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legge elettorale

La truffa elettorale firmata ABC

Ne scrive Michele Ainis. E la sua è analisi politica senza possibilità di accuse di populismo come ogni tanto (troppo spesso) succede ormai quando si tocca il Alfano-Bersani-Casini, sempre più scendiletto di un governo dove tutti possono per un minuto sentirsi viceré.

L’articolo 515 del codice penale castiga (due anni di galera) chi vende merci contraffatte, spacciando la brutta copia per l’originale. E’ la truffa delle etichette: ti metto in mano una bottiglia di gassosa, dopo averci incollato sopra il cartellino biondo dello champagne. Sempre bollicine, ma di tutt’altro sapore. Attenti: è esattamente quanto ci sta per capitare. O almeno i nostri politici ci provano. Con la riforma costituzionale, ma soprattutto con quella elettorale. Nelle intenzioni dichiarate, nell’etichetta che campeggia sulla confezione, servono ambedue per dimostrare la capacità di rinnovamento dei partiti, restituendo quote di potere agli elettori. Però se assaggi la bevanda le bollicine diventano altrettante ballicine.

La prima truffa sta nel metodo. Perché dopo tante chiacchiere il Porcellum è ancora vivo e vegeto? Riunioni, vertici, rinvii, bozze che non escono dal bozzolo: la riforma è tutta qui. Loro, i partiti, dicono che non si può mettere troppa carne al fuoco, che prima bisogna licenziare la riforma della Costituzione. Balle, sparate per guadagnare tempo. La nostra Carta non spende una parola sui sistemi d’elezione. E difatti non fu modificata quando, nel 1993, il Mattarellum cancellò il proporzionale. Né nel 2005, quando il centrodestra vi sostituì il Porcellum.

Secondo: il nuovo sistema. Bipolare ma identitario, maggioritario ma proporzionale. Un maggiorzionale. Che però ci inganna promettendo che sceglieremo il premier, indicato da ciascun partito sulla scheda elettorale. Siccome salta l’accordo di coalizione preventivo, siccome è alquanto improbabile che un singolo partito s’accaparri il 51 per cento dei seggi in Parlamento, siccome a quel punto dovrà giocoforza stipulare un’alleanza con altri partiti dopo il voto, l’unica cosa certa è che nessuno dei candidati ufficiali ha speranze di varcare l’uscio di palazzo Chigi. Se Bersani e Casini stipuleranno un patto di governo, il premier sarà una terza persona. Altrimenti l’uno o l’altro dovrebbe accettare un patto leonino.

Sennonché l’accordo su cui convergono i partiti è pieno di false promesse. Ci dicono: oltre al premier, sceglierete finalmente il vostro deputato, il vostro senatore. Non è vero, perché esprimeremo un unico voto (modello tedesco, ma in Germania ne hanno due) sia sul collegio uninominale sia sul plurinominale. Dove troveremo una lista bloccata di 3 o 4 compagni di cordata del candidato principale. Prendere o lasciare.

E le incongruenze? La nuova legge elettorale coniugherà una soglia di sbarramento (4 o 5 per cento) con il diritto di tribuna per chi non supera la soglia. Se ne parlò in Francia ai tempi di Le Pen, senza poi farne nulla. Perché la soglia significa o dentro o fuori, non puoi stare con un piede in terra e l’altro sulla luna. Ma se è per questo, anche il premio di maggioranza normalmente si declina al singolare. Altrimenti sarebbe come assegnare due scudetti. Invece i partiti stanno progettando il doppio premio, e magari arriveranno al triplo, come la sigla della nuova maggioranza: ABC, Alfano Bersani Casini. Più che un premio, un viagra. O forse una diga per proteggersi dai barbari, dato che i sondaggi, ahimè, sono in caduta libera.

Quanto alla riforma della Costituzione, anche lì non mancano i raggiri. Come il superamento del bicameralismo perfetto attraverso un bicameralismo “eventuale”, pasticcio foriero di bisticci. Come lo scioglimento delle Camere: il premier propone, il presidente della Repubblica dispone. Proposta non vincolante, dunque se quest’ultimo rifiuta s’apre un’altra zuffa al vertice delle istituzioni. Come il dimezzamento dei parlamentari (in realtà la sforbiciata è del 18 per cento). O come il njet sulla democrazia diretta, su nuovi strumenti di decisione e di controllo in mano agli elettori. Niente da fare, anche in questo caso le parole divorziano dai fatti. Una truffa delle etichette, per l’appunto. D’altronde ne avremo un assaggio alle amministrative, dove il Pdl si maschererà da lista civica, Forza Lecco o Forza Trentino o Forza Peppa. Dal teatrino della politica al ballo in maschera. (Michele Ainis – l’Espresso)

Legge elettorale: la preservazione della specie

Riprendo due opinioni del dibattito in corso sull’intesa Alfano, Bersani, Casini per una riforma della legge elettorale. Il solito Matteo Pucciarelli su Micromega che scrive:

C’è un’intera classe dirigente che ha pensato e pensa di far politica grazie alle alchimie elettoralistiche, suprema sintesi del dalemismo più spinto, a sua volta originato dal migliorismo di maniera: quello dei tecnicismi, dell’ingegneria istituzionale, strategie e giuristi al lavoro ma non si capisce mai per fare cosa e in nome di quale idea di società.

