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Antimafia

Salvo Vitale e la sincerità per niente smemorata

Tipologie dell’antimafia

di Salvo Vitale – 3 settembre 2009
Ci sono vari tipi di antimafia: mi soffermo su alcuni:

1) L’antimafia di facciata, è la più diffusa: manifestazioni formali, commemorazioni in occasione di ricorrenze (nascite, morti, partecipazione ad eventi, intestazioni di strade, convegni ecc.). E’ l’antimafia tutto fumo e niente arrosto, nel senso che basta impegnare pochi soldi (amplificazione, locale, spese di viaggio e di soggiorno per i relatori per promuovere l’immagine di un’amministrazione seriamente impegnata in questo campo, attraverso la diffusione della notizia sul giornale o in tv. Qualche presenza del politico di turno assicura più visibilità e più parole inutili. I risultati d queste attività sono pressocché nulli se non rafforzati da momenti di riflessione e da azioni d’intervento sul territorio. Da questa antimafia i mafiosi non si sentono disturbati, anzi condividono o promuovono la partecipazione di loro simpatizzanti alle iniziative, onde avere un alibi.

2) L’antimafia talebana: è quella di chi vede mafia e interessi mafiosi dappertutto, quella di chi su un saluto, su una parentela, su una frase avulsa dal suo contesto, scopre collusioni mafiose con i politici, loschi affari che nascondono chissà quali oscure trame. Si mettono assieme le più disparate notizie che possono avere una qualche connessione, per elaborare analisi indimostrabili, utili comunque a gettar fango sul proprio avversario politico o sul proprio nemico personale. Molti personaggi di primo piano, soprattutto a sinistra, hanno fatto parte di questa antimafia, finendo con il generalizzare in un unico calderone categorie sociali e persone che nulla avevano a che fare con la mafia. Personalmente ritengo di essere appartenuto anche io, in altri tempi, a questa categoria, quando, ai tempi di Peppino Impastato, ritenevo che “Scudo crociato- mafia di stato” o che ” D,C.+P.C.I= mafia”. C’erano allora certamente molti mafiosi nelle D.C. così come ora nell’UDC e nel PDL, alcuni anche nel PD, senza per questo dover concludere che tutti quelli che fanno politica sono mafiosi o collusi. “Se tutto è mafia niente è mafia”, diceva Sciascia. E questa sorta di smania di trovare “connessioni mafiose” dovunque, ricorda per certi aspetti l’integralismo dei talebani afghani. Quindi due tipi di “talebaneria”: quella sincera e radicale, chiusa in una completa intolleranza e nel rifiuto totale del sistema, quella che utilizza o strumentalizza presunte collusioni come mezzi utili a qualche strategia politica. E qua passiamo già alla successiva tipologia,

3) L’antimafia strumentale: l’uso dell’antimafia come strumento per far carriera. Sciascia, a suo tempo, bollò come “professionisti dell’antimafia” anche Falcone e Borsellino, accorgendosi, solo molto più tardi e dopo la loro morte, di avere sbagliato bersaglio. Per un magistrato che cura particolari inchieste, è facile costruire una cornice in cui l’impegno personale si media con la carriera professionale. Anche il politico può servirsi di quest’arma con intelligenza, favorendo le associazioni antimafia, assegnando loro beni confiscati, plaudendo alle operazioni delle forze dell’ordine quando smantellano organizzazioni malavitose presenti sul proprio territorio, o esprimendo solidarietà nel caso di attentati. Sull’esistenza di un autentica volontà antimafia si può avanzare qualche dubbio, anche se non mancano risultati eclatanti.

4) L’antimafia passiva, che comprende una “maggioranza silenziosa”, ostile alle prepotenze, desiderosa di vedere l’alba di una nuova Sicilia, ma che sopporta tutto e si adatta al sistema per mancanza di coraggio. “Pi amuri di la paci ognunu taci- e supporta la mafia in santa paci” , cantava Otello Profazio. Difficile catalogare come antimafia questa forma di accettazione passiva, specie quando è determinata dall’idea che nulla cambia o potrà cambiare l’attuale assetto di vita: non c’è miglior terreno di cultura della mafia che la conservazione dello stato di cose che ne costituisce il naturale brodo di coltura. Un passaggio più avanzato è l’accettazione determinata dalla paura: a nessuno piace subire la violenza, assoggettarsi al pagamenti del pizzo per evitare ritorsioni che possono arrivare alla rovina di un’attività. Lamentarsi non basta, ma c’è già qualche luce di ribellione, o comunque, di presa di distanza.

