vita hanno fatto di te un relitto produttivo, uno scarto del mercato e un cittadino percepito come un fastidioso costo.
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Il colloquio di lavoro

(Ripensavo a un testo per questo primo maggio e per questo lavoro piuttosto deteriorato e mi è venuto in mente un capitolo del mio romanzo Santamamma. Ora, non è mai bello autocitare un romanzo, suona sempre come mossa promozionale, eppure è una scena che contiene molte delle cose che ho vissuto io che sono di quella generazione a cavallo tra il “lavoro” come lo intendevano i nostri genitori e poi il “lavoro” come sarebbe diventato. Eccolo qui)

«Carlo Gatti»

«Sì, buongiorno. Eccomi.»

«Titolo di studio?»

«Maturità classica.»

«E basta?»

«Già, sì.»

«Strano, una maturità classica senza università…»

«Ho preferito cominciare a lavorare.»

«Sì. Ma non ha cominciato a lavorare visto che è qui per il colloquio.»

«Ho fatto il benzinaio.»

«Con la maturità classica. Un po’ pochino, eh. Chissà come saranno stati fieri i suoi genitori.»

«Lavoro estivo. Una cosetta così.»

«Ma qui c’è scritto settembre aprile.»

«Intendevo estivo nell’interpretazione. Anche se d’inverno.»

«Ah, nell’interpretazione, pensa te. Speriamo che non interpreti anche di fare finta di lavorare, ahinoi.»

L’ufficio aveva piante finte in tutti gli angoli. Smorte comunque. Almeno una spolverata, pensavo, almeno quella ci vorrebbe. Lui rigirava una penna. Lo insegnano a tutti gli ingiacchettati: tenere qualcosa tra le mani evita la fatica di pensare dove metterle. Trucchetto curioso per chi dovrebbe ribaltare l’economia del mondo, ma tant’è. I colloqui di lavoro hanno tutti un filo comune: la recitazione da parte dell’esaminato di un bisogno ma non troppo, di un entusiasmo ma non troppo, di competenze ma non troppo, di umiltà ma non troppo, di troppa buona educazione e una combinazione d’abiti che non vedi l’ora di dismettere. L’esaminatore, invece, sfoggia l’abilità di esaminare ma non troppo, annusa che tu sia brillante ma che non possa fare ombra, gioca al caporale e tu la truppa e poi diventa servo se entra il capo. Al decimo colloquio di lavoro potresti farne la regia in un teatro da mille posti, disegnarne la radiografia. Che messinscena.

«Suona. Anche.»

«Suonavo. Ho studiato pianoforte fin da piccolo. E violoncello.»

«La mia figlia più piccola va a danza. Le maestre dicono che sia portata. Vedremo un po’. Quindi ha suonato alla Scala?»

«Alla Scala c’è una stagione sinfonica. Non concerti solisti.»

«Ho capito, ho capito. Suonava così. Per passione…»

«Ho studiato. Frequentavo anche il conservatorio.»

«Ah, è diplomato! Allora un giorno la invito a vedere mia figlia ballare così mi dice.»

«Non mi sono diplomato. Mi sono fermato al nono anno.»

«Gatti, Gatti… non è riuscito a finirne una…»

«Ho avuto un lutto in famiglia.»

«Oh, mi spiace.»

Almeno un limite di potabilità, me lo ero imposto. Almeno non farsi sbavare addosso. E il lutto è un jolly: funziona a scuola per l’interrogazione e funziona anche qui. Del resto sono tutti maestrini, questi qui.

«Le spiego. Lei sa di cosa ci occupiamo?»

«Ho preso alcune informazioni. Consulenza aziendale specializzata in logistica, mobilità e ottimizzazione.»

«Ha sfogliato il depliant. Almeno quello l’ha finito.»

«Mi informo sempre. Amo sapere con chi sto andando a parlare.»

«Va bene Gatti, adesso non esageriamo. Quello è il mio lavoro. Comunque: esistiamo dal 1949 e il fondatore era un piccolo padroncino che si occupava di consegne e spedizioni nella zona fino poi a coprire tutto il territorio nazionale. Quando l’azienda è passata di mano al figlio, il signor Monti che poi è quello che la pagherebbe se io decido che lei può andare bene, abbiamo deciso di internazionalizzare l’impresa e oggi siamo tra i leader in Europa nella consulenza per le più importanti aziende logistiche. Trattiamo bancali e container che partono dall’Islanda e viaggiano fino alla Nuova Zelanda. Spedizioni che fanno il giro del mondo. Mi segue?»

È forte questa cosa degli incravattati che ripetono manfrine sulla storia dell’azienda com’è scritta sui volantini. È la recita di natale che si ripropone nella versione adulta, solo che qui a noi tocca fare i parenti commossi.

«Noi ci occupiamo che la spedizione avvenga con tutti i crismi: velocità, cortesia, qualità e produttività, soprattutto. Produttività. Abbiamo due divisioni: slancio e controllo. La figura che cerchiamo è per il reparto di slancio.»

«Sì. Di slancio. Che sarebbe?»

«Molto semplice. Il cliente x dice che deve spedire il bancale y da Roma a Berlino. Lei ha i numeri telefonici dei camionisti che collaborano con noi e il nostro sistema le fornisce un’indicazione di prezzo che noi chiamiamo cuneo. Il suo lavoro è di trovare velocemente quale dei nostri trasportatori è disposto a fare la tratta al prezzo più basso. Sulla differenza tra il cuneo e il prezzo che lei è riuscito ad ottenere le spetta una provvigione del 2,5% fino a un abbassamento del 25%, una provvigione del 5% fino al 50% e addirittura del 10% se il cuneo supera il cinquanta. Sembra difficile ma è molto semplice: quel viaggio dovrebbe costare 10.000 euro ma lei riesce a venderlo a un camionista a 5000 e con una telefonata si  è guadagnato 500 euro puliti. Mica male, eh?»

«Eh.»

«Già.»

«Ma perché slancio?»

«Il nome? Perché questo nome?»

«Sì. Una curiosità.»

«Mi sembra facile. Iniettiamo soldi nel mondo del lavoro, creiamo economia, spostiamo merci, accontentiamo clienti e lavoratori. Se al camionista non arrivasse quella telefonata avrebbe il camion fermo in giardino per farci giocare il figlioletto con il clacson e la leva del cambio. Il suo lavoro è tenere tutte queste persone in circolo, con tutti i loro talenti.»

Qui sorrise con trentadue canini. Era evidente che aveva trovato una formula diversa dalla consuetudine intirizzente e ne era entusiasta. L’avrebbe raccontata ai colleghi, agli amici del golf e alla mogliettina simulatamente fiera che l’avrebbe ascoltato mentre sceglieva il sushi. Da noi, in quegli anni lì, il sushi era un marziano con il salotto aperto solo agli eletti.

«Ma lei capisce, signor Gatti, che la responsabilità del ruolo e il prestigio dell’azienda ci impone di scegliere persone con i giusti talenti.»

Daje, con i talenti. Mi venne in mente zio Paperone. Con i sacchi di talenti.

«Per questo ho bisogno di sapere tutto di lei e di protocollo le farò anche delle domande personali. Dobbiamo avere la certezza di affidare il nostro slancio a persone che insieme a noi vogliano cambiare il mondo, aperte a sfide nuove e capaci di interagire con il futuro dandogli del tu.»

«Ovvio.»

«Mi dica Gatti, perché è interessato ad entrare nel mondo della logistica e della grande distribuzione?»

«Perché amo la mobilità. Ecco.»

«Cioè?»

«Credo che il commercio sia la più alta realizzazione delle capacità umane e essere partecipe di un’organizzazione che riesce a dare del tu a tutti i continenti sia una bella sfida.»

«Perfetto. Molto bravo. Ha già capito il nostro spirito. Siamo esploratori, noi. Ha intenzione di farsi una famiglia?»

«Certamente. Pur rispettando la mia autonomia.»

«Appunto. Perché qui non si può fermare il mondo per un anniversario, lei mi capisce. Questo non è un lavoro…»

«È una missione.»

«Una missione. Esattamente. Vuole avere figli?»

«Per ora no. Una famiglia mi basterebbe. Vorrei prima concentrarmi sulla realizzazione personale

«È molto maturo per essere un musicista della domenica, Gatti. Anche se ha letto il greco e latino.»

«La ringrazio.»

«Qui c’è gente che si è presentata in braghe di tela come lei e ora si porta a casa dodici, quindici, diciotto milioni al mese. Ma bisogna crederci, essere all’altezza dei propri sogni, come dice il nostro capo tutti gli anni alla cena di natale. Mi dica Gatti, ma lei è all’altezza dei suoi sogni?»

«Oh certo.»

«Perché qui ha il dovere di sognare. Non so se mi capisce. Questo non è un lavoro, come dirle, è l’affiliazione a un sogno. Qui non ci sono orari e domeniche perché i nostri collaboratori hanno bisogno di venire in ufficio, hanno bisogno di ribassare il cuneo e sentono la necessità di dimostrare al mondo che è possibile spostare un bancale di mille chilometri a metà del prezzo che la società ci vorrebbe imporre. È un fuoco che senti dentro».

«Capisco bene.»

«Capisce, va bene, ma lei ce l’ha il fuoco? Me lo faccia vedere! Ce l’ha il fuoco dentro?»

Sai che forse ci credono davvero questi a quello che dicono? Francesco una volta mi disse che sì, che secondo lui succede che a forza di riempire di polpettone il tacchino qualche tacchino si convince di essere polpettone. Lui aveva suo padre che vendeva porte blindate, le porte blindate più blindate tra le porte blindate, e quando a casa di Francesco gli zingari gli sono entrati in casa per rubargli pochi spicci, le mozzarelle e cagargli sul divano anche quella volta lì suo papà disse che dovevano essere una banda di professionisti, rapinatori da musei e ministeri, se erano riusciti a debellare la sua porta blindata.

«Io ce l’ho il fuoco. Me lo sento che brucia.»

«Perché questo è il punto di partenza essenziale. Senza quello io e lei non facciamo neanche questo appuntamento, altrimenti. Perché è lei che vuole venire con noi. Ma come lei ce ne sono migliaia. E bisogna scegliere bene chi ci prendiamo in famiglia.»

«Certamente. La sua è una bella responsabilità, mi immagino.»

«Lo può dire forte, Gatti! Lo può scrivere mille volte sulla lavagna! Ma lei cosa vuole fare da grande?»

«Essere in squadra per una grande impresa

«Molto bene.»

«Grazie.»

«Guardi questo test, guardi qui. Deve mettere una croce. È alla guida di un treno e c’è una biforcazione. Se continua sulla sua direzione troverà sei persone sui binari e inevitabilmente sarò costretto a ucciderli però può azionare lo scambio e decidere di prendere l’altra biforcazione dove sui binari c’è un uomo solo. Da che parte va, lei, Gatti?»

«Non è facile.»

«Non c’è tempo Gatti! Non ha troppo tempo! Non si può spegnere lo slancio!»

«Ne uccido uno solo, forse.»

«Ma è colpa sua, così!»

«Beh, non credo che se uccido gli altri sei mi facciano patrono del paese…»

«Sa qual è la risposta giusta?»

«No.»

«La risposta giusta anche se non c’è il quadretto della risposta giusta?»

«Mi dica.»

«La strada più breve. La più breve è la risposta giusta.»

«Ah, ok.»

«Ha qualche domanda?»

«Niente in particolare. Volevo chiedere, nel caso in cui io possa andare bene, l’inquadramento. Lo stipendio.»

«Le do un consiglio Gatti. Al di là di questo nostro incontro e che poi venga o no a lavorare con noi. Le do un consiglio. Parlare di soldi a un colloquio di lavoro è terribilmente inelegante».

«Sì, questo lo so».

«Però ci è ricascato. Pensi lei se io dovessi essere così rozzo da raccontarle che dispendio di soldi, tempo e energie è per noi fornirle una postazione, occuparci del telefono, le cuffie, il computer, i programmi, il suo armadietto, il badge, la mensa. Pensi quanto mi costa impiegare qualche collega esperto, di quelli che hanno lo slancio dentro, per spiegarle come funziona. Pensi a uno della nostra squadra che piuttosto che iniettare economia deve istruire uno appena arrivato. Gliene ho parlato? Forse mi ha sentito che le faccio pesare il fatto che qui da noi sapere sviolinare il pianoforte conta come il due di picche quando briscola è bastoni? È cambiato il mondo per voi giovani. Io vi invidio. Avete di fronte un futuro aperto a tutte le possibilità: la domanda che dovete fare non è «quanto mi pagate» ma «quanto valgo, io?». Io non le do niente, io non voglio essere come una volta il padrone della sua vita, io sono qui perché lei mi dica quanto guadagnerà. Sono io che glielo chiedo. Quanto guadagnerà Gatti?»

«C’è un rimborso spese?»

«Sono duecentocinquantamila lire di anticipo di provvigioni per i primi sei mesi. Volendo vedere c’è anche un milione di computer sulla sua scrivania, ottocentomila lire di media di bolletta telefonica per ogni collaboratore, la cancelleria e soprattuto questa azienda che vede, che il proprietario ha voluto bella e accogliente più di casa sua.»

«Ho capito. Mi è tutto chiaro.»

«Lei mi piace Gatti. Glielo confesso perché mi piace. Magari mi sbaglio anche se in tutta la carriera non mi sono sbagliato mai ma sento il suo fuoco. Mi prendo il rischio, via: se vuole domani ci vediamo alle 7 e iniziamo. Non lo dica a nessuno che l’ho deciso così su due piedi ma ogni tanto voglio fidarmi del mio istinto. Forse si è perso un po’ con la musica e la scuola ma le posso raccontare di un collega che non sapeva nemmeno parlare in italiano e ora è un caporeparto con la Golf aziendale e uno stipendio da favola. Non le dico il nome solo perché sarebbe inelegante ma lei ha quella luce negli occhi. Se lo prende qui da noi il diploma, si laurea in slancio. Eh?”

«Domani però non posso. Domani.»

«E perché?»

«Ho avuto un lutto.»

«Mi dispiace tanto.»

«Però vi chiamo. Vi chiamo io.»

«Va bene Gatti. Va bene. L’aspettiamo. Come una famiglia!»

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E datteri, un sacco di datteri

Detto ciò, volendo vedere i lati positivi, queste ultime settimane sono state una specie di viaggio allucinato fra video di Kpop, complessi di edifici deserti e computer settati in arabo, in totale alternanza fra disorientamento ed esaltazione. E datteri, un sacco di datteri.

Com’è lavorare per Expo, detto da una che ci lavora: Marta Bertoni qui Per VICE.

Fatevi un’idea.

Cantiere Expo - 200 giorni

Al San Raffaele le macerie si chiamano tagli

Direbbe Vik che in fondo il segreto è di restare umani. Umani per non perdersi dietro le voci di candidature, di primarie e di tutto quello che si rincorre nei giornali di questi giorni mentre ancora non sono usciti i contenuti e rimangono a galleggiare solo le opinioni (quanto è credibile questo, quello, i capelli lunghi, il figlio di, l’attore, i moderati e tutto il resto su cui oggi comunque avremo modo di tornare).

Però succede altro in questi giorni di parole e piogge, come racconta il Corriere:

Presidio permanente dei sindacati e dei dipendenti del San Raffaele per protestare contro i 244 licenziamenti previsti dalla proprietà (il gruppo della famiglia Rotelli). Dopo una riunione in aula sindacale, dall’Rsu annunciano «una forma di lotta che durerà il tempo di tutta la trattativa». Giorno e notte. Obiettivo della protesta è far «ritirare la procedura di licenziamento per salvaguardare l’eccellenza dell’ospedale». Il piano del San Raffaele (definito un «attacco frontale» dai sindacati) punta ad un risparmio di circa 10 milioni. Le precedenti proposte erano state respinte, tra cui quella di una riduzione degli stipendi del 10%.

Il tema del San Raffaele è il cuore del formigonismo che ha mostrato tutte le sue lacune: non solo in un fallimento politico che ha frantumato la politica Lombarda ma una macelleria sociale di lavoro e lavoratori. Perché se il San Raffaele garantisce “eccellenza” senza tenere conto dei lavoratori, dei bilanci, dell’etica nei rapporti con la politica, della cristianità nelle proprie azioni tra dirigenti allora dovrebbero spiegarmi di che eccellenza si tratta. Ma davvero.

Caro Marchionne ci sarà un tempo in cui tutti coloro che hanno avallato le sue scelte prenderanno le dovute distanze.

Silvia adesso lotta contro la chiusura dell’Irisbus perchè, a fine anno, dalla Cig dovrà passare alla mobilità in assenza di un progetto industriale. E la mobilità dura solo due anni. Con gli altri colleghi operai ha preso contatti con la BredaMenariniBus, l’unica fabbrica italiana di autobus urbani (l’Irisbus, una volta Iveco, produceva pullman), per tentare una vertenza collettiva. Sono convinti che il piano di sviluppo per l’Italia passi anche per la ristrutturazione ed il miglioramento del trasporto pubblico. Silvia è splendidamente raccontata da Marika Borrelli. E ha deciso di scrivere a Marchionne:

Caro Sergio Marchionne,

anche se con molto ritardo, ritengo sia giunto il momento di rispondere alla sua lettera, inviatami il 9 luglio 2010. Vorrei tanto poterla incontrare perché ho delle domande da porle e, soprattutto, vorrei cercare di capire dov’è finito l’uomo che ci disse: «Scrivere una lettera è una cosa che si fa raramente e solo con le persone alle quali si tiene veramente. Vi scrivo prima di tutto come persona, prendete questa lettera come un modo più diretto e più umano che conosco».

So che non è sua abitudine interloquire con chi ha di fronte, che non ama il confronto né il conflitto; mentre io penso che alla base di ogni rapporto ci sia prima il confronto e, se necessario, anche un sano conflitto per poter raggiungere degli obiettivi.
DA 30 ANNI IN FABBRICA. Io in fabbrica ci sto da 30 anni, ho svolto tantissimi lavori e ho contribuito, senza presunzione, ai profitti dell’azienda. Ecco perché mi sembra irrispettoso da parte sua togliermi il lavoro che ho svolto sempre con il massimo impegno e continuità, nonostante i tanti disagi.
Se era vero che teneva a noi, perché ha cambiato idea? Un uomo, quando fa delle scelte così difficili, deve avere il coraggio di guardare negli occhi coloro che ne pagheranno le conseguenze, altrimenti è solo un codardo.
Come mamma, anche io ho dovuto guardare negli occhi i miei figli per dire loro che le cose sono cambiate e che bisogna essere pronti a fare enormi sacrifici. Ma anche che dobbiamo resistere e rimanere insieme, perché restare uniti nei momenti di difficoltà è la sola cosa che aiuta.
OPERAI SENZA ALTERNATIVA. Lei non ha voluto fare questo sforzo. Non ha atteso che passasse la bufera. Ha gettato la spugna cercando di mettersi al sicuro. Troppo semplice così: i veri eroi sono quelli che resistono soprattutto nei momenti di difficoltà. Ma lei l’alternativa l’aveva, noi no.
«Vi scrivo da uomo», continuava la sua lettera, «che ha creduto e crede ancora fortemente che abbiamo la possibilità di costruire insieme, in Italia, qualcosa di grande, di migliore e di duraturo. Perché la cosa peggiore di un sistema industriale, quando non è in grado di competere, è che alla fine sono i lavoratori a pagarne direttamente e senza colpa, le conseguenze». Perché ha dimenticato tutto questo? E il fatto che nelle fabbriche c’erano uomini e donne, ognuno con una propria storia e con una famiglia e dei figli da mantenere?
Senza rancore, le chiedo di avere l’umiltà di ammettere che ha fallito. Il suo piano di Fabbrica Italia ha seminato un numero indefinito di disoccupati; 50enni senza pensione e giovani senza futuro.
LO SPETTRO DEGLI SPECULATORI. L’Italia, Paese che lei dice di amare, resterà probabilmente senza la Fiat e, se il governo non interviene, rischiamo di finire in mano agli speculatori che vorranno appropriarsi solo dei nostri marchi.
Se l’obiettivo era quello di abbassare il costo del lavoro, forse l’ha ottenuto. Noi saremo, in futuro, il Paese in cui sarà più utile investire. Una volta affamati non saremo più liberi di poter scegliere e se avremo un lavoro sarà senza diritti e a basso salario.
Eppure lei scriveva: «Non abbiamo intenzione di toccare nessuno dei vostri diritti, non stiamo violando alcuna legge. Quello che stiamo facendo è tutelare il lavoro, proprio quel lavoro su cui è fondata la Repubblica italiana. Non c’è nessuna contrapposizione tra azienda e lavoratori, sappiamo bene che la forza di un’organizzazione arriva dalle persone che ci lavorano e lo avete dimostrato nel 2004 salvando la Fiat dall’orlo del fallimento». E continuava: «Quello di cui c’è bisogno è un grande sforzo collettivo, una specie di patto sociale per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici. È il momento di guardare al bene comune e di lasciare da parte gli interessi particolari. Sono convinto che anche voi, come me, vogliate per i nostri figli e per i nostri nipoti un futuro diverso e migliore».
LA CHIUSURA DELLO STABILIMENTO. Noi quei sacrifici li stavamo facendo, avendo accettato la sfida. Lei invece ha inevaso tutte le promesse, chiudendo il nostro stabilimento. Sottolineo nostro perché ritengo che la Fiat, proprio per i motivi da lei citati, sia anche nostra.
Le parole scritte nella sua lettera hanno un acre sapore di postumo. Resta l’amarezza di non avere avuto il diritto di replica.
Ma anche per lei non si prospettano momenti sereni. Ci sarà un tempo in cui tutti coloro che hanno avallato le sue scelte e l’hanno osannata in parlamento nel febbraio del 2011, prenderanno le dovute distanze. La storia ci insegna che questa, in Italia, è una pratica molto diffusa.

Silvia Curcio operaia Irisbus

Lunedì, 03 Settembre 2012 

Federmeccanica marchionizzata

Mi scrive l’amico Alessandro Diano:

Buongiorno Giulio.

Se interessa per i prossimi incontri/proposte/temi sul lavoro, un valido sindacalista CGIL mi segnala un grave comunicato FIOM di ieri (vedi allegato) sul delicato rinnovo CCNL (l’unico strumento efficace poiché unitario) per cui -com’era prevedibile- anche Federmeccanica si adegua all’ipotesi di eliminazione di un contratto nazionale (negazione del ruolo negoziale della RSU, etc.).

Credo che se questo paese di distratti non si sveglia, si rischia davvero di non avere più né il CCNL con le sue tutele, né lo stato sociale né la sanità pubblica, né la scuola pubblica, poiché temo basti semplicemente smantellare per ultimo il “diritto al calcio” (che crea anche l’incostituzionale indifferenza) per far passare proprio di tutto.

Anche la negazione ministeriale della prima parte del tuo articolo Costituzionale preferito.

Doverosi saluti di diritto,
ale

Il comunicato di cui mi parla Alessandro è poco reperibile in rete ma parla chiaro:

Nella propria assemblea annuale a Bergamo Federmeccanica ha varato le «linee guida» per il rinnovo del Ccnl e ha affermato, senza mezzi termini, che il Contratto nazionale dei metalmeccanici non deve essere rinnovato a tutti i costi ma solo se risponde positivamente alle necessità delle imprese. Dalle linee guida di Federmeccanica emergono i seguenti punti:

  • il salario flessibile che cancella la certezza dei minimi contrattuali; saranno le imprese e le loro condizioni produttive e di mercato a stabilire se in azienda verrà erogato o meno il minimo salariale stabilito nel Ccnl;
  • la cancellazione di tutti gli automatismi salariali definiti a partire, come hanno dichiarato, dagli scatti di anzianità; ma gli automatismi interessano anche i passaggi di categoria, i passaggi temporanei di mansioni, le trasferte ecc.;
  • cancellare il diritto al pagamento dei primi tre giorni di malattia e legare il salario alla presenza;
  • l’aumento dell’orario di lavoro individuale, dei turni, dei giorni lavorativi attraverso la massima flessibilità degli orari individuali e collettivi e il massimo utilizzo degli impianti (24 ore al giorno per 7 giorni);
  • la piena esigibilità della flessibilità di orario attraverso la cancellazione del ruolo negoziale della Rsu nella definizione degli orari di lavoro in fabbrica; rendere obbligatorio, senza contrattazione in fabbrica, lo straordinario anche al sabato e fino a 200/250 ore all’anno;
  • rendere ancora più semplice la possibilità di derogare alle leggi e al Ccnl, recepire nel testo del Contratto le recenti modifiche legislative che hanno peggiorato pensioni, ammortizzatori sociali e lavoro precario, rendere la contrattazione aziendale sempre più alternativa al Contratto nazionale.

 Federmeccanica affronta anche il problema che oggi, senza una legge, il Ccnl non ha validità erga omnes e riconosce che, per superare le divisioni in atto tra i metalmeccanici, è essenziale dare attuazione all’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011. Federmeccanica afferma che il primo passo per dare qualità alle relazioni industriali consiste nel definire la effettiva rappresentatività dei soggetti negoziali perché giova alla democrazia sindacale e porta maggiore certezza nella contrattazione collettiva. Su questo punto la Fiom ritiene prioritaria l’applicazione tra i metalmeccanici dell’Accordo interconfederale del 28 giugno sottoscritto da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria. La condizione necessaria per evitare la pratica degli accordi separati e riconquistare un contratto nazionale di tutti i lavoratori metalmeccanici è la definizione di procedure per la certificazione della rappresentanza e rappresentatività delle organizzazioni sindacali e di regole democratiche per la validazione di piattaforme e accordi attraverso il voto referendario di tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori. All’avvio della trattativa, a cui saremo presenti, se Federmeccanica presenterà ufficialmente la sua “piattaforma” si assumerà la responsabilità di cancellare l’esistenza del Contratto nazionale e anche Fim e Uilm dovranno riflettere sul fatto che in realtà questa strada porta a cancellare il Contratto nazionale e a estendere il modello Fiat in tutte le aziende metalmeccaniche. Per difendere le libertà sindacali e la democrazia nei luoghi di lavoro il diritto a contrattare salario, orario e condizioni di lavoro per impedire i licenziamenti e contrastare la precarietà RICONQUISTIAMO UN VERO CONTRATTO NAZIONALE DI TUTTE LE LAVORATRICI E DI TUTTI I LAVORATORI (Roma, 10 luglio 2012)

Ora io vorrei tanto capire se esiste un partito che la smetta di interrogarsi sulle alleanze partitiche e decida di raccontare questa clinica, spietata, continua omertà sui diritti che si appannano mentre il lavoro nemmeno riprende.