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Gli incontri del CENTRO DOCUMENTAZIONE TEATRO CIVILE

Inizia a pieno ritmo l’attività del CENTRO DI DOCUMENTAZIONE PER UN TEATRO CIVILE con il ciclo di incontri animato da illustri ospiti. Quest’anno oltre alle presentazioni di libri, anche documentari e dibattiti.

14/11/2009
Gioacchino  Genchi

21/11/2009
“La santa” video e incontro con Ruben Oliva

11/12/2009
Carlo Lucarelli

08/01/2010
Giancarlo Caselli e Raffaele Cantone

19/02/2010
Antonella Mascali e Peter Gomez

26/02/2010
“L’etica libera la bellezza” video e incontro con Don Luigi Ciotti

data in via di definizione
Marco Travaglio

data in via di definizione
Biondani/ Malaguti/ Gerevini “Popolare 4 anni dopo”

data in via di definizione
Antonio Ingroia e Alberto Nobili

Ingresso gratuito

TEATRO NEBIOLO via 4 Novembre c/o Centro Civico Mascherpa
26838 Tavazzano con Villavesco (LO)
TRENO Stazione di Tavazzano
AUTOSTRADA da Milano uscita Melegnano poi direzione Lodi;
da Piacenza uscita Lodi poi direzione Milano

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Mafie: l'impunità culturale tutta lombarda della politica del non fare

mafianonesistePassano d’agosto i circhi vecchi delle dispute politiche officiate dagli strateghi della politica dello “stare”: quelli per cui ogni comunicato stampa serve a tranquillizzare e tranquillizzarsi, e per i quali  l’azione politica si riduce ad un “tenere in bilico” la barca dalle onde di collaboratori troppo ingombranti o peggio ancora di magistrati e forze dell’ordine che osano esimersi dalle ronde (alcoliche e analcoliche) o dalle persecuzioni legittimate. Se perseverare è diabolico, la Lombardia, pure ad Agosto, sottolinea la propria perseveranza (diabolicamente incendiaria e cornuta) nell’arroccarsi tra codicilli e competenze pur di non prendere decisioni e tanto più negarne il diritto agli altri.

A Milano che “la mafia non esiste” o perlomeno “non appartiene a questa città” la sindachessa Moratti ha provato a ripeterlo ovunque dai consigli comunali, alle televisioni in prima serata fino ad abusarne favoleggiandoselo (probabilmente) la sera per addormentarsi. Non soddisfatta ha poi lanciato comunque la commissione comunale antimafia che è durata poco meno di uno starnuto (come un coniglio dal cilindro) per rimangiarsela subito dopo adducendo competenze prefettizie che non andavano scavalcate. Ora, saputo che nella sua “Milanoland delle fiabe” un’intera cittadella è in mano alla criminalità organizzata come segnalato dal pm Gratteri (che di ‘ndangheta un po’ ne conosce avendone studiato la storia, morsicato alcune locali e reativi capibastone e annusandone tutti i giorni l’odore tra gli stipiti blindati che il suo lavoro gli impone)  la sindachessa e la politica milanese tutta rimbalza responsabilità di intervento a non precisati enti o ruoli. Mentre La Russa si ridesta invocando l’esercito.  Intanto tutti felici e contenti concordano nel ritenere i 6 caseggiati popolari di Viale Sarca e via Fulvio Testi in mano agli onomatopeici fratelli Porcino (bossetti di periferia legati alle cosche di Melito di Porto Salvo), i nomadi Hudorovich e i Braidic semplicemente un “neo”, una pozzanghera piccola piccola in quel placido, enorme e ligresteo tappeto di cemento che è il capoluogo lombardo spiato dall’alto.

A Lonate Pozzolo (come descrive puntualmente nel suo sito il bravo Roberto Galullo) il leghista Modesto Verderio, dopo aver denunciato gli interessi della famiglia Filipelli tutta in odore balsamico di ‘ndrangheta all’interno dell’areoporto di Malpensa finisce accantonato come si compete al visionario del rione. Intanto una statua di San Cataldo arriva da Cirò Marina a Lonate Pozzolo per scalzare Sant’Ambrogio nella festa del patrono santo con prepotenza laica.

A Buccinasco perde la pazienza addirittura la Lega che sul proprio giornale cittadino (“El giornalin de Bucinasc”) scrive contro il sindaco Loris Cereda: “Nonostante il sindaco Cereda continui a prodigarsi per dichiarare che a Buccinasco la mafia non è un problema e non riguarda le istituzioni  i cittadini sono sempre più allarmati dalle notizie dei telegiornali che parlano di arresti e di commistioni fra politica e malavita organizzata. Noi siamo stanchi di sentire ripetere le solite litanie: la ‘ndrangheta è un’invenzione dei giornalisti, delle istituzioni, delle commissioni parlamentari, ecc. Come cittadini vorremmo finalmente capire cosa c’è e cosa non c’è di vero al di là delle strumentalizzazioni politiche. E non ci bastano le prese di posizione di alcuni consiglieri che dichiarano di ritenersi calabresi nel consiglio comunale aperto alla presenza dei magistrati Castelli e Pomodoro“.

A Desio (fine 2008) Il Consiglio comunale ha respinto un ordine del giorno contro la mafia (’ndrangheta, camorra e quant’altro) in Brianza. Hanno votato contro tutte le forze di maggioranza. L’o.d.g. era stato presentato in seguito alla scoperta delle discariche abusive di rifiuti tossici a Desio e a Seregno.

A Corsico diventa quasi una vergogna una targa di marmo in onore di Silvia Ruotolo, donna, moglie e madre innocente, uccisa durante una sparatoria tra clan rivali della Camorra, a Napoli. Lei rincasava. Loro si spartivano a pistolate due piazze di spaccio, che fruttavano 20 milioni a sera. Il Comune voleva affiggere la targa in ricordo di Silvia Ruotolo sotto i portici di via Malakoff, al civico 6: oggi sede di un’associazione che si occupa di disabili psichici, ieri supermarket gestito da un mafioso della famiglia siciliana Ciulla, confiscato dallo Stato e poi riassegnato a fini sociali, come prevede la legge 109. Durante l’ultima assemblea di condominio, l’ordine del giorno relativo a quella “etichetta” commemorativa (concedere o meno al Comune l’autorizzazione di affiggerla sulla parete esterna dell’edificio, ben visibile a tutti) era sul fondo della “scaletta”. Alla fine l’amministratore ha deciso da sé, perché se n’erano già andati quasi tutti. Il permesso non è stato concesso. E i famigliari di Silvia Ruotolo (il marito e il figlio di 17 anni) hanno assistito alla cerimonia di scopertura della targa da parte del sindaco Sergio Graffeo all’interno dell’immobile confiscato. Pochi i presenti. Cerimonia quasi intima. Come se i panni sporchi della mafia si debbano lavare nel silenzio. Di soppiatto. Quasi per effetto di una forzatura. Di coscienza civica, di fatto, ne gira poca nel supercondominio di Corsico, che a est si affaccia sul quartiere Lorenteggio di Milano. Duecentodieci famiglie. Qualche negozietto sotto i portici che continua a cambiare gestore, a parte due o tre che resistono a che cosa, bene, non si sa. Qualche cognome “importante” sui campanelli, soprattutto di siciliani.

Negli uffici della Direzione Nazionale Antimafia Enzo Macrì, sostituto procuratore nazionale antimafia, parla da profeta inascoltato. «Che la ‘ ndrangheta stesse colonizzando Milano lo dicevo negli anni 80. L’ ho confermato due anni fa e i fatti mi danno ragione. Ora c’è l’ Expo e non so più come dirlo».

Solo per citare alcuni esempi.

Stupirebbe questo atteggiamento impermeabile in un paese normale, dove normalmente i politici dovrebbero essere eletti per prendere posizione, dare segnali forti e non solo per banalmente amministrare capitoli di spesa e distribuire (scaricandosene) ruoli e responsabilità. Qui non si tratta di disquisire i ruoli di governo e ordine pubblico come stabilito dalla legge; qui si rimane a supplicare un segnale, un lampo in cui ci si illuda che Marcello Paparo non possa sentirsi “libero” di collezionare bazooka come nei peggiori scenari di desolazione metropolitana post industriale, o Morabito non sfrecci impunito a parcheggiare il ferrarino in un posteggio dell’Ortomercato con l’arroganza di uno zorro a quattro ruote, o che Andrea Porcino (classe 1972, giusto per identificarlo meglio là fuori dal suo fortino dove gioca a seminare terrore) possa addirittura inventarsi intermediario con arie da tour operator mentre raccomanda ai secondini del carcere milanese di San Vittore dei buoni servigi e una residenza confortevole per i suoi amici Nino, Ettore e Massimo.

L’impunità dentro le teste (oltre alle tasche) dei capibastone ‘ndranghetisti o dei prestanome camorristi o dei ragionieri di Cosa Nostra in Lombardia è una responsabilità politica. Risolvibile semplicemente con la voglia e l’onestà di  volere dare al di là di tutto un segnale. Per restituire dignità anche nella forma.

Una regione che controlla la carta d’identità di un mojito e cammina su fiumi di cocaina. Una regione che s’abbuffa alle conferenze stampa delle grandi opere e che inciampa al primo gradino del primo subappalto. Una regione che convoca gli stati generali dell’antimafia per ribadire di stare tranquilli. Una regione che ci convince di aver risolto tutto spostando i soldatini del Risiko con la scioltezza di un tiro di dadi. Una regione diventata maestra perspicace nel strappare con la pinzetta delle ciglia l’allarmismo mentre grida all’emergenza dei rom che scippano le nonne. Una regione che se il fenomeno criminale non emerge allora non esiste. Una regione che mette i moniti dei procuratori antimafia nei faldoni di “costume e società”. E intanto ride. Nel riflesso degli eroi diventati onorevoli che “la mafia l’hanno debellata decenni fa” e se così non fosse è semplicemente perchè non l’hanno mai trovata.

Una regione che è sacerdotessa della clandestinità diventata finalmente illegale e intanto finge di non sapere che l’illegalità pascola clandestina.

Ma c’è un tempo che è quello della memoria che supera le circostanze brevi della politica tutta a parare i colpi mungendo voti: la memoria sulla pelle dei nostri figli, delle prossime generazioni, quella che non entra nei libri di storia ma rimane sotto pelle come una traversata nella stiva mai raccontata. E allora pagheranno pegno davanti alla storia tutti i politici pavidi,  cravattari amministratori tra la casetta in centro e l’incenso delle sciantose; pagheranno i sindaci dell’ “insabbia et impera” e i tranquillanti per professione. Pagheranno l’ignoranza e la persecuzione di uno stuolo di attivisti messi al muro per discolparsi di uno sguardo fatto di fatti. Sorrideranno a leggere che qualcuno, metti per caso una sindachessa di Milano calpestando i cadaveri delle antiestetiche vittime milanesi delle mafie, sia riuscita a mettersi nella situazione di dover essere smentita per un allarme che da decenni è già rientrato perchè metabolizzato: endovena, silenzioso. Impunito, appunto.

Nel gioco dei segnali così caro alla pochezza criminale, se esistesse un santo dell’estetica contro il diavolo della politica per comunicati stampa, da domani partirebbero le ronde della legalità nei crani dei politici a cercare con il lumicino la responsabilità della dignità.