5)
Più consistenza ha l’antimafia militante, cioè quella di coloro che dedicano il proprio tempo e la propria vita a lavorare per l’eliminazione di questo triste fenomeno del sottosviluppo meridionale: quella di coloro che vanno nelle scuole, che scrivono inchieste coraggiose su alcuni giornali, che creano associazioni e promuovono iniziative di formazione e di lotta, anche spontanee, contro chi usa il potere per ricattare la gente impedendole di scegliere liberamente il proprio futuro. E l’antimafia di amministratori che si attivano per utilizzare i terreni confiscati ai mafiosi, quella dei docenti che elaborano progetti di educazione alla legalità ( non sempre efficaci), quella dei pochi giornalisti pronti a rendere note le collusioni con la politica e i giri d’affari illegali, mentre gran parte dei loro colleghi preferiscono scaldare le sedie con inutili servizi sulle vacanze, sui prezzi, sull’enalotto, sui meriti e i miracoli del loro padrone e dei suoi amici, ecc.

Tratto da: corleonedialogos.blogspot.com

Ferragosto. Due anni fa

strage duisburg

La strage di Duisburg è stata come un geyser. Uno zampillo ribollente e micidiale che da una fessura del suolo ha scagliato verso l’alto, finalmente visibile a tutti, il liquido miasmatico e pericolosissimo di una criminalità che partendo dalle profondità più remote della Calabria, si era da tempo diffusa ovunque nel sottosuolo oscuro della globalizzazione. (Francesco Forgione)

NDRANGHETA: STRAGE FERRAGOSTO, A 2 ANNI DA DUISBURG CERCHIO SI È CHIUSO/ADNKRONOS = IN 6 TRUCIDATI DAVANTI AL RISTORANTE ‘DA BRUNÒ, A MARZO POLIZIA CATTURA ULTIMO KILLER Reggio Calabria, 14 ago. – (Adnkronos) – È il 15 agosto 2007 quando Marco Marmo, Francesco Pergola, Tommaso Venturi, Marco Pergola, Francesco Giorni e Sebastiano Strangio, appena usciti dal ristorante italiano «Da Bruno» a Duisburg sono travolti da una raffica di proiettili che li falcia uno per uno. Un eccidio brutale che sconvolge l’Europa e costringe Berlino a fare i conti con la sempre più ingombrante presenza della ‘ndrangheta sul suo territorio. Un recente rapporto top secret della polizia federale tedesca, la Bka, pubblicato da Die Zeit stima che siano 229 le famiglie legate alla criminalità organizzata calabrese che vivono in Germania, dedicandosi al contrabbando di armi, al riciclaggio di denaro sporco, allo spaccio di droga e al racket, oltre ad attività legali di copertura, mentre sarebbero circa 900 le persone coinvolte in attività mafiosa. Tra queste proprietari di centinaia di ristoranti e protagonisti del mercato immobiliare nell’ex Germania dell’Est. La strage di Ferragosto è un eccidio maturato nell’ambito della faida di San Luca tra il gruppo dei Nirta-Strangio e il contrapposto schieramento dei Pelle-Vottari-Romeo al quale appartenevano le vittime. I sei morti di Duisburg sono infatti la risposta all’omicidio di Maria Strangio, uccisa il giorno di Natale del 2006 in un agguato indirizzato in realtà al marito della donna, Giovanni Luca Nirta, e a Francesco Colorisi, rimasto ferito in quell’occasione insieme al minorenne Domenico Nirta. Secondo gli investigatori, pur di vendicarsi Strangio sacrifica il tacito accordo di non alzare troppa polvere nei fatti interni alle cosche, rompendo quella che fino ad allora è stata una tradizione: Pelle-Vottari-Romeo da una parte e Nirta-Strangio dall’altra lasciano morti ammazzati con una certa discrezione. Dalla strage di ferragosto ricorrono domani due anni. Un secondo anniversario importante, che celebra anche un grande risultato della polizia italiana, che in meno di 24 mesi è riuscita ad assicurare alla giustizia tutti i componenti del gruppo di fuoco. L’ultima cattura messa a segno è quella di Giovanni Strangio, lo spietato killer della cosca Nirta-Strangio considerato l’esecutore materiale della strage. Occhiali da sole e cappello sempre in testa, Strangio, inserito nell’elenco dei 30 latitanti più pericolosi, si nascondeva in Olanda, a Diemen, un piccolo centro vicino ad Amsterdam, dove conduceva una vita «irreprensibile» per sfuggire alla pressione crescente degli investigatori.