Il sottoscritto, e con me quasi tre milioni di italiani (un milione e centomila di voti per la Sinistra Arcobaleno; ottocentottantamila voti alla Destra; trecentocinquantamila voti socialisti; quasi quattrocentomila tra Sinistra Critica e comunisti di Ferrando, e mi fermo qui), da circa quattro anni non è (e non siamo) rappresentati in Parlamento. E c’è il rischio di non esserlo anche da dopo il 2013. I nostri voti valgono meno? Le nostre teste non hanno diritto d’asilo? È questa una democrazia reale e compiuta?

Claudio Tito su Repubblica scrive:

La paura di perdere le prossime elezioni. Sembra questo l´architrave su cui poggia l’accordo trovato ieri dai tre partiti della maggioranza che sostiene il governo “tecnico”. Sull’idea che nessuna forza politica – a cominciare da Pdl, Pd e Udc – sia in grado di scommettere sul risultato delle prossime elezioni politiche. Tutti sperano di tenersi le mani libere e ognuno punta a limitare i danni. Lasciando aperta la porta ad ogni soluzione per il dopo-voto. L’intesa preparata da Alfano, Bersani e Casini è soprattutto il frutto di una convergenza di interessi.

E lo dimostra l’idea di tornare a un sistema sostanzialmente proporzionale, cancellando il vincolo di coalizione e assegnando un premio che non determina la maggioranza. Di fronte ad una instabilità, tipica degli ordinamenti e dei sistemi politici transitori, i tre principali partiti si adattano alla “corsa solitaria” e mirano a rimettere tutti ai nastri di partenza nella previsione che nessuno potrà vincere da solo. Proprio come accadde nel 1946 con la legge elettorale per l´Assemblea Costituente e nel 1948 per la prima tornata parlamentare dopo la caduta del fascismo e l´entrata in vigore della Costituzione.

Una convergenza di interessi che consente al Pdl di limitare la probabile – almeno al momento – sconfitta senza precludere la possibilità di ricomporre l´alleanza con la Lega dopo il voto. Nella consapevolezza, peraltro, di non avere un candidato premier sufficientemente forte e autorevole.

Al Pd di mettere definitivamente in soffitta la cosiddetta “foto di Vasto” e l’alleanza con Vendola e Di Pietro. Bersani spera così di contare sulla chance di presentarsi per la presidenza del consiglio senza dover trattare con nessuno la sua premiership e predisponendo un patto successivo con il Centro di Casini.

I centristi, invece, non saranno obbligati ad una scelta di campo preventiva, potranno confidare nel ruolo di ago della bilancia che i sondaggi gli assegnano sempre più e di coltivare il progetto di mantenere Mario Monti a Palazzo Chigi anche nella prossima legislatura (l’indicazione del premier non è prevista in Costituzione e quindi non sarà obbligatorio rispettare le designazioni dei partiti).

Giulio Andreotti l’aveva chiamata “strategia dei due forni” (potete cercarla qui) e quando mi è capitato di leggerne ne ero rimasto basito. Mi chiedevo come potessero essere stati così democraticamente assenti i nostri padri. Oggi quella disastrosa tesi torna e credo che con la riforma del lavoro sia il bivio che debba per forza dividere chi ci sta e chi no. Senza le solite noiose mediazioni per preservarsi e per non disturbare. Perché in una nuova Balena Bianca tinta di arancione passa la voglia di starci e di impegnarsi. Sul serio.

(il titolo è ispirato ad una citazione rubata a Barbara Collevecchio)

Io voto chi mi fa scegliere

La decisione della Consulta sull’inammissibilità dei referendum non modifica la sostanza del dibattito pubblico attorno alla legge elettorale. Esiste un patrimonio di attivazione, di impegno prodotto da un milione e duecentomila cittadini e che è ancora intatto. La richiesta del ritorno alle preferenze per scegliere i propri deputati e senatori, in Italia, resta maggioritaria e non è più rinviabile. Per questa ragione Valigia Blu Quink lanciano la campagna “Io voto chi mi fa scegliere”. La parola passa nuovamente al Parlamento e ai partiti che hanno ora piena ed esclusiva responsabilità sul processo di riforma della legge elettorale. Non è nostro compito suggerire ricette, regole o soluzioni, ma vogliamo esprimere la nostra intenzione di premiare quelle forze politiche che si impegneranno in modo chiaro e netto per permettere ai cittadini di scegliere i loro rappresentanti.

In medio stat PD

Il PD, i cerchiocentristi e il PDL dialogano sulla nuova legge elettorale (linko l’Unità per essere politicamente corretto) e succede di alzarsi la mattina ed essere addirittura d’accordo con l’invito di  Parisi che chiede  ai «cantori del bel tempo antico» di «gettare la maschera»: «La costrizione della quale i capipartito vogliono liberarsi non è quella a stringere alleanze che non vogliono loro, ma la costrizione a dichiarare prima del voto quelle che non vogliono i loro elettori».

I referendum come timone

Mentre a Firenze discutiamo di buone pratiche e di beni comuni con i tanti amministratori che resistono più ad una crisi politica prima che economica si accende una riflessione collettiva sui referendum. Perché non ci sono solo le firme da raccogliere per abolire il porcellum (che non può bastarci come soluzione ma ha senso solo se è la pars destruens necessaria per scrivere una legge elettorale che rispetti il senso pieno della rappresentanza) ma soprattutto c’è da applicare i referendum già scritti e votati. Referendum che non sono una vittoria della partecipazione che abbassa la serranda alla sera. E quel risultato chiede (anzi, impone) alla politica di declinarne i risultati in atti, di difendere quella volontà con i denti e raccontare in modo chiaro che forma ha quel risultato. Da Milano, al Pirellone fino al paese più minuscolo. Ora i referendum sono il timone.

Il servo porcellum, abroghiamolo

Gli uomini non sono mai servi di un uomo; sono servi, se loro stessi non sanno comandare a se stessi. (Luigi Russo)

Una democrazia che non riesce a svolgere il più ampio dovere di rappresentanza è una democrazia che nei fatti non esiste. Che sta tutta nelle parentele o nelle amicizie filamentose dei segretari di partito, che si articola e nutre della promiscuità di relazioni che non hanno nessun collegamento con la gente e meno con la pubblica amministrazione: relazioni che si giocano nel catino dei servetti che si arrampicano sul vicino per provare a non annegare. Il Parlamento italiano di nominati e senza eletti è la più grande anomalia di questi ultimi anni di politica (minuscola) di oligarchie dedite, ognuna, al proprio faraone. Senza distinzioni tra destra e sinistra, senza il dovere e le meccaniche della trasparenza. Un ring di ricattabili che sono forti e schiavi della propria ricattabilità in un cerchio (per niente magico) di silenzi scambiati che chiamano partito. Ho visto servi con gli occhi brillare mentre nobilitavano il proprio servilismo rivendendolo come ‘spirito di servizio’, conosco deputati o senatori che non prenderebbero una manciata di voti nel proprio condominio ma sono capitati nel posto giusto al momento giusto per vendere caro quel momento. Conosco centinaia di compagni (e amici) che sanno che senza cordone ombelicale non potrebbero nemmeno provarci, a fare Politica (quella maiuscola). E allora non c’è modo migliore per condannare il peccato morale della servitù volontaria che abrogare la legge elettorale con il referendum promosso da SEL (e IDV). Servono 500.000 firme entro settembre (quando forse il PD avrà preso una bozza di decisione) e tutte le informazioni le trovate sul sito del comitato referendario.
Almeno i topi ritorneranno da dove sono venuti.

Caro Antonio, caro Luigi: e i cittadini?

Ho seguito la vicenda (nauseante) dei v(u)oti a rendere per la fiducia alla carcassa del Governo il prossimo 14 dicembre. Mi sono anche sforzato di leggere, con senso di fastidio, le giustificazioni di Razzi e Scilipoti: parole che in questo momento non contano. La valutazione della colpa sta tutta nel momento storico: non si tratta di sapere perché si entra o si esce (anche se l’odore dei soldi annichilisce) da questo o quel partito, si tratta di sapere se si vota si o no. Da che parte si sceglie di stare lo racconta la lucina verde o rossa sullo scranno. Quello è l’unico atto “politico” in una settimana di chiacchere.
Ma più di tutto ho seguito il dibattito sulla scelta delle candidature: ho letto (e compreso) le difficoltà nella scelta di candidati sul territorio nazionale del Presidente Di Pietro e ho letto dell’ipotesi di una “cabina di regia” avanzata da Luigi De Magistris per scelte “etiche” nelle future elezioni e, ad oggi, mi sfugge un punto: i cittadini lontani e una legge elettorale che corrode i partiti, che tarpa l’indipendenza intellettuale degli eletti, che semina visioni lunghe pochi centimetri al massimo fino alle prossime elezioni e che interrompe quel filo (sancito dalla Costituzione) che dovrebbe tenere legati gli eletti solo e solamente ai propri elettori. Una legge elettorale che oggi coltiva servi e yesman: l’intergruppo più folto del nostro Parlamento.
Mi chiedo se solo io non mi sono accorto come la modifica alla legge elettorale sia improvvisamente scomparsa dall’agenda delle priorità che quasi tutti (a destra e a sinistra) sventolavano fino a qualche settimana fa. Mi chiedo se qualcuno ci aveva già avvisato che la battaglia per le preferenze piuttosto che le nomine sia da considerarsi persa, conclusa, finita. Se non sia il caso di interrogarsi su parlamentari nominati che siedono a Roma e faticherebbero ad entrare nel Consiglio Comunale della propria città. Se non sia il momento di continuare sulla strada della partecipazione, senza intermediazioni o oligarchie, studiando meccanismi che “aggirino” una legge che non si riesce (o non si vuole) sbloccare: un’idea che costruisca dinamiche di scelta restituita agli elettori. Un’idea “politica”. Appunto.