E intanto è ferragosto così cinico e vacanziero, mentre qualcuno, tra i pochi ostinati, scrive anche d’agosto di una storia che parla da sola come Gianluca Orsini sull’Unità:

ASSALTO ALL’EXPO

L’Unità – Edizione Nazionale – 10/08/2009 10/08/2009 29 Inchiesta Nazionale GIANLUCA URSINI Gli affari languono nel Meridione, per le imprese legate ai clan che negli anni hanno monopolizzato i mercati del calcestruzzo, del movimento terra e inerti, fino a essere presenti in ogni cantiere pubblico e privato in Calabria: nei prossimi anni la torta più grande verrà dalle opere legate alla Esposizione universale prevista a Milano nel 2015. È il tam tam che si sta diffondendo in quella ristretta comunità di ingegneri e costruttori che si contendevano gli appalti da Caserta in giù. «Dopo aver lavorato ai macrolotti Gioia – Palmi e di recente Palmi – Villa san giovanni dell’autostrada Salerno – Reggio – spiega un ingegnere veneto trasferitosi da un decennio- la mia ditta, emiliana, mi chiede se sono disposto a programmare i prossimi dieci anni a Milano: si apre un ufficio lì, ci saranno fin troppi appalti da gestire». I clan hanno capito che non c’è più da fare affidamento sui grandi appalti in queste regioni, e così come le ditte “pulite” direzionano la bussola degli affari verso l’altro polo. «Qui stanno smobilitando tutti – continua l’ingegnere, sotto garanzia di anonimato – fino a febbraio mi chiedevano ancora se avevo intenzione di restare perché c’erano grosse aspettative legate al Ponte sullo Stretto, ma poi si è capito che per 5 anni soldi non ne arrivano. Sono previsti 2 anni per il progetto esecutivo, ma sappiamo tutti che ce ne vorranno più del doppio. Cantieri a breve non apriranno,quindi tutte le ditte hanno una sola preoccupazione: non rimanere indietro a Milano. È lì che si lavorerà bene. Quelli del posto che ho visto per anni sui cantieri della Salerno- Reggio mi dicono da mesi: ci vediamo in Lombardia». È tempo di preparare i bagagli per il Nord: per i calabresi non è certo un mercato nuovo. Le imprese legate ai clan hanno messo radici da almeno due generazioni nelle terre tra il Ticino e l’Adda: già nel 1999 il magistrato milanese Armando Spataro avvisava la commissione parlamentare antimafia di Beppe Lumia come nel capoluogo padano «il 90 percento delle inchieste riguarda clan di ’ndrangheta: le mafie della Locride stanno penetrando il cuore finanziario d’Italia». Infiltrazione andata a buon fine dieci anni dopo, se nell’ultima relazione della procura antimafia, su 900 pagine si dedica un lungo capitolo a Milano e ai calabresi in Lombardia, passando a setaccio territori diversi. La metropoli e il suo hinterland sono «appannaggio delle cosche reggine, sia della costa Jonica che Tirreniche come pure le famiglie di Reggio città, che agiscono in sintonia con i siciliani di Cosa Nostra legati da antichi rapporti con i clan della Locride, in mano a loro la gestione del pizzo degli investimenti immobiliari e le infiltrazioni nel commercio». L’ortomercato si era rivelato terreno di casa dei Morabito di Ardore dopo un blitz della polizia nel 2007. E in provincia gli investigatori scoprono crotonesi e vibonesi sempre più presenti in alta Brianza e Valtellina, nelle provincie di Lecco Como e Sondrio. Già nel 2006 la procura di Lecco riesce a incriminare 20 persone legate ai clan Coco-Trovato che in zona hanno creato un loro “locale” (come vengono chiamate le nuove cellule) collegato con i clan Arena di Isola Capo Rizzuto a Crotone e con i potentissimi De Stefano di Reggio. I Farao Marincola, crotonesi di Cirò Marina, sono presenti nei cantieri e si occupano di recupero crediti, tra Varese Legnano e Busto Arsizio, a ovest del capoluogo, monopolizzando anche il traffico di cocaina. I Mancuso di Limbadi (Vibo) controllano Monza, nella periferia milanese di Sud ovest, tra Buccinasco, Cesano Boscone e Assago, le famiglie dell’Aspromonte si sono radicate da tre generazioni creando un «consorzio del Nord» che impone le proprie imprese in subappalto in ogni cantiere. Fanno capo ai Barbaro di Platì, che coordinano le famiglie Perre, Trimboli Sergi e Papalia, già inserite negli appalti per l’Alta velocità, come pure al raddoppio della Venezia-Milano, adesso aspettano Pedemontana lombarda e nuova Tangenziale est milanese. Lo scorso marzo tre pm del Tribunale di Milano hanno chiesto 21 arresti per i compari di Marcello Paparo, imprenditore edile che riforniva di bazooka i parenti di Isola Capo rizzuto dalla sua ditta di Cologno Monzese. Dalle 400 pagine del gip Caterina Intelandi emerge una «cabina di regia» unica delle cosche sugli appalti lombardi, che impongono «quale impresa lavora e quale no» e dividono la torta in parti uguali, anche per Tav a quarta corsia della A4. Nella stessa inchiesta emerge anche un fattore nuovo: queste imprese dai profitti elevati fanno gola generano una devianza insospettabile: i lumbard che si affiliano alle cosche. Almeno quattro nominativi di contabili, geometri e piccoli imprenditori del Milanese sono stati indicati dalla gip Interlandi. Cinque kalashnikov, tre mitragliette Uzi, tre pistole Sig sauer. «Su ordine del boss Trovato le consegnai ad un capofamiglia alleato nel ristorante “Il Portico” di Airuno in Brianza», confidava un testimone di giustizia al gip milanese Vittorio Foschini a inizio anno, «le forniture di armi erano iniziate nel 2002, dopo che clan rivali nel milanese avevano ordito un attentato contro Peppe De Stefano e Franco Trovato a Bresso (periferia nord di Milano, a ovest di Sesto San Giovanni)». Gli arsenali vengono preparati in vista della possibile guerra degli scissionisti, per il sostituto procuratore antimafia Pennisi «inchieste come la Over size del 2006 dimostrano il graduale affrancamento dei clan calabresi di Lombardia dalla regione d’origine, con la sostanziale autonomia dei nuovi clan brianzoli e milanesi», una novità segnata dal fatto che le nuove famiglie possono comprendere elementi che provengono da province, paesi diversi, sfuggendo «all’elemento di radicamento con la comunità originale», con un territorio calabrese ben definito, come aveva già segnalato il magistrato antimafia Nicola Gratteri. E queste nuove famiglie hanno fame di appalti, di altri soldi. Tanto da far temere che ben presto, con l’Expo, i kalashnikov si faranno sentire anche in Lombardia. «I sempre più rilevanti interessi nel settore dell’edilizia e dei subappalti per opere pubbliche, possono far saltare alleanze consolidate da tempo», avvisa la Direzione investigativa antimafia nella sua ultima relazione. Le avvisaglie ci sono già: il 27 marzo 2008 Rocco Cristello, ex alleato dei Mancuso caduto in disgrazia, viene ucciso in Brianza, il 14 luglio tocca a Carmelo Novella a San Vittore Olona, territorio dei Farao Marincola, che pagano con il sangue del loro affiliato Aloisio Cataldo, ucciso fuori Legnano il 27 settembre scorso.

Il clan Sarno, il pentito e l'onore più della mamma

giuseppesarnoCalpestare per sopravvivere. Calpestare tutto, anche la propria madre in nome dell’onore.

Le famiglie che si sfaldano come sfoglia troppo cotta sono la foto migliore della morale che si sbriciola di una “famiglia” che, mentre morde per diventare sempre più grande, scuoce nel senso materno. Anni di onore costruito sulla gerarchia all’ennesima potenza e un padre gerarca con i gradi del boss come spilla sul petto.

Giuseppe Sarno o mussillo è stato un generale secondo le regole: capo clan di Ponticelli ambiva ad inghiottirsi tutta Napoli mangiandosi i Mazzarella, nonostante l’arresto prima del fratello Ciro ‘o sindaco e ad aprile di Vincenzo. Dal bunker del rione De Gasperi i Sarno a partire dagli anni ottanta  si sono rovesciati da Ponticelli  a Cercola, Somma Vesuviana e poi Sant’Anastasia fino al quartiere Mercato con l’alleanza dei clan Misso, Formicola e Ricci e addirittura un bel “Bingo” tutto luccicante e nuovo tra Chiaia e Fuorigrotta. E dietro tutta una scia di prestanome incensurati umidi come uno starnuto.

Insomma, nelle storie delle famiglie che lavorano nonostante gli inciampi in qualche sbirro, i Sarno sono uno di quei capitoli nel libro mastro della camorra che cresceva proprio come te l’aspetti. Fino ad oggi.

Cosa succede? Succede che per il suo cinquantunesimo compleanno Giuseppe organizza una bella rimpatriata famigliare, seppur latitante, nel suo nascondiglio all’ultimo piano di via Trastevere al civico 148 in Roma. I familiari del Sarno che lo raggiungono (mentre brillano di torta e cinquantuno candeline) sono un’esca troppo profumata per i carabinieri che fanno irruzione e catturano il boss che cerca la fuga sui tetti della capitale ma risulta ben poco felino per sfuggire. E’ il 4 aprile 2009.

Non passa molto e  Giuseppe, il patriarca boss, si pente ammalato di quella malattia tra l’infamia e la sbirritudine che puzza come se fosse secca sotto la suola delle scarpe; e, nel cortocircuito malato della famiglia che si svende per salvarsi, il codice d’onore arriva a pungere la moglie che in quanto responsabile del pentimento del marito – il boss Giuseppe Sarno – era oggetto di continue minacce di morte da parte dei familiari, perfino da parte del figlio ventiduenne.

Le pesanti intimidazioni a carico di Anna Emilia Montagna rappresentano uno degli aspetti più raccapriccianti dell’operazione che ha portato alle prime ore del giorno all’arresto da parte dei carabinieri di cinque esponenti di spicco del clan camorristico Sarno. I cinque – tutti esponenti di vertice della cosca – sono ritenuti responsabili, con altre persone non ancora identificate, di aver minacciato di morte Anna Emilia Montagna, per indurre il marito a ritrattare le dichiarazioni già rese e a non renderne di nuove. Dopo il pentimento dello storico capoclan Giuseppe Sarno, è stato accertato che i suoi fratelli ed altri esponenti del clan avevano ripetutamente minacciato la moglie, Anna Emilia Montagna. Dalle indagini, infatti, è emerso che la decisione di Giuseppe Sarno, 51 anni, di collaborare con la giustizia – che risale a poche settimane fa – ha provocato un autentico terremoto negli equilibri della criminalità organizzata napoletana, ed è frutto a sua volta di un’ irreversibile rottura dei rapporti con i fratelli, con i quali per anni aveva condiviso le responsabilità di guida del clan di famiglia. In seguito al pentimento dell’ex boss, alcuni suoi familiari ed altri esponenti della cosca si sono recati più volte, a partire dal 6 luglio scorso, a casa della moglie, minacciandola di morte per indurre il marito a interrompere la collaborazione con la giustizia. Ad Anna Emilia Montagna sarebbe stato intimato, tra l’altro, di abbandonare il coniuge e la casa di famiglia nel caso in cui Giuseppe Sarno non avesse ritrattato quanto già detto ai magistrati. Ma a minacciare di morte la donna ci pensava anche il figlio ventiduenne Salvatore, detto ‘Tore ò pazzo’. Quest’ultimo ha sin da subito intrapreso la “carriera” del clan e quando alla famiglia è arrivata la notizia del pentimento, non ha tardato ad accusare la madre e perfino a dirle che sarebbe morta se non si fosse impegnata perchè terminasse la collaborazione del padre con la giustizia. A casa della madre Salvatore ci andava molto spesso, accompagnato dagli zii e dai cugini: ai carabinieri non risulta comunque che la donna sia stata anche oggetto di violenze fisiche.

Delle cinque ordinanze di custodia cautelare, una, quella a carico di Vincenzo Cece, è stata eseguita in carcere. Gli altri arrestati sono stati individuati in abitazioni, non direttamente a loro riconducibili, nel quartiere dove il clan viveva.

Un matricidio nemmeno consumato. Una madre consumata da un matricidio minacciato. Come nelle peggiori fiction a basso costo in terza serata.

E insieme la famiglia e l’onore che finiscono giù al suono dello sciacquone.

Lettera a mio figlio per Via D’Amelio

Giulio Cavalli in via d'amelioTesto scritto e recitato in Via D’Amelio il 19 luglio 2009 per il diciassettesimo anniversario della strage di Paolo Borsellino e la sua scorta.

Ecco Leonardo,
questa sera per non addormentarsi mi viene con un nodo di raccontarti una storia. Una storia di quelle che non dormono, una storia che a guardarla di fretta, di passaggio, o da lontano ha la gonna della favola per un giro beffardo di sensi unici nel rione del destino. Una favola con i buoni, un re, una guerra e addirittura un castello. Una favola con tutti i trucchi e gli ombretti per finire dritta nei libri rilegati di azzurro e di rosa,  sullo scaffale del conforto e della buonanotte. È che succede, caro Leonardo, che una mattina, sarà che c’era un umido che ci gocciolava tra le ossa, l’onestà e il cuore, o sarà stato che era una mattina che ci si era acceso a tutti il diritto di rivendicare un dubbio, un punto di domanda. Un punto di domanda che si stiracchia appena nato e morde il guscio. Un punto d domanda che è andato a riprendersi un libro, il libro della storia con i buoni, con i re, con la guerra e addirittura il castello. Ma una favola da rendere, restituire  perché ce l’hanno venduta scassata: ci hanno venduto una favola in cui ci mancano i cattivi.
Prima c’è un buco: un buco e Palermo che gocciola tutto intorno. Dentro il buco c’è una fetta di mondo. C’è un figlio che è a un mezzo centimetro dal primo ciao di oggi  per sua madre, C’è Emanuela, Vincenzo, Claudio, Agostino e Eddy che anche oggi sono a misurarsi per un mestiere con la pistola in tasca al posto delle ali. C’è quell’alone sempre stonato e che sa di metallo di costringersi ad illudersi che si possa veramente, anche per oggi, almeno per mezz’ora pure mezza festiva, si possa veramente, non essere un nemico, non essere un eroe, essere un figlio attaccato al citofono.
Ecco, Leonardo, io da padre non avrei mai voluto raccontarti che qui succede che le favole a volte comincino con un’autobomba, come uno schiaffo che è uno sputo di sangue e subito dopo un plotone di potenti con lo straccio in via D’Amelio a leccare gli ultimi avanzi. Ecco io non avrei mai creduto di pensare che ci siano leoni che pascolano nella memoria come per mangiarsela in un banchetto apparecchiato in mezzo alla savana. Ecco io non vorrei non farti addormentare raccontandoti che ci sono bombe che scoppiano in un silenzio sudato come un replay.
Non si era mai visto nelle favole rosa o azzurre un ladro come un bassotto con un’agenda in mano, mentre tutto intorno bolle come un rallentatore un brodo di pezzi e sangue. Ecco, io da padre, non so proprio come spiegartela a te che dovresti dignitosamente essere bambino che dentro all’intestino di quel buco con Palermo che gocciola tutto intorno c’è un guanto di gomma che si tura il naso e si porta via la memoria del buono, come un dente sul sangue che sanguina e si mette in tasca la memoria. Una memoria a forma di agenda. Un’agenda nella tasca insieme al fazzoletto usato del ladro, le chiavi di una casa a forma di castello e qualche pezzo di qualcuno, portato tra le scarpe come fosse una macchia di sugo. Un’agenda a forma di buco.
È una favola che non addormenta nessuno una favola che comincia con un’autobomba e finisce con un’agenda che non c’è. È Peter Pan in canotta e ubriaco che non vola più. Una storia che non meriteresti, da mio figlio poco prima di addormentarti, in questa sera che è l’anniversario di una storia che con le unghie mi si arrampica sul cuore.
Nelle favole che hanno fatto carriera c’è sempre un bel matrimonio, tutto fiori e parenti con strette di mano al buffet. Uno sposo e la sposa che ridono per ridere tra la panna e le bollicine. Vedi, Leonardo, perché ce l’hanno mandata scassata questa mezza storia stropicciata come una lista della spesa. Il matrimonio ci tocca andarlo ad annusare grattando via tutta questa vernice, questo smalto in giacca e cravatta che profila venti anni di storia tutta muta, farsa e condonata. Venti anni di storia a forma di bugia metallizzata. Ecco, qui il matrimonio l’hanno sepolto sotto un avverbio come si conviene per le figure oscene dentro ai libri per bambini. Un matrimonio con troppi padri per una sposa, le nozze invisibili celebrate dentro un confessionale. E allora vedi, caro Leonardo, che favole da ridere dove dentro si sposano i buoni con i cattivi e nemmeno un mezzo ciuccio che crede di essere un cavallo bianco. Non ci sono figli che si meritano favole taroccate, con Pinocchio che sposa Mangiafuoco o Cappuccetto Rosso che ha le provvigioni sulla cesta della nonna. È impossibile quasi trovarci le parole che è incredibile come l’abbiano scritta.
Una favole che inizia mentre scoppia, passa per un’agenda, e in mezzo un matrimonio a forma di buco.
Ecco, Leonardo, non avrei mai creduto di mettermi con la testa così alta a raccontarti un favola che non piace a nessuno anche se, come dice il buono di questa nostra storia in questa  sera, sarà che proprio perché non mi piace ho cominciato ad amarla e il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare. Sarà per questo che la ripeto tutte le sere per guadagnare i mio stipendio con la parola da raccontare.
Una favola taroccata con un castello e un campanello. E dietro al campanello non rispondono né principesse né draghi. Una favola con un castello che non risponde nessuno. Un castello con un cordone ombelicale che umido si sotterra nelle fogne di via D’Amelio.
Una favola schifiata con i protagonisti che hanno dimenticato la parte, e balbettano qualcosa, come alla recita d’asilo provata male, e s’imbarazzano nascondendosi in quinta.
Una favola con i buoni che finiscono per la colpa di volere iniziare, i cattivi sott’aceto e un funerale lavato con il borotalco.
Una favola stuprata, che per quattro monete il gatto e la volpe si sono rivenduti il finale.
Una favola coperta con il lenzuolo bianco, un lenzuolo che figlia muffa mentre soffoca il sole.
Una favola che si arrotola nei processi, che si mescola e impunita ride. Come un disegno che non si capisce da che lato guardarlo.
Una favola che non si sono nemmeno presi la briga di raccontarci e già speravano che si fosse addormentata.
Una favola tutta rutti e sorrisi, rigurgiti e strette di mano.
Una favola che sta scritta nelle cose non dette, con il principe chiuso a chiave dentro il cesso, la principessa a forma di macchia sul muro e il cavallo bianco cucinato alla griglia.
Una favola dove non si capisce chi ha posato i fiori e chi ha posato le bombe.
Ecco Leonardo, non è per niente civile farti addormentare questa sera raccontandoti la paura, la paura che nel paese fatato spegne le luci come una magia. Ecco, quando da papà ogni tanto mi scopro in tasca la paura penso sempre che sarebbe come offendere questa favola. Con la paura accartocciata che è sempre ora di buttare via.
E allora sarebbe il caso che venga qualcuno, a raccontarla questa favola ai nostri figli, a riprendersi quella sbeccata che vi ridiamo volentieri di resto. Sarebbe i caso almeno perché non è mica una questione di onore, non è mica una questione di gusto: almeno per un senso di quella pudica verità.
Sarebbe il caso di curarlo quell’occhio allucinato e stanco di un bambino davanti ad una favola che non riesce ad addormentare nessuno.
Una favole che inizia mentre scoppia, passa per un’agenda, e in mezzo un matrimonio a forma di buco.
Una favola con i buoni a pezzetti e senza cattivi in cui cercano comunque di sfilarci tutti. Con i tromboni della politica manieristica che recitano a mani giunte, con le finestre chiuse dei soliti fondali delle storie da non raccontare, con, per non farsi mancare niente in questo diciassettesimo silenzio che non vuole stare zitto seduto sull’orlo del buco, per questo diciassettesimo anniversario di una storia sotto spirito, anche l’onore basso di Riina U’ Curtu che si intrufola per gridare che non è stato lui e alzare la manina come nei castighi di classe.
Una favola zeppa di gente che non è stata, che non sa, che non ricorda, che non c’era eppure commemora. Una favola senza storia che ci finge di avere memoria. Un’isola che non c’è. A forma di buco.
Ecco, caro Leonardo, da papà ti dico e ti racconto che per questa sera la morale devi andarla a prendere, tirarla per una manica e salvarla da quel buco con una nazione tutto intorno. Ecco, ci sono favole che le senti da piccolo e c’è da digrignare i denti per capirle ormai vecchio. C’è il dovere di verità e giustizia dentro l’alito anche del più bucoso dei buchi.
Ci sono favole che alla sera, quando si smette di raccontarle, ti fanno venire voglia di tenere accesa la luce.

Cronache da Bengodi: tutti allegri al nucleare comunale

giullarePrima notizia, non si è ancora calmato il ciondolo semipendulo del re che il governo di Bengodi ci regala una perla da rizzare anche i più distratti: si torna al nucleare. L’aveva dichiarato il ministro Scajola qualche mese fa ma in fondo ci avevano fatto caso in pochi, anche perchè ci eravamo costretti a non dare troppo peso a tutte le scajolate del ministro almeno per una forma di igiene mentale.

Per inquadrare la statura politica del nostro basta ripercorrere alcuni passi  della sua fulminante carriera verbale: dall’equilibrio dimostrato in occasione del G8 di Genova «Durante il G8, la notte in cui c’è stato il morto, ho dovuto dare l’ordine di sparare se avessero sfondato la zona rossa. A Genova, in quei giorni si giocava una partita seria, lo hanno capito tutti dopo l’11 settembre», passando per la sensibilità sulla vicenda Biagi «Non fatemi parlare. Figura centrale Biagi? Fatevi dire da Maroni se era una figura centrale: era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza», da esperto di diritto del lavoro e processi addirittura senza bisogno di leggere le carte come sul caso Thyssen “Sinceramente, con tutto il rispetto per il procuratore e per il gup torinesi, e non conoscendo le carte processuali, mi riesce difficile immaginare che l’amministratore delegato della Thyssen abbia voluto provocare la morte dei suoi dipendenti. Agli altri indagati è stato infatti contestato l’omicidio colposo. Ed è un’accusa gravissima, intendiamoci”.

Insomma il giusto Ministro al Disastro Ambientale per una Bengodi che si rispetti.

Ora con la nuova Legge Sviluppo (indispensabile in un momento in cui diventa urgente raggiungere quanto prima almeno la maggiore età) si rilancia quel nucleare che più di qualche decennio fa si era perso tempo a rifiutare con un referendum. Infatti oggi il nuovo referendum se l’è fatto da solo il Ministro con il proprio omino del cervello e dai suoi calcoli sembra proprio che abbia vinto il sì, nonostante lui si sia astenuto. Tutti allineati quindi per rilanciare il nucleare come l’energia del futuro con giornali e televisioni allineati a fare festa in questa perversione di futurismo archeologico dell’informazione che ci regala pezzettoni di vomito vendendoceli come bigné.

IL NUCLEARE E’ RINNOVABILE! urlano gli strilloni del re con contratto  a progetto Co.Co.Prot. Da fonti interne dei servizi segreti sembra infatti che Scajola sia riuscito a trovare la formula segreta per produrre uranio all’infinito grazie ad una ricetta della nonna con uova, farina, un pizzico d’olio e una coda di gatto nero. E saranno felici sicuramente anche tutti quelli che l’hanno acquistato negli ultimi anni pagandolo in crescendo fino a 7 volte il prezzo che costava qualche anno fa (per una banalissima regola di mercato che dovrebbe suggerirci che probabilmente si stava esaurendo). Ora con la soluzione di pastafrolla siamo tutti più tranquilli.

IL NUCLEARE E’ PULITO! Certo caro Scajola, se lo scrivi 100 volte con un pastello a cera su un foglio di carta riciclata ancora meglio. E infatti sono le scorie che sono sporche. Quelle scorie che nessuno sa dove mettere e che dovrebbero essere avanzate anche da noi sotto il tavolo per aver provato a costruire qualche centralina qualche anno fa. Ma Scajola è tranquillo. Per le scorie al massimo basterà fare una mezza telefonata all’esercito di insabbiarifiuti del Ministero della Monnezza di Schiavone e Bidognetti o chi per loro e voilà in un batter d’occhio è come se non ci siano mai state. Al massimo subiremo qualche rave-party di un migliaio di mozzarelle un po’ troppo adrenaliniche. E comunque per eliminare scorie e diossine il re ha un metodo infallibile sul “letto quello grande”.

IL NUCLEARE E’ ECONOMICO! Sì, certo. E Rocco Siffredi è gay, l’onorevole Salvini è astemio e Emilio Fede è un ribelle. Chiedete ai finlandesi un paio di opinioni sulla centrale nucleare più grande del mondo Olkiluoto-3. Leggete qui.

IL NUCLEARE E’ SICURO! E a questo punto, a Bengodi, nessuno ha più avuto il coraggio di continuare la conversazione.

Da lontano Scajola urlava sul palchetto “Chi subira’ il disturbo psicologico (perche’ solo di questo si tratta) di ospitare una centrale dovra’ essere premiato e non si tratta solo di premiare il Comune o la Provincia che certamente dovranno avere delle royalties, ma dobbiamo andare direttamente sui cittadini che dovranno pagare l’energia molto, molto, meno che negli altri posti, grazie a bollette piu’ leggere”. Mentre da lontano il tramonto colorava il cielo di porpora.

Speriamo almeno non sia un fungo nucleare, disse il nonno al bambino.

Puf!

Il silenzio colpevole uccide più delle mafie

pauraLettera di Carlo Pascarella, giornalista. Non servono commenti.

E’ proprio vero, il silenzio uccide e scriverò un libro sulla camorra per dimostrarlo: non si offenda nessuno, altro che Gomorra. Non mi importa se lo leggerò solo io, non mi interessano i soldi, lo farò per mia figlia Francesca, la mia dolce bimba di 4 anni che voglio cresca in un mondo migliore. Sarà il libro in cui racconterò le cose che finora non ho detto perché troppo preso a difendermi dagli attacchi della camorra e dal moralismo “aberrante” di uomini di potere che hanno tentato di chiudermi la bocca senza riuscirci.

Racconterò anche di come l’anticamorra per alcuni colleghi, anche di Pignataro Maggiore, sia diventata una moda più che un dovere. Qualche collega forse mi odia, qualcuno mi invidia, qualcuno mi vuole bene. E’ un periodo durante il quale mi sento isolato in una folla oceanica, anche se accanto a me in redazione sento stima ed affetto.

E il libro che scriverò sarà una sorta di mio testamento. Ho insegnato il lavoro a tanti colleghi, molti dei quali hanno fatto poi carriera. Ma ora di me non si ricordano più. Ci sarà un motivo. Forse perché sono rimasto l’unico della carta stampata che scrive ancora su Pignataro Maggiore? Comunque non fa niente, prendo atto di chi mi ha dimenticato.

Chiedo perdono a qualche mio collaboratore con il quale ho sbagliato, il mio carattere di merda che avevo prima mi ha fatto commettere degli errori. Adesso sono un uomo diverso da quello di tre anni fa. Anche i miei maestri sono diversi, si ricordano tuttora di me, che sono stato un umile loro allievo. Ora non mi sento in pericolo, nonostante la mia storia di denunce alla camorra sia finita su quattro libri, ultimo “Il Sud che resiste” di Pasquale Iorio. Nonostante il clamore mediatico scatenato dalla telefonata che mi fecero i boss della camorra casalese Michele Zagaria e Antonio Iovine che mi ha portato su tutti i giornali, anche nazionali. Nonostante “Porta a porta”, nonostante “Anno Zero”, nonostante le tante interviste da me rilasciate a l’Espresso, al Giornale, a Repubblica e a tanti giornali nazionali.

Nonostante tutto resto qui a Caserta a scrivere di camorra: spero ne valga la pena, lo spero davvero. Ma perché ora ho tanti dubbi? Non mi sento un eroe, sono un cronista, ora troppo solo.

Dopo 13 anni vissuti a Caserta da qualche mese sono tornato a vivere nel mio paese, a Pignataro, nel cuore della mafia che ho denunciato. Nulla è cambiato, noia, noia, noia e una cappa opprimente. E non è solo colpa dei camorristi, posso dirlo io che li combatto da anni, nel mio piccolo.

E’ anche colpa di chi ha voluto portare ad ogni costo sul fronte politico, con diatribe da quattro soldi, una battaglia antimafia che andava combattuta tutti insieme, senza il colore o il simbolo di una bandiera. E qualche errore forse l’ho commesso anche io, forse sono caduto in una trappola.

Presto andrò via per sempre da Pignataro, perché quelle poche volte che esco vedo la bellezza dei luoghi della mia infanzia, incontro i miei vecchi amici, ma sento dell’oppressione, dell’isolamento. E’ come se fossi un uomo scomodo. Devo tanto alla mia famiglia, che ha subito attentati, minacce, soprattutto per colpa mia. Ma mi hanno dato la forza di andare avanti. Fanno piacere le pacche sulle spalle di chi mi dice di aver fatto una bella carriera, di essere stato coraggioso.

Ma vi chiedo: è servito a qualcosa? Mi dicono di sì, ma io comincio a capire che la marea non è cambiata. Il sole c’è a Pignataro, ma ci sono ancora tante nuvole. Il sole c’è anche nelle terre del clan dei Casalesi, ma lì c’è ancora un temporale in arrivo. Perché la mafia si ricicla continuamente. Povero Giancarlo Siani, ucciso per amore della verità, per la passione innata per questo mestiere bello ma che talvolta distrugge l’anima.

La camorra va combattuta tutti insieme.

Non so se resisterò, ci proverò con tutte le mie forze a lottare, per 13 anni ce l’ho fatta. Adesso mi sento un po’ stanco. Come un guerriero ferito dall’indifferenza. Eppure sono vivo, ho la mia piccola Francesca e questo mi basta. Molti di voi no, io invece vi amo tutti. Anche coloro i quali pensano sia un mitomane, anche coloro che mi vogliono morto o altrove.

Carlo Pascarella

Milano prostituita: LA CITTA’ DEGLI UNTORI di Corrado Stajano

untoriRaccontarlo facendone una cronaca sarebbe ingiusto per la quadratura di una narrazione sempre così lucidamente di marmo senza perdere la poesia. Conoscevo poco Stajano da lettore anche se ho sempre un foglietto con la notizia del suo abbandono del Corriere della Sera nel 2003 “per protesta in difesa del giornalismo libero”.

Di certo Milano ammuffisce prima del passaggio dall’estetista per il ballo dell’Expo, eppure è così difficile da descrivere che inevitabilmente Stajano che ci riesce in punta di penna è un’ostia sconsacrata, sconsacrante e liberatoria.

Milano scoperta inginocchiata dentro un cesso mentre lecca la cerniera della ‘ndrangheta e di Morabito per guadagnarsi un pass Sogemi ai boss che ortofruttano cocaina dentro l’Ortomercato.

Milano che si gratta l’inguine indecisa per una via a Craxi mentre dimentica indultata il senso di giustizia mite e irremovibile dei suoi magistrati migliori: Guido Galli, ma anche Vittorio Bachelet, Occorsio, Emilio Alessandrini, ucciso dai presunti rivoluzionari delle Br e dai loro fratelli minori (ma ugulamente assassini) di Prima Linea.

Milano che si è venduta per spot il feretro di Piazza Fontana e che avvita dentro un carillon Giuseppe Pinelli. Tutto dentro un cofanetto anestetizzato e anestetizzante nel suo essere strenna.

Milano che ci tiene ad essere antifascista una volta all’anno ma che non disdegna di esserlo stata: dalla genesi tutta bianco e nero nel palazzo di San Sepolcro, a Villa Triste  tendone circense delle gesta del putridume nero della banda Koch, a via Santa Margherita dove si esibiva nel suo numero preferito del pavido eroe fascista Theo Saewecke, fino al capolinea di Piazzale Loreto. Così famoso per l’appeso e così meravigliosamente dimenticato nella veste di pozzanghera dei 15 italiani resi liquidi e carne dalla Legione Ettore Muti nell’agosto del ’44 su ordine della Gestapo.

Milano che si rinnova, come la sua memoria che ciclicamente formatta la precedente.

Milano di Mani Pulite e i piedi ancora nella merda.

Milano con la schiena dritta nel giornalismo nell’accezione giornalistica del termine: Ferruccio Parri e Giulio Alonzi.

Milano che non è mai riuscita a sverginarsi dall’onta della Colonna Infame. Con la peste che le è rimasta nei capelli mentre s’incipria per uscire.

La città degli untori, appunto.

Il protagonista di questo intenso saggio in forma di narrazione di Corrado Stajano si aggira sgomento per le strade di una città che vorrebbe amare, che nella sua storia è stata anche amabile, ma che nell’oggi sembra solo respingere: Milano. In questo peregrinare la realtà contemporanea dischiude il suo passato e Milano diventa il centro concreto e insieme emblematico di un cupo trascorrer di tempi. La città lucente di acque magnificata da Bonvesin da la Riva si trasforma nella “città degli untori” e dalla peste rimane contagiata per sempre; un susseguirsi ininterrotto di oscene violenze connota la storia di Milano fino a piazza Fontana e agli anni del terrorismo e dei servizi segreti infedeli. Alla violenza si accompagnano poi la decadenza della borghesia, parallela alla drammatica e quasi repentina fine della classe operaia, il tramonto del cattolicesimo democratico, che pure a Milano aveva radici profonde fin dagli anni del modernismo, e – nuova peste – la corruzione. Qui nasce il fascismo, qui gli ideali storici del socialismo si barattano per cupidigia, qui trovano terreno grasso il prevaricante populismo berlusconiano e l’assordante grettezza leghista. Allora la peste, nella sua realtà storica e nella sua valenza simbolica di morbo morale, che avvelena la vita delle persone e delle cose, diventa la chiave di lettura che attraverso stratificazioni storiche e metamorfosi di costume può cogliere una lunga durata di vergogna e sofferenza.

Titolo La città degli untori
Autore Stajano Corrado
Prezzo € 16,60
Prezzi in altre valute
Dati 2009, 254 p., rilegato
Editore Garzanti Libri (collana Nuova biblioteca Garzanti)

Logiche di un potere siciliano. L’Arra di Felice Crosta.

di Carlo Ruta

L’Agenzia regionale per i rifiuti e le acque ha dettato regole e mosso fiumi di denaro, lungo tutto il perimetro degli Ato. Di emergenza in emergenza, in più occasioni è finita sotto accusa. L’Ars ne ha deciso quindi, nel dicembre 2008, lo scioglimento. Eppure continua a esistere e a reggere i giochi. Lo farà per tutto il 2009. Ma nelle sedi della Regione tante cose vanno muovendosi perché la decisione venga revocata.

C‘è un soggetto pubblico in Sicilia che evoca emergenze, ma anche torrenti di denaro. È l‘Arra, Agenzia regionale per i rifiuti e le acque, istituita con decreto del presidente della regione Cuffaro il 28 febbraio 2006. Si tratta di una struttura centralistica, rigidamente verticale, che ha avocato competenze che appartenevano a un pulviscolo di enti territoriali: dai comuni ai consorzi di bonifica, assumendone comunque di nuovi, sulle linee della legge Galli. L’avvento di tale organo ha chiuso in via definitiva la fase, inaugurata dal generale Roberto Jucci, dei commissari regionali per l’emergenza idrica, di cui si erano serviti i passati presidenti. In una situazione che sempre più andava intricandosi, con il mobilitarsi di interessi forti oltre che con la crescita delle problematiche sul terreno, quella esperienza si era dimostrata in effetti debole, necessariamente priva di profilo strategico. E il passaggio, logico e per certi versi necessario, si è dimostrato adeguato alle aspettative. L’Arra, guidata dall’avvocato Felice Crosta su designazione di Cuffaro, ha permesso di convogliare nell’isola fondi europei per miliardi di euro, che non potevano essere utilizzati con la gestione commissariale. Palazzo d’Orleans ha potuto contare, da quel momento, su un braccio operativo coeso, in grado di porsi come interlocutore unico di tutte le parti in gioco, quindi garante di un sistema. In definitiva si è materializzato dal versante pubblico, ad hoc, il collante che occorreva per combinare interessi distanti, passato e presente, tradizioni che non intendono demordere e scommesse sul futuro.

A dispetto dei suoi poteri di mediazione e, almeno in via ufficiale, di intervento specialistico, l’Arra reca un profilo pesante. Come altri organi regionali di recente istituzione è retta infatti da logiche di sottogoverno, tese a garantire la stabilità del personale politico a dispetto degli eventi. In questo senso non differisce tanto dagli enti regionali di un tempo: l’Ems, l’Eas, altri ancora. Si è distinta inoltre, sin dalla nascita, per le spese inusitate del suo funzionamento, a tutti i livelli, a partire comunque dal più elevato. Crosta, che sin dagli esordi la dirige con piglio decisionistico, è risultato il burocrate meglio pagato in Italia, con un compenso complessivo di oltre 500 mila euro l’anno, pari a circa 1500 al giorno. Per contenere lo scandalo che andava montando nel paese, si è adottato un escamotage singolare, inteso a bilanciare di fatto i poteri nell’Agenzia. Nel 2008 è stato posto per legge un tetto di 250 mila euro ai compensi dei burocrati, ma, contestualmente, è stato deciso di affiancare a Crosta tre consiglieri, perché tutti i partiti di governo potessero essere rappresentati. La scelta è caduta quindi su Giuseppe Infurna, ex deputato regionale di An, Rossella Puglisi, già candidata per l’Udc alle politiche del 2008, Guglielmo Scammacca, già assessore regionale ai Lavori Pubblici: quest’ultimo poi sostituito, per riequilibrare le influenze, da Giovanni Cappuzzello, già candidato Mpa alle politiche. Anche tali consiglieri beninteso, sulle cui professionalità e competenze ha dovuto garantire Crosta, non importa con quanta convinzione, godono di compensi annui di 250 mila euro cadauno, per 750 mila complessivi.

Gli stipendi d’oro e gli scambi con i partiti di governo, nel solco appunto di una tradizione, costituiscono tuttavia solo il sintomo di un modo di essere, perché solo nelle politiche sul terreno si sono espresse compiutamente le logiche dell’autorità regionale. Ne sono uscite infatti istituzionalizzate emergenze che prima erano state gestite in modo contingente e tattico, con aggravamenti non da poco. In tema di rifiuti, il caso più rappresentativo è quello dei termovalorizzatori, la cui realizzazione, a dispetto dell’opposizione di intere cittadinanze, era stata assegnata nel 2003 a compagini guidate dal Gruppo Falck e da Waste Italia. Dopo l’annullamento della Corte di Giustizia dell’UE dei due appalti, quando le installazioni erano già in opera, l’Agenzia di Crosta avrebbe potuto agire con determinazione lungo vie alternative, come veniva indicato da tecnici e da estesi movimenti. Invece ha preso tempo e insiste a prenderne, tanto da legittimare l’ipotesi, nell’ambito delle opposizioni politiche e non solo, che si voglia eludere, con dei marchingegni, il divieto dell’Unione Europea, mentre nelle città siciliane incombono emergenze rifiuti di rilievo napoletano e in certi ambienti si insiste a guadagnare con le discariche abusive.

In tale vicenda, che ha visto in palio oltre un miliardo di euro, Felice Crosta, prima da vice commissario per l’emergenza rifiuti, poi da presidente dell’Arra, è andato muovendosi in realtà con spesse motivazioni. Nel 2003 ha siglato personalmente la convenzione con le compagini vincitrici, di cui ha avuto modo di conoscere da vicino caratteri, progetti, apparentamenti. Le anomalie degli appalti che alcuni anni dopo sarebbero state riscontrate in sede comunitaria non poterono essere quindi frutto del caso. Richiamano bensì degli atteggiamenti. E la cosa tanto più appare indicativa, di un clima se non altro, se si tiene conto di alcune realtà economiche incastonate in quelle cordate aggiudicatarie, che reclamano oggi una penale di 200 milioni di euro per l’annullamento degli accordi. Si tratta della Emit, che fa capo alla famiglia Pisante, e della Altecoen, che riconduce al medesimo gruppo oltre che all’imprenditore Pietro Gulino di Enna. La prima risulta presente negli appalti per i termovalorizzatori di Palermo e Casteltermini, sotto la guida della Actelios del gruppo Falck. La seconda figura nel cartello aggiudicatario dell’inceneritore di Augusta, guidato ancora da Actelios, mentre costituisce un pezzo forte del consorzio Sicil Power, che si è aggiudicata l’appalto dell’inceneritore di Messina. A fare la differenza sono comunque due dettagli. Sia i Pisante sia Gulino recano un passato giudiziario importante. I primi, che proprio con l’imprenditore ennese sono stati dentro l’affare dei rifiuti di MessinAmbiente, finito in scandalo con numerosi arresti, risultano inseriti in modo strategico, con presenze quindi a tutto campo, nell’altro ambito interessato dall’Arra: quello dell’acqua. Ebbene, tutto questo, ancora una volta, non può essere considerato casuale. Richiama bensì concertazioni mirate, una macchina in movimento, che trova riscontri proprio nei modi in cui l’Agenzia di Crosta si è posta sul terreno delle risorse idriche.

In effetti, pure da tale prospettiva sono andati creandosi strani miscugli, largamente condivisi dai potentati regionali. Il momento di avvio, che in qualche modo ha aperto le piste dell’affare siciliano, si è avuto comunque con l’entrata in campo della multinazionale francese Veolia intorno al 2003. Tale società aveva già stretto un patto di ferro con i Pisante, attraverso la condivisione del pacchetto azionario della Siba, che aveva assunto gestioni di acqua e depuratori lungo tutta la penisola. Volgendosi alla Sicilia, recava quindi buone ragioni per fare cordata con l’alleato pugliese, che peraltro, proprio nell’isola recava interessi e referenti. Pure con questi ultimi, beninteso, la multinazionale ha dovuto fare i conti. Si è ritrovata a interloquire infatti con il Gulino di Altecoen e ha dovuto riconoscere spazi di tutto rispetto al nisseno Di Vincenzo. In tali termini si compiva quindi, nel 2004, la maggiore esperienza di privatizzazione dell’acqua nell’isola, con il passaggio degli acquedotti dall’Eas a Sicilacque. E Felice Crosta, nelle vesti allora di commissario straordinario all’emergenza, sul piano strettamente operativo ne è stato l’artefice, per diventarne infine, da plenipotenziario dell’Arra, il garante.

Nell’aprile 2004, Salvatore Cuffaro dichiarava solennemente che la privatizzazione era ormai pressoché fatta e l’emergenza in via di superamento. Ma le aspettative di un iter veloce e confortevole della prima sono durate poco. L’istituzione dell’Agenzia è apparsa la risposta idonea. E in una certa misura lo è stata, se è riuscita, appunto, ad avocare a sé poteri, a stabilire quindi regole e direzioni di marcia in tutto il territorio regionale. Non si è tenuto tuttavia conto di talune situazioni sul terreno, che sono andate facendosi sempre più magmatiche. Non si tratta solo dei ricorsi al Tar, che nella definizione degli appalti sono diventati una consuetudine. Né delle direttive comunitarie, che pure hanno costituito uno scoglio difficile, talora addirittura insuperabile. È maggiormente lungo il perimetro degli Ato che il disegno strategico di Crosta è andato impigliandosi. A partire dagli Ato stessi. Ne sarebbero potuti nascere uno per provincia. Ne sono risultati 27, che contano ben 189 consiglieri d’amministrazione. In sintonia con contraenti privati, sotto comunque le direttive dell’Arra, le autorità di Ambito avrebbero dovuto mettere ordine nei servizi idrici e nel ciclo dei rifiuti, invece su entrambe le linee si è finiti in piena calamità. In ultimo, l’intera macchina degli Ato è entrata in crisi, fino al limite del dissesto, con un indebitamento complessivo di quasi un miliardo di euro, non tanto per le difficoltà economiche degli enti locali di riferimento, pur significative, quanto per i modi in cui ha gestito le proprie economie, a partire dalle spese di funzionamento, che non costituiscono beninteso le maggiori. Alcuni numeri al riguardo sono eloquenti: solo i 189 consiglieri di amministrazione costano ai comuni circa 12 milioni di euro l’anno; una somma analoga viene destinata a incarichi di consulenza; qualche milione viene speso addirittura per le auto blu.

L’Agenzia di Crosta è andata portandosi, come è evidente, su un terreno critico. Alle emergenze che ne hanno garantito la sopravvivenza e il potere, se ne sono aggiunte infatti altre, meno controllabili, tanto più in tempi di recessione. D’altra parte, restano impegnative le pretese del privato, entro cui insistono a influire le ipoteche della tradizione. Garante di un sistema che ha incluso ed escluso, l’Arra ha sempre rispettato i patti con i contraenti, visibili e sottintesi. Ne danno conto i capitoli di spesa della Regione, l’impiego di fondi europei, la concessione a certe condizioni del patrimonio pubblico, la condivisione o la tolleranza di taluni stati di fatto. Con l’apporto decisivo degli Ato e non solo, ha finito quindi con il rendere sistema, più ancora che in passato, lo spreco di risorse. Mentre si consuma allora il fallimento del piano rifiuti, Felice Crosta può trovare confacente siglare un accordo con Actelios e Sicil Power, con cui viene stabilito in 200 milioni di euro la somma che dovrà essere pagata alle medesime a titolo di penale per l’annullamento dell’appalto degli inceneritori: un importo, appunto, che lascia tanto dubitare. A dispetto dell’obbligo di astensione, l’Arra trova altresì confacente proporre nuovi bandi di gara, che violano di fatto l’obbligo di esecuzione della sentenza della Corte di Giustizia Ue, oltre che i princìpi della libera concorrenza. E ancora, di concerto con la Regione, che intanto ha dovuto farsi carico dei 540 milioni di debiti accumulati dall’Eas, trova congruo che gli indebitamenti degli Ato vengano risanati, come è avvenuto nel caso di Simeto Ambiente, con i fondi delle autonomie locali.

Tutto questo ha recato beninteso dei costi, che possono esporre l’autorità regionale a una serie di pericoli. Alcuni segnali possono persino evocare gli anni dell’Eas di Aristide Gunnella, finiti in scandalo: il crepuscolo cioè di un sistema che nei decenni della Dc aveva espresso i caratteri di un feudo. In tutta la Sicilia è in effetti allarme. Le denunce si moltiplicano. In numerosi centri la protesta, che sempre più riunisce l’intera banda delle emergenze, giunge a coinvolgere sindaci ed esponenti degli stessi partiti che governano la Regione. E dal palazzo liberty da cui muovono Crosta e i suoi commissari ad acta si colgono indizi di tensione, mentre la partita dei termovalorizzatori, sempre più influente e contaminante, rischia di generare ulteriori scoperture. Su tali sfondi trova senso allora la decisione di sciogliere l’Agenzia, presa dall’Ars il 28 novembre 2008, su proposta del consigliere Giuseppe Laccoto del Pd. Il termine delle operazioni di chiusura è stato fissato nel 31 dicembre 2009, dopo cui è prevista l’entrata in funzione di un Dipartimento delle acque e dei rifiuti presso il nuovo assessorato dell’Energia. Ma per il sistema vigente è scoccato realmente l’inizio della fine?

L’Arra, espressione del potere regionale, si è resa garante di equilibri delicati, fino a divenire l’emblema, si direbbe il monumento, della privatizzazione in stile siciliano. Non può quindi scomparire senza che se ne avvertano serie risonanze. Crosta in particolare si è assunto l’onere di condurre in porto progetti che restano largamente irrisolti. Esistono servizi idrici da assegnare in aree importanti, come quelle di Messina e Trapani. La problematica dei termovalorizzatori rimane appunto nelle secche. Per tali ragioni, e non solo, è difficile che entro il dicembre 2009 i conti possano essere chiusi. Se da parte dell’opposizione, con un emendamento proposto dallo stesso Laccoto, è stato chiesto quindi di anticipare lo scioglimento dell’Agenzia e il passaggio di consegne, nell’ambito dei partiti di maggioranza si sta operando perché la decisione dell’Ars venga rivista, elusa, fatta decadere. In questa direzione va in particolare la presa di posizione del capogruppo dell’Udc Rudy Maira, secondo cui la professionalità acquisita sul campo dai funzionari dell’Arra non è sostituibile. Il resto, ovviamente, va facendosi in sordina.

Fonte: “L’isola possibile” rivista mensile siciliana allegata a “Il Manifesto”.

Radio Mafiopoli 23 – Salvatore Borsellino e che Stato è stato

Ascolta la 23a puntata: Salvatore Borsellino e che stato è stato

Salvatore Borsellino è uno di quei fiori rari di memoria attiva, di quelli per cui una perdita è soprattutto il dovere di un inizio. Lo incontro che è mattina già matura, nel suo ufficio, dove sorridono in foto suo fratello Paolo insieme a Giovanni Falcone.

Salvatore, in uno stato civile i famigliari delle vittime che sono morte per servire lo stato non dovrebbero avere l’obbligo e l’emergenza di continuare a lottare ma dovrebbero avere il diritto semplicemente di preservarne la memoria. Invece questo con tuo fratello Paolo Borsellino non è successo…

– Non è successo anche perché, purtroppo, quello che si tenta di fare in Italia è di limitare la commemorazione di Paolo, facendola diventare proprio commemorazione, cioè pensando a Paolo come una persona morta. Invece la verità è tutt’altra: io vado tanto in giro in Italia e mi accorgo che la figura di Paolo è una figura ancora estremamente attuale, una figura estremamente viva. La gente la sente proprio come qualcosa che gli manca e che vorrebbe. E allora noi ci siamo dovuti prendere questo compito soprattutto per un fatto: per il fatto che di quella strage non è stata fatta giustizia, cioè non si sa ancora nulla, i processi vengono bloccati e le indagini su alcuni punti chiave come quello dell’agenda rossa [l’agenda su cui Paolo Borsellino segnava gli sviluppi e le ipotesi sulle sue indagini, misteriosamente sparita dalla borsa del giudice prelevata subito dopo l’attentato di via D’Amelio ndr]o del Castello Utveggio non vanno avanti.

E c’è proprio un patto a qualche livello che sancisce che queste cose devono essere dimenticate dall’opinione pubblica. Di queste cose non si deve parlare, le deve coprire il silenzio. A fronte di questo atteggiamento è nostro dovere, dei famigliari di Paolo, cercare di tenere viva nelle persone la memoria che qualcuno invece cerca di occultare.

Secondo te, perché c’è questa sonnolenza di gran parte della società civile, per cui ogni tanto, anche andando in giro parlandone, facendo incontri, ci si accorge che, inconsciamente, la gente sembra che dia per chiuso o per risolto il problema dei colpevoli della morte di Paolo?

– Perché quello che è stato fatto è proprio cercare di fare passare l’assassinio di Paolo e di quei ragazzi che sono morti in via D’Amelio come una strage di mafia. E purtroppo credo che a livello di opinione pubblica si sia abbastanza riusciti in questo intento. Hanno messo in galera un po’ di persone – tra l’altro condannate per altri motivi e per altre stragi – e in questa maniera ritengono di avere messo una pietra tombale sull’argomento. Devo dire che purtroppo una buona parte dell’opinione pubblica, cioè quella parte che assume le proprie informazioni semplicemente dai canali di massa – televisione e giornali – è caduta in questa chiamiamola “trappola” ed è stata, potremmo dire, partecipe inconsapevole di questo disegno. Quello che noi invece cerchiamo in tutti i modi di far capire alla gente – e un certo numero di persone, cioè quelle che assumono informazioni anche dai libri e dalla rete, questa cosa la capiscono sicuramente e c’è anche una forte attività sul voler dire la verità – è che questa è una strage di stato, nient’altro che una strage di stato. E vogliamo far capire anche che esiste un disegno ben preciso che non fa andare avanti certe indagini, non fa andare avanti questi processi, che mira a coprire di oblio agli occhi dell’opinione pubblica questa verità, una verità tragica perché mina i fondamenti di questa nostra repubblica. Oggi questa nostra seconda repubblica è una diretta conseguenza delle stragi del ’92.

Al di là degli esiti processuali (che in realtà non ci sono nemmeno poiché qui si procede per archiviazione) ci sono degli elementi incontrovertibili che fanno credere che ci sia una relazione tra la strage di via d’Amelio e una certa parte di Stato in quel tempo?

– È vero che si procede per archiviazione, ma la gente si dovrebbe rendere conto che archiviazione non vuol dire che una persona o delle persone sono state assolte, ma semplicemente che le indagini non hanno potuto nei tempi necessari arrivare al punto in cui avrebbero dovuto arrivare. E se la gente si andasse a leggere tutti i procedimenti di archiviazione, per esempio di Caltanissetta, che tra l’altro spesso sono archiviazioni magari forzate dal capo della procura – come per esempio nel caso dei Tescaroli come ben si legge nel recente libro “I colletti sporchi” di Tescaroli e di Ferruccio Pinotti – si capirebbe che l’archiviazione non è un’assoluzione e nemmeno significa che le indagini ad un certo punto si sono fermate perché non c’erano elementi. Spesso gli elementi ci sono ma non hanno potuto essere sviluppati a sufficienza oppure addirittura qualcuno ha fatto sì che il processo ad un certo punto venisse bloccato. Quindi gli elementi ci sono sicuramente: basta andare per esempio a leggere negli atti del Processo ‘Borsellino Bis’ la relazione di Gioacchino Genchi quando scrive quale può essere stato l’unico punto da cui può essere stato attivato il telecomando che ha fatto esplodere l’esplosivo preparato in via D’Amelio, basta andare a vedere – sempre nella stessa relazione – quali telefonate sono partite in un senso e nell’altro da Castel Utveggio verso numeri intestati a componenti dei Servizi Segreti, per capire come gli elementi ci sono e sono fortissimi. Basta andare a vedere le fotografie dell’Arcangioli [colonnello dei carabinieri ndr ] che si allontana dalla macchina esplosa con la borsa dell’agenda rossa in mano e chiedere come davanti ad una prova incontrovertibile come questa le indagini siano state nuovamente bloccate per capire come sia evidente come non è che non ci siano elementi sui quali avviare dei procedimenti, ma c’è la precisa volontà di bloccarli nel momento in cui arrivano a toccare certi fili che non devono essere toccati, quando arrivano a certe persone che sono – adesso anche per legge dello Stato, anche se è una legge incostituzionale – intoccabili.

Ho letto quello che hai scritto sul procedimento di archiviazione legato alla vicenda della sottrazione della borsa e mi sono chiesto qual è stata la tua sensazione da famigliare nel vedere la borsa contenente la famosa agenda rossa (una delle memorie più importanti di Paolo) in mano ad una persona che nella fotografia è ritratta con piglio molto sicuro in una situazione assolutamente tragica, in mezzo a cadaveri, con tutto quello che stava succedendo in quel momento: ti ha scoraggiato o ti ha dato nuova linfa per continuare a pretendere la verità?

– In un primo tempo – l’ho anche scritto sul mio sito – è stata di scoraggiamento. Addirittura, scrissi: “non so se riuscirò a resistere a questo ulteriore colpo”. Poi purtroppo mi sono accorto di non potermi permettere questi atteggiamenti, anche se momentanei, perché la gente che mi segue e che segue la mia lotta è rimasta un po’ smarrita rispetto a questa mia affermazione e ha pensato che allora non ci fosse più niente da fare. Io mi sono ripreso immediatamente e ho preso anzi da questa vicenda ulteriore linfa come faccio da sempre. Ormai mi sono imposto un’operazione mentale quasi cosciente: a fronte di questi scoraggiamenti ne adopero i motivi per buttarli dentro la fornace e far sì che producano ulteriore rabbia. Ed è quello che mi è successo anche in questo caso: a fronte di questo ennesimo insabbiamento addirittura in questo caso di una prova assolutamente evidente. Prima tu dicevi che basta guardare la fotografia per vedere con che faccia sicura si muove. È proprio questo che mi fa rabbia, che mi ha provocato prima scoraggiamento e adesso ha aumentato la mia rabbia: l’ambiente in cui si trovava e il fatto che l’Arcangioli si muovesse calpestando cadaveri, camminando in mezzo a pozzanghere di sangue. Questo al contrario è stato adoperato nella sentenza di archiviazione del GUP proprio per giustificare il fatto che si assolveva l’Arcangioli che ha giustificato le dieci versioni diverse sui suoi movimenti e sulle persone a cui avrebbe consegnato la borsa, dicendo proprio che era così sconvolto dall’aver dovuto calpestare pezzi degli agenti della scorta di Paolo e dello stesso Paolo, che in quella condizione non può ricordare. E io credo che basti che una qualsiasi persona guardi l’atteggiamento dell’ Arcangioli che si allontana con passo sicuro guardandosi intorno tranquillamente – forse per verificare se qualcuno lo stesse osservando – per capire che questa motivazione della sentenza è addirittura assurda e che in base a quella motivazione Arcangioli non può essere assolto e non si può bloccare il processo. Io questa motivazione – benché non l’accetto neanche da lui trattandosi di un magistrato – la posso accettare da Ayala, il quale dice di non ricordare se effettivamente quella borsa gli è stata consegnata e se l’ha presa o non l’ha presa. Ma Ayala era anche amico di Paolo e quindi aver dovuto – come ha detto lui – “scavalcare il troncone di Paolo” penso che possa avergli provocato uno shock. Arcangioli in quel caso, guardando le riprese, mi sembra una persona che sta compiendo un’operazione di guerra. In guerra di cadaveri se ne vedono e se ne calpestano, tant’è vero che Arcangioli sembra proprio che stia compiendo una missione che qualcuno gli ha affidato.

Tornando su quell’appunto sull’agenda di Paolo in riferimento all. On. Mancino (secondo cui Paolo Borsellino sarebbe rimasto sconvolto da un incontro con Mancino proprio alcuni giorni prima dell’attentato), tu che idea ti sei fatto? Sapendo che lì è terreno minato…

– Di quell’incontro io ritengo che sia evidente – anche davanti alle giustificazioni puerili di Mancino – il fatto che ci sia stato e che in quell’incontro deve essere successo qualcosa di importante. Mancino adduce delle giustificazioni così puerili, che io chiamerei vergognose più che puerili, dicendo “io non conoscevo fisicamente Paolo Borsellino e quindi non posso ricordare se tra le altre mani che ho stretto ci fosse anche la sua”. Queste sono le frasi ignobili che adopera, come se la mano di Paolo Borsellino fosse una mano qualsiasi quando Paolo Borsellino in quei giorni era una persona della quale tutti erano sicuri che la morte fosse vicina. Che un ministro dell’interno possa non essersi interessato di chi era Paolo Borsellino e possa non aver visto neanche quel giudice che trasportava la bara di Falcone vestito della sua toga e che quindi possa affermare di non conoscerlo fisicamente è veramente una cosa che si può definire puerile, direi anche che si possa definire ignobile che un allora ministro della Repubblica parli in questa maniera nei confronti di un giudice come Paolo Borsellino. Anche le sue giustificazioni addotte tirando fuori quell’agendina in cui non c’è scritto assolutamente nulla per cercare con quella di contrastare l’agenda che io gli avevo presentato dove di pugno di Paolo c’è scritto “ore 19.30 Mancino”. A fronte di una testimonianza autografa di Paolo lui tira fuori da un cassetto un planning qualsiasi dicendo: ecco qui non c’è scritto l’appuntamento quindi io non ho avuto nessun appuntamento con Paolo. In quell’agendina non c’è scritto, e io l’ho vista molto velocemente nella ripresa televisiva, ma ci sono scritte tre righe in tre giorni diversi. Se quella è l’attività di un ministro della Repubblica, che si può concentrare in tre righe scritte in fondo all’agenda per un’intera settimana, penso che tutti devono capire che questa sia una giustificazione di una persona forse in difficoltà e che quindi cerca in qualche maniera di trovare delle prove. Io sono convinto, e tante cose me lo fanno pensare, che in quell’incontro a Paolo abbiano prospettato quella trattativa tra mafia e Stato che adesso sta emergendo in tutta la sua evidenza dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino. E se ne sta parlando in quel processo nascosto che si sta svolgendo a Palermo, proprio sulla trattativa in cui sono imputati il colonnello Mori e tutti i componenti del Ros, che hanno portato avanti questa trattativa per conto dello Stato.

Secondo te il fatto che dalle bombe si sia passati invece ad un’azione mafiosa fatta di decreti o di comunicazione “di distrazione” vuol dire che Loro hanno meno paura? si sentono più impuniti? o noi siamo meno efficaci nella nostra opera di pretesa di legalità e giustizia reale?

– Io penso che faccia parte tutto della stessa strategia, per cui da un lato la cupola mafiosa ha deciso di inabissarsi e quindi di essere meno evidente all’opinione pubblica per tornare allo status quo precedente agli anni Ottanta, quando c’era una connivenza tra stato e mafia che non balzava agli occhi, poi c’è stata la stagione stragista dei corleonesi e a questo punto si è ritornati – ed è stata una scelta ben precisa – alla situazione precedente. In più le persone che oggi detengono il potere sono molto esperte dal punto di vista della comunicazione e dell’impatto sulle persone, perché sono dei maestri a gestire la loro immagine attraverso gli organi di comunicazione che tra l’altro hanno in mano. Sono dei maestri a gestire l’impatto sull’opinione pubblica. La strategia ben precisa è stata – a fronte del fatto che la reazione della coscienza civile rispetto alle stragi di Capaci o di via D’Amelio e a fronte dell’uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tutte le altre innumerevoli stragi di Stato che l’hanno preceduta è tale da costringere lo Stato a simulare una reazione e da rendere necessario il prendere, almeno di fronte all’opinione pubblica, dei provvedimenti che poi a poco a poco nei tempi successivi vengono rimangiati – quella di non adoperare più il tritolo per eliminare i giudici ma di eliminarli in maniera ancora peggiore come è stato fatto con De Magistris e come è stato fatto con la Forleo e con Apicella. Proprio perché questo tipo di azione comporta in ogni caso la messa a tacere, l’eliminazione di quella persona che deve essere eliminata. Però non provoca per contro quella reazione dell’opinione pubblica che costringe lo stato a simulare una reazione nei confronti della criminalità organizzata, visto che in effetti una reazione autonoma e una lotta autonoma dello stato nei confronti della criminalità organizzata in Italia possiamo dire a voce alta che non c’è mai stata.

Ti faccio una domanda un po’ scomoda. Falcone diceva che “per combattere la mafia serve non l’impegno straordinario di pochi ma l’impegno ordinario di tutti”. Questo fronte comune dell’antimafia sembra impossibile da realizzare: l’antimafia diventa in qualche caso uno strumento politico, magari per un’opposizione che manca di altri contenuti, e comunque sconta al suo interno alcuni dissapori per questa presunzione di qualcuno di essere il detentore unico dell’antimafia . Tu hai trovato, hai vissuto dinamiche di questo tipo? credi che ci possa essere un momento per cui l’urgenza riesca veramente ad unire tutti?

– Io non so perché mi dici che è una domanda scomoda: questo è quello che io ho sempre pensato. Il fatto è che nelle organizzazioni antimafia da un lato si insinua della gente che cerca di sfruttare questo filone anche per le proprie mire personali e dall’altro ci sono delle vere e proprie infiltrazioni nell’organizzazione antimafia di gente che arriva esattamente dall’altro lato. Faccio l’esempio del consigliere di Francesco Messina Denaro – il signor Vaccarino – che nonostante sia stato condannato a nove anni per traffico di droga sta cercando di rifarsi una verginità e addirittura di infiltrarsi, di porsi come una persona che fa parte di organismi antimafia e che promuove delle organizzazioni antimafia. Questa persona l’ho addirittura querelata perché ha cercato di infangare la memoria di mio fratello dicendo addirittura che Paolo si era presentato in carcere tre giorni prima di morire dicendo che su di lui si era sbagliato e che quindi l’avrebbe fatto mettere in libertà, cosa assolutamente assurda per un giudice come Paolo fare un’azione del genere, tant’è vero che poi ho cercato di documentarmi andando a cercare proprio nell’unica sua agenda che ci è rimasta, l’agenda grigia, e ho visto come nei movimenti di Paolo in quei giorni non sia assolutamente menzionata una visita alle carceri dove era detenuto questo personaggio. In più io ritengo che ci siano delle organizzazioni antimafia di grandi dimensioni e, io non ho paura di parlare, faccio riferimento a Libera, che potrebbero fare molto di più. Libera si presenta come l’associazione di tutte le associazioni antimafia. Io dico: non sono neanche stato invitato l’anno scorso a Bari alla manifestazione nazionale antimafia. Probabilmente non ci sarei andato proprio perché quando queste organizzazioni assumono queste dimensioni forse non fanno abbastanza attenzione a guardare chi viene invitato e se le persone invitate sono degne di stare lì dove si manifesta contro la mafia. Le posizioni che assumo da un po’ di tempo necessariamente devono andare non contro le istituzioni, ma contro chi le occupa, perché io ritengo che il più grosso vilipendio alle istituzioni sia il fatto che certe persone non degne di occupare quelle istituzioni, le occupano. Allora il fatto che io debba necessariamente, per forza di cose, per quelle che sono le mie convinzioni sulla strage del ’92, andare ad attaccare delle persone che occupano le istituzioni viene visto da certe organizzazioni come qualche cosa di dirompente, qualcosa che non può essere mostrato. E di conseguenza io non sono stato invitato a quella manifestazione ed è successo un caso quest’anno quando dopo essere stato invitato a Crema – non mi ricordo se Crema o Cremona – a parlare nell’ambito della Carovana Antimafia è arrivato il volantino senza il mio nome. Probabilmente perché non ero abbastanza presentabile, proprio per questo mio atteggiamento. Io credo che queste cose fanno veramente pensare: forse ad un certo punto le organizzazioni antimafia quando crescono troppo devono salvaguardare certi equilibri e io queste cose le ho dette anche recentemente ad un incontro che ho avuto con Nando Dalla Chiesa, e l’ho detto in maniera franca. Io mi aspetterei da Libera che assuma certi atteggiamenti molto più forti in certe situazioni a fronte di certi fatti che accadono in Italia, invece siamo sempre i soliti: io, Sonia Alfano, Benny Calasanzio, l’organizzazione Dei Georgofili, che assumono atteggiamenti netti e decisi. Non voglio dimenticare anche mia sorella, tant’è vero che non mi risulta che mia sorella attualmente sia in rapporti idilliaci con Libera.

Non ti capita mai di sentirti solo in questa battaglia?

– Ma io, probabilmente per il fatto che vado tanto in giro e incontro tanti giovani e tante persone che della lotta alla mafia hanno fatto un loro impegno ben preciso e costante – e io vengo invitato in tutta Italia non sicuramente dalle istituzioni ma da gruppi autonomi di ragazzi, da ragazzi dei licei, ragazzi delle scuole, dai meet up di Grillo – mi sento meno solo, cosa che forse se non avessi questi incontri costanti con questo tipo di persone probabilmente mi potrebbe succedere.

Quale potrebbe essere il consiglio che ti sentiresti di dare alla gente che vive di televisione , alla gente che ogni 19 luglio prova una commozione autentica nel vedere al TG, se lo faranno quest’anno, il servizio sulla morte di Paolo? Qual è lo scatto che manca per avere veramente una nuova partigianeria, nel senso di prendere in modo deciso e netto e intellettualmente onesto una parte?

– Guarda, quando faccio questi incontri con i giovani e anche con gli adulti alla fine qualcuno mi viene a dire: “mi sono commosso”. Io forse in maniera troppo brusca gli dico che se si è commosso allora io non sono riuscito a fare quello che intendevo fare. Perché io in questi incontri con la gente intendo far indignare le persone, intendo fargli suscitare una rabbia contro quello che è lo stato del nostro paese. Quello che invece qualcun altro vuole fare è proprio di limitare le memorie di Paolo alla commozione una tantum in occasione delle cerimonie di commemorazione o altro. Questo è quello contro cui mi ribello, questa è una ben precisa strategia e proprio a fronte di questo io ho organizzato questa manifestazione quest’anno in via D’Amelio il 19 luglio per impedire che la gente vada lì a commuoversi, per impedire che i soliti avvoltoi vengano lì a celebrare la morte di Paolo Borsellino. Il consiglio che posso dare alla gente è quello di spegnere la televisione e di non leggere i giornali e invece di informarsi in maniera autonoma come infatti per fortuna fanno oggi tanti giovani. È vero che esiste anche la massa di giovani che guarda il Grande Fratello e purtroppo questo mi viene detto da quei giovani impegnati che incontro, dicono di sentirsi certe volte un po’ isolati perché cercano di diffondere queste cose e si sentono rispondere: “no guarda che devo registrare il Grande Fratello”. Purtroppo è vero che questo problema esiste, però io dico che nelle nuove generazioni soprattutto c’è una tendenza a non accettare questa informazione così come viene propinata per cercare di addormentare l’opinione pubblica, per addormentare le menti, e a cercare invece di informarsi direttamente. Il consiglio che posso dare alla gente è proprio questo: leggere, leggere il più possibile, informarsi in maniera autonoma e quindi in questa maniera conoscere quella che è la verità. Poi certe cose verranno autonomamente, verranno come diretta conseguenza del fatto che la gente sa, che la gente conosce. Io mi accorgo che c’è una grossa ignoranza in giro, c’è la strategia di fare dimenticare, addirittura di cancellare le nostre memorie, che è quello che viene fatto: si cerca di cancellare la memoria della Resistenza, si cerca di cancellare la stessa Costituzione o per lo meno di stravolgerla. La strategia, purtroppo, è una strategia che sta dando i suoi frutti e che in questo momento purtroppo è vincente. Bisogna incitare la gente a reagire a questa strategia, a non perdere la propria memoria, a informarsi. Quando vado in giro a parlare oggi di agenda rossa e di Castel Utveggio spesso la gente rimane stupita. Mi confessa di non conoscere assolutamente queste cose. Se la gente conoscesse che cosa c’è dietro la strage del ’92 forse reagirebbe in maniera diversa. E forse oggi non saremmo nel terribile stato in cui siamo.

Ma tu sei ottimista?

– Io non mi posso definire ottimista, nel senso che se non altro penso che della mia lotta per la giustizia e per la verità credo che non riuscirò a vedere i risultati. Io credo che me ne andrò da questo mondo ancora continuando a lottare, e lo farò fino all’ultimo giorno, per la verità e per la giustizia. Ma credo che non riuscirò a vedere i risultati di questa mia piccola lotta che spero non sia solo mia. Però se continuo a farlo vuol dire che credo – e lo credo fermamente – che le nuove generazioni, le generazioni che verranno, riusciranno a sentire quel fresco profumo di libertà di cui Paolo parlava e per cui Paolo è morto.

Radio Mafiopoli 13 – Natale con i buoi

NATALE CON I BUOI

Caro Babbo Natale,
mi chiamo Luigino, quest’anno la letterina di Natale il mio babbo mi ha detto di scrivertela a te e non più ad Andreotti come gli anni scorsi perché ormai, dice il babbo,  quello è fuori di testa e rischiamo che ci arrivi ancora sotto l’albero il sottobicchiere con la faccia di Gelli che il mio fratellino c’è rimasto così male che ha frignato fino ai primi d’aprile. Io gli ho detto al babbo – allora scriviamola al presidente del consiglio! – ma lui dice – lascia perdere… che con il cognome che ci chiamiamo capisce subito che siamo terroni e comunisti e ci regala un corso intensivo di conversione alla fede di Emilio Fede. E io non ho capito se la fede è quella di Fede o intendesse la fede quella maiuscola o la maiuscola era per fede, ma il babbo mi ha detto di smetterla che oramai sto natale ci ha anche la fede, in cassa integrazione.  Allora scriviamola alla minoranza che ci può aiutare! – gli ho detto. E lui ha cominciato a diventare tutto rosso e paonazzo e a ridere come un ossesso che si è subito bevuto con la mamma un bel bicchiere di rosso in due… erano anni che non lo vedevo andare a letto così felice e contento. Allora caro Babbo Natale quest’anno la scrivo a te la letterina, che ormai come dice mio papà sei il candidato più accreditato per farci uscire dalla crisi.
Quest’anno giù a Mafiopoli ci hanno detto a scuola che sarà un natale di crisi nera:  che neanche ci hanno avuto i soldi per stamparci i manifesti per prometterci  più acqua per tutti che facevano tanto aria di natale anche se non ci credeva più nessuno, perché a natale alla fine è il pensiero che conta.
Se passi da Palermo mandaci giù dal camino ai miei amici mafiopolitani uno di quei libri dell’autogrill su come gestire ottimizzati l’azienda 2.0 e tutte quelle storie lì. Perchè proprio in questi giorni la polizia ci ha fatto 99 ingabbiati che volevano rimettere in piedi la nuova commissione mafiopolitana come ai bei tempi di Riina ‘u Curtu (che il babbo dice che era una specie di parlamento ma molto più silenzioso e con gli scuri alle finestre molto più scuri). Ecco se passi di lì almeno s’imparano che se si mettono a fare la commissione in 99 succedono quei naturali problemi di convivenza tipici della democrazia. Pensa, Babbo Natale, che a capo della commissione antiantimafia questi gran geni dei boss ci volevano metter Bernardo Capizzi si vede perché ci aveva il cognome di uno che aveva già capito tutto,  ed è un bel giovanotto di 64 anni. Papà dice che deve essere proprio l’anno santo dei rinnovamenti a favore dei giovani in tutti i campi, questo. Ecco se tu ci regali un bel manuale a questi bei boss mafiopolitani magari cominciano a capirci un po’ di più e magari anche a curare un po’ di più l’immagine e ad affittarsi una sala riunioni decente senza riunirsi sempre in queste casupole tutte sgarruppate con l’arbre magique alla ricotta che viene la tristezza nelle ossa solo a guardarle. Se riesci e non è troppo disturbo a Riina U’Curtu il libro  portaglielo solo con le figure, altrimenti si incaglia al primo congiuntivo che dice che i congiuntivi sono il vero problema di Mafiopoli e che li hanno inventati i comunisti. E se vuoi proprio esagerare e fare un figurone, Babbo Natale, a Zu’ Binnu Provenzano portaglielo su una bella carta intestata a forma di bibbia, che sono così sicuro al cento che si commuove perché ci ha il cuore commuovibile, mica solo la prostata. E magari salutami Raccuglia e Messina Denaro, perchè babbo mi dice che sei l’unico che ha il loro numero di telefono. Perché, dice babbo, quella è gente che se ha bisogno di solito ti chiamano loro.
Se passi da Napoli butta giù un altro problema a caso di quelli tuoi che c’hai nel sacco. Così ci dimentichiamo presto anche questi ultimi e li spediamo insieme a tutti gli altri nella discarica della distrazione. E visto che ci sei, se puoi controllare nel tuo mazzo di chiavi delle porte di tutto il mondo guarda se ti avanzano quelle per la discarica, giù a Chiaiano: che siccome è un posto non pericoloso e sotto controllo come continuano a dirci magari, visto che sono così sicuri e ci rassicurano, gli prepariamo il cenone sopra la montagnola. E voglio vederli che faccia fanno mentre si mangiano gli astici che diventano fluorescenti.
Da Gomorra puoi anche non passare, tanto lì ci passa qualcuno di Sandrocàn Schiavone a darci la mesata e a natale pure con la tredicesima. E poi se ti vedono in centro tutto rosso e con le renne ricominciano a frantumarceli che è colpa di Roberto e del suo libro e ricomincia la tiritera. E magari regala un fiore a Rosaria Capacchione, e prova a convincerla anche tu che in una Mafiopoli civile è normale dover vivere in freezer per aver scritto i fatti degli altri. Che sono sicuro che non ci crede ma almeno le strappi un mezzo sorriso.
Se passi da Buccinasco (occhio alle code in tangenziale) lascia nel camino del sindaco Cereda uno di quei pupazzi cinesi che gli tocchi il pancino e ripetono le parolacce quelleche non si devono mai dire: pipì, pupù, scemo e mafia. Così si tranquillizza e agisce con calma: nei beni confiscati ci può mettere gli uffici della commissione sull’assegnazione dei beni confiscati e ha risolto il problema, alla Macchiavelli, e a Saviano ci sarà poi tempo per dedicargli una via. Come nei paesi civili.
A Milano buttaci giù dal camino una commissione per l’immagine antimafia. Così almeno riescono a convincerci che una commissione antimafia legittima la mafia ed è dannosa, e magari riescono a convincerci anche che la mafia non esiste e il pluripregiudicato Marras che stava nel cantiere qui dietro al ConDuomo fiscale aveva preso un senso unico e stava semplicemente facendo manovra. Così come Liggio era in via Ripamonti perchè fanno lì il bitter campari come non lo sa fare nessuno. E magari ci facciamo anche uno scherzo. Ci scrivi in piazza Duomo che il santo expò è anticipato a settimana prossima, così noi ci mettiamo seduti sulle scale a guardarci bene chi arriva di corsa in comune suonare il campanello.
Caro Babbo Natale, per tutti gli altri facci due regali. Due palle, mica quelle di Natale, due palle di quelle non rimovibili e un sacco di schiene dritte, per sopportarci mentre non ce la facciamo a non dire che disonorarli è una questione di onore.
Per me, Luigino, Babbo Natale, non regalarmi niente, magari, se fosse possibile, vieni a riprenderti qualcuno di questi politici che ci hai portato l’anno scorso e che a me e al mio fratellino ci sembrano un po’ scassati, e magari visto che hanno solo un anno, magari sono ancora in garanzia.