IN DUE ANNI UNA RAFFICA DI ARRESTI – Con il 31enne di Africo il 12 marzo viene arrestato il cognato, Francesco Romeo, 41 anni, latitante da oltre 10 anni, e ricercato per traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Prima di loro a finire nella rete della polizia è il superlatitante Giuseppe Nirta, 35 anni, anche lui nell’elenco del ministero dell’Interno sui 100 latitanti più pericolosi, anche lui cognato di Strangio. Ancora prima di Nirta, grazie alla controffensiva fatta scattare da parte delle forze dell’ordine italiane, sono molti gli arresti eccellenti legati alla faida di San Luca. In manette finiscono 4 presunti appartenenti alla cosca Nirta-Strangio: Antonio Rechichi e Luca Liotino, catturati in Germania, e Domenico Nirta e Domenico Pizzata catturati in Italia. Poi, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, le porte del carcere si aprono per Paolo Nirta, cognato di Maria Strangio, uccisa il giorno di Natale 2006, catturato il 7 agosto 2008, e Gianfranco Antonioli, ritenuto l’armiere di San Luca. Il 18 settembre è la volta del superlatitante Francesco Pelle, 32 anni, detto ‘Ciccio Pakistan’, arrestato in una clinica di Pavia specializzata nel campo della riabilitazione. Pelle perse l’uso delle gambe in un agguato il 31 luglio 2006. Un tentato omicidio di cui si vendicò, secondo gli inquirenti, proprio ordinando la strage di Natale e innescando così il fatale meccanismo che avrebbe portato alla strage di Duisburg. A finire in manette, il 16 ottobre scorso, il latitante Antonio Pelle, 46 anni, capo della cosca Pelle-Vottari, arrestato dagli uomini della squadra mobile della questura di Reggio Calabria e del Servizio centrale operativo in un bunker nelle campagne della locride. Le forze dell’ordine lo cercavano dall’agosto 2007, quando sfuggì alla cattura nell’operazione ‘Fehidà, predisposta dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria all’indomani della sanguinosa strage di ferragosto.

QUELLA SERA ‘DA BRUNÒ SI CELEBRAVA UN RITO DI INIZIAZIONE – È la notte tra il 14 e il 15 agosto del 2007, quando a Duisburg, cittadina della Germania occidentale già meta di tanti emigranti italiani, si consuma la strage. Tommaso Venturi, 18 anni, Francesco e Marco Pergola 22 e 20 anni, Francesco Giorgi, 17 anni, Marco Marmo, 25 anni, e Sebastiano Strangio, 39 anni, vengono uccisi a colpi di mitraglietta davanti al ristorante-pizzeria ‘Da Brunò di proprietà della famiglia Strangio. Una famiglia importante a San Luca, il paese della Locride divenuto celebre più che per aver dato i natali a Corrado Alvaro per una faida che ha fatto 15 morti in 17 anni, 11 dal Natale scorso a oggi. Faida che vede impegnati in una guerra senza esclusioni di colpi il clan degli Strangio-Nirta e quello dei Pelle-Vottari-Romeo. Quando vengono raggiunti dai killer, i sei calabresi sono appena usciti dal locale. Lì hanno cenato per festeggiare il 18esimo compleanno di Tommaso Venturi e, ipotizzeranno poi gli inquirenti, il suo ingresso nel clan. Quella sera ‘Da Brunò, prima del massacro, si è celebrato un ‘rito di iniziazionè, la cerimonia della ‘copiatà, conclusa, come da tradizione, con il giuramento proferito dal nuovo accolito mentre si lascia bruciare tra le mani un’immaginetta sacra, il santino di San Gabriele, patrono della polizia, che verrà ritrovato proprio addosso a Venturi. Sono da poco passate le due quando i sicari nascosti nel buio entrano in azione. Le vittime sono appena salite su due auto: una Golf e un furgoncino Opel. Contro di loro vengono esplosi oltre settanta colpi. Poi a ognuno, quasi a voler firmare l’omicidio, viene sparato un colpo in testa. All’arrivo dei soccorsi per cinque di loro non c’è più niente da fare. Il sesto muore in ambulanza durante il trasporto in ospedale. Per la cittadina della Germania occidentale è uno choc. La ‘ndrangheta colpisce anche all’estero. Non ha limiti.

DA REGGIO CALABRIA UN POOL DI INVESTIGATORI IN GERMANIA – Agli investigatori non ci vuole molto per capire che alla base del delitto c’è ancora una volta la faida di San Luca che insanguina la Calabria da oltre 16 anni. Subito scattano le indagini della Polizia tedesca, mentre nel paesino della locride si rafforzano le misure di sicurezza, e da Reggio Calabria parte per la Germania un pool di investigatori italiani. A fornire i primi elementi sono alcuni testimoni che raccontano di aver visto fuggire due persone dal luogo del delitto a bordo di un’auto. Grazie alle descrizioni fornite viene ricostruito l’identikit dell’uomo che si trova alla guida della vettura: «Altezza intorno a 180-185 cm figura slanciata, capelli scuri corti e basette fin quasi alla bocca, senza barba o baffi, con un grosso neo sotto l’occhio destro». L’identikit viene messo sul sito internet della polizia del Nord Reno Vestfalia con questo annuncio: «In base alle indicazioni di testimoni oculari sono stati visti nelle immediate vicinanze del luogo del deltto due uomini attualmente sconosciuti, che potrebbero essere ricollegabili ai fatti. Le due persone sono salite su un’auto parcheggiata al centro della Muehlheimer Strasse di Duisburg , una grossa berlina che si è allontanata a velocità in direzione dello zoo di Duisburg ». L’identikit viene inviato anche agli inquirenti di Reggio Calabria che lo analizzano per capire se possa corrispondere al volto di qualche persona collegata agli ambienti criminali della ‘ndrangheta. Ma dalla prima analisi non emerge nessuna somiglianza. Poi, sempre sul sito della Polizia tedesca viene inserito un filmato in cui compaiono due sospetti sicari in fuga, ripresi da una telecamera a circuito chiuso nei pressi di un distributore di benzina. Il 24 agosto la Polizia tedesca interroga sette persone che però non vengono trattenute. Scattano una serie di perquisizioni in alcune abitazioni di diverse località del land del Nord Reno-Westfalia, ma anche in altre regioni della Germania. Vengono sequestrate automobili e diversi oggetti che vengono acquisiti come elementi utili alle indagini. Ma dei killer ancora non c’è traccia.

PRIMA DELLA STRAGE UN VERTICE DEL CLAN PELLE-VOTTARI – Intanto le indagini cominciano a fare chiarezza su altri aspetti della strage di ferragosto. Quella notte, secondo gli investigatori, a Duisburg, subito prima della strage , aveva avuto luogo un vero e proprio vertice del clan Pelle-Vottari, come confermerebbe un’intercettazione nella quale una delle vittime, Marco Marmo, riferirebbe a un suo congiunto: «Abbiamo le armi». E dagli elementi raccolti nell’ambito delle indagini da Carabinieri e Polizia, in collaborazione con i colleghi tedeschi, emergono una serie di particolari sul massacro. A cominciare dalle testimonianze: è una donna, alle 2.24 del 15 agosto, a telefonare alla polizia per dare l’allarme da Muehlheimestrabe, nei pressi della stazione di Duisburg. La donna riferirà di essersi imbattuta, nel vicoletto a fianco al ristorante «Da Bruno», nella Golf nera con a bordo i corpi insanguinati di Marco Marmo, che era sul sedile di guida, di Francesco Giorgi, seduto al suo fianco, e di Francesco Pergola e Tommaso Venturi, seduti invece sui sedili posteriori. Le altre due vittime erano su un’Opel Combo: alla guida Sebastiano Strangio e al suo fianco Marco Pergola. È il 30 agosto, dalla strage sono passate due settimane, quando le forze dell’ordine assestano un violento colpo alle ‘ndrine in guerra. Vengono eseguiti oltre 40 fermi nei confronti di affiliati alle cosche mafiose Nirta-Strangio e Pelle-Vottari.

STRANGIO ARRESTATO DALLA POLIZIA PER UNA SPARATORIA DOPO I FUNERALI DELLA CUGINA MARIA – L’operazione prende spunto da un’informativa dei carabinieri redatta subito dopo l’omicidio di Maria Strangio, la moglie di Giovanni Nirta, considerato uno dei capi della cosca omonima, uccisa a colpi di kalashnikov sotto casa, a San Luca, a Natale del 2006. Tra i destinatari di quelle ordinanze di custodia della Dda di Reggio Calabria c’è Giovanni Nirta, considerato il boss della omonima cosca. E ci sono anche Achille Marmo, fratello di Marco, e Giovanni Strangio, fratello di Sebastiano, due delle sei vittime della strage di Duisburg. E proprio su Giovanni Strangio si concentrano le indagini. Cugino di Maria, Strangio era stato arrestato dalla polizia per una sparatoria scoppiata dopo i funerali della donna, svolti in forma strettamente privata nella chiesa di S. Nicola a Bovalino. Strangio aveva tentato di sparare al dirigente del commissariato di Polizia di Bovalino che, avendolo notato in chiesa insieme ad altre due persone, voleva identificarlo. Il funzionario reagì e Strangio rimase ferito a un polpaccio. Accusato di porto e detenzione illegale di una pistola, Strangio chiese ed ottenne il patteggiamento e fu condannato a quattro mesi. Quindi, rimesso in libertà, partì per la Germania. Strangio, 28 anni, nato a Siderno, in Calabria, ma residente a Kaarst, nel land del Nord Reno-Westfalia, dove gestisce due pizzerie, era ufficialmente ricercato in Germania come sospetto componente del commando killer autore della strage di ferragosto.

Mafie: l'impunità culturale tutta lombarda della politica del non fare

mafianonesistePassano d’agosto i circhi vecchi delle dispute politiche officiate dagli strateghi della politica dello “stare”: quelli per cui ogni comunicato stampa serve a tranquillizzare e tranquillizzarsi, e per i quali  l’azione politica si riduce ad un “tenere in bilico” la barca dalle onde di collaboratori troppo ingombranti o peggio ancora di magistrati e forze dell’ordine che osano esimersi dalle ronde (alcoliche e analcoliche) o dalle persecuzioni legittimate. Se perseverare è diabolico, la Lombardia, pure ad Agosto, sottolinea la propria perseveranza (diabolicamente incendiaria e cornuta) nell’arroccarsi tra codicilli e competenze pur di non prendere decisioni e tanto più negarne il diritto agli altri.

A Milano che “la mafia non esiste” o perlomeno “non appartiene a questa città” la sindachessa Moratti ha provato a ripeterlo ovunque dai consigli comunali, alle televisioni in prima serata fino ad abusarne favoleggiandoselo (probabilmente) la sera per addormentarsi. Non soddisfatta ha poi lanciato comunque la commissione comunale antimafia che è durata poco meno di uno starnuto (come un coniglio dal cilindro) per rimangiarsela subito dopo adducendo competenze prefettizie che non andavano scavalcate. Ora, saputo che nella sua “Milanoland delle fiabe” un’intera cittadella è in mano alla criminalità organizzata come segnalato dal pm Gratteri (che di ‘ndangheta un po’ ne conosce avendone studiato la storia, morsicato alcune locali e reativi capibastone e annusandone tutti i giorni l’odore tra gli stipiti blindati che il suo lavoro gli impone)  la sindachessa e la politica milanese tutta rimbalza responsabilità di intervento a non precisati enti o ruoli. Mentre La Russa si ridesta invocando l’esercito.  Intanto tutti felici e contenti concordano nel ritenere i 6 caseggiati popolari di Viale Sarca e via Fulvio Testi in mano agli onomatopeici fratelli Porcino (bossetti di periferia legati alle cosche di Melito di Porto Salvo), i nomadi Hudorovich e i Braidic semplicemente un “neo”, una pozzanghera piccola piccola in quel placido, enorme e ligresteo tappeto di cemento che è il capoluogo lombardo spiato dall’alto.

A Lonate Pozzolo (come descrive puntualmente nel suo sito il bravo Roberto Galullo) il leghista Modesto Verderio, dopo aver denunciato gli interessi della famiglia Filipelli tutta in odore balsamico di ‘ndrangheta all’interno dell’areoporto di Malpensa finisce accantonato come si compete al visionario del rione. Intanto una statua di San Cataldo arriva da Cirò Marina a Lonate Pozzolo per scalzare Sant’Ambrogio nella festa del patrono santo con prepotenza laica.

A Buccinasco perde la pazienza addirittura la Lega che sul proprio giornale cittadino (“El giornalin de Bucinasc”) scrive contro il sindaco Loris Cereda: “Nonostante il sindaco Cereda continui a prodigarsi per dichiarare che a Buccinasco la mafia non è un problema e non riguarda le istituzioni  i cittadini sono sempre più allarmati dalle notizie dei telegiornali che parlano di arresti e di commistioni fra politica e malavita organizzata. Noi siamo stanchi di sentire ripetere le solite litanie: la ‘ndrangheta è un’invenzione dei giornalisti, delle istituzioni, delle commissioni parlamentari, ecc. Come cittadini vorremmo finalmente capire cosa c’è e cosa non c’è di vero al di là delle strumentalizzazioni politiche. E non ci bastano le prese di posizione di alcuni consiglieri che dichiarano di ritenersi calabresi nel consiglio comunale aperto alla presenza dei magistrati Castelli e Pomodoro“.

A Desio (fine 2008) Il Consiglio comunale ha respinto un ordine del giorno contro la mafia (’ndrangheta, camorra e quant’altro) in Brianza. Hanno votato contro tutte le forze di maggioranza. L’o.d.g. era stato presentato in seguito alla scoperta delle discariche abusive di rifiuti tossici a Desio e a Seregno.

A Corsico diventa quasi una vergogna una targa di marmo in onore di Silvia Ruotolo, donna, moglie e madre innocente, uccisa durante una sparatoria tra clan rivali della Camorra, a Napoli. Lei rincasava. Loro si spartivano a pistolate due piazze di spaccio, che fruttavano 20 milioni a sera. Il Comune voleva affiggere la targa in ricordo di Silvia Ruotolo sotto i portici di via Malakoff, al civico 6: oggi sede di un’associazione che si occupa di disabili psichici, ieri supermarket gestito da un mafioso della famiglia siciliana Ciulla, confiscato dallo Stato e poi riassegnato a fini sociali, come prevede la legge 109. Durante l’ultima assemblea di condominio, l’ordine del giorno relativo a quella “etichetta” commemorativa (concedere o meno al Comune l’autorizzazione di affiggerla sulla parete esterna dell’edificio, ben visibile a tutti) era sul fondo della “scaletta”. Alla fine l’amministratore ha deciso da sé, perché se n’erano già andati quasi tutti. Il permesso non è stato concesso. E i famigliari di Silvia Ruotolo (il marito e il figlio di 17 anni) hanno assistito alla cerimonia di scopertura della targa da parte del sindaco Sergio Graffeo all’interno dell’immobile confiscato. Pochi i presenti. Cerimonia quasi intima. Come se i panni sporchi della mafia si debbano lavare nel silenzio. Di soppiatto. Quasi per effetto di una forzatura. Di coscienza civica, di fatto, ne gira poca nel supercondominio di Corsico, che a est si affaccia sul quartiere Lorenteggio di Milano. Duecentodieci famiglie. Qualche negozietto sotto i portici che continua a cambiare gestore, a parte due o tre che resistono a che cosa, bene, non si sa. Qualche cognome “importante” sui campanelli, soprattutto di siciliani.

Negli uffici della Direzione Nazionale Antimafia Enzo Macrì, sostituto procuratore nazionale antimafia, parla da profeta inascoltato. «Che la ‘ ndrangheta stesse colonizzando Milano lo dicevo negli anni 80. L’ ho confermato due anni fa e i fatti mi danno ragione. Ora c’è l’ Expo e non so più come dirlo».

Solo per citare alcuni esempi.

Stupirebbe questo atteggiamento impermeabile in un paese normale, dove normalmente i politici dovrebbero essere eletti per prendere posizione, dare segnali forti e non solo per banalmente amministrare capitoli di spesa e distribuire (scaricandosene) ruoli e responsabilità. Qui non si tratta di disquisire i ruoli di governo e ordine pubblico come stabilito dalla legge; qui si rimane a supplicare un segnale, un lampo in cui ci si illuda che Marcello Paparo non possa sentirsi “libero” di collezionare bazooka come nei peggiori scenari di desolazione metropolitana post industriale, o Morabito non sfrecci impunito a parcheggiare il ferrarino in un posteggio dell’Ortomercato con l’arroganza di uno zorro a quattro ruote, o che Andrea Porcino (classe 1972, giusto per identificarlo meglio là fuori dal suo fortino dove gioca a seminare terrore) possa addirittura inventarsi intermediario con arie da tour operator mentre raccomanda ai secondini del carcere milanese di San Vittore dei buoni servigi e una residenza confortevole per i suoi amici Nino, Ettore e Massimo.

L’impunità dentro le teste (oltre alle tasche) dei capibastone ‘ndranghetisti o dei prestanome camorristi o dei ragionieri di Cosa Nostra in Lombardia è una responsabilità politica. Risolvibile semplicemente con la voglia e l’onestà di  volere dare al di là di tutto un segnale. Per restituire dignità anche nella forma.

Una regione che controlla la carta d’identità di un mojito e cammina su fiumi di cocaina. Una regione che s’abbuffa alle conferenze stampa delle grandi opere e che inciampa al primo gradino del primo subappalto. Una regione che convoca gli stati generali dell’antimafia per ribadire di stare tranquilli. Una regione che ci convince di aver risolto tutto spostando i soldatini del Risiko con la scioltezza di un tiro di dadi. Una regione diventata maestra perspicace nel strappare con la pinzetta delle ciglia l’allarmismo mentre grida all’emergenza dei rom che scippano le nonne. Una regione che se il fenomeno criminale non emerge allora non esiste. Una regione che mette i moniti dei procuratori antimafia nei faldoni di “costume e società”. E intanto ride. Nel riflesso degli eroi diventati onorevoli che “la mafia l’hanno debellata decenni fa” e se così non fosse è semplicemente perchè non l’hanno mai trovata.

Una regione che è sacerdotessa della clandestinità diventata finalmente illegale e intanto finge di non sapere che l’illegalità pascola clandestina.

Ma c’è un tempo che è quello della memoria che supera le circostanze brevi della politica tutta a parare i colpi mungendo voti: la memoria sulla pelle dei nostri figli, delle prossime generazioni, quella che non entra nei libri di storia ma rimane sotto pelle come una traversata nella stiva mai raccontata. E allora pagheranno pegno davanti alla storia tutti i politici pavidi,  cravattari amministratori tra la casetta in centro e l’incenso delle sciantose; pagheranno i sindaci dell’ “insabbia et impera” e i tranquillanti per professione. Pagheranno l’ignoranza e la persecuzione di uno stuolo di attivisti messi al muro per discolparsi di uno sguardo fatto di fatti. Sorrideranno a leggere che qualcuno, metti per caso una sindachessa di Milano calpestando i cadaveri delle antiestetiche vittime milanesi delle mafie, sia riuscita a mettersi nella situazione di dover essere smentita per un allarme che da decenni è già rientrato perchè metabolizzato: endovena, silenzioso. Impunito, appunto.

Nel gioco dei segnali così caro alla pochezza criminale, se esistesse un santo dell’estetica contro il diavolo della politica per comunicati stampa, da domani partirebbero le ronde della legalità nei crani dei politici a cercare con il lumicino la responsabilità della dignità.

E intanto è ferragosto così cinico e vacanziero, mentre qualcuno, tra i pochi ostinati, scrive anche d’agosto di una storia che parla da sola come Gianluca Orsini sull’Unità:

ASSALTO ALL’EXPO

L’Unità – Edizione Nazionale – 10/08/2009 10/08/2009 29 Inchiesta Nazionale GIANLUCA URSINI Gli affari languono nel Meridione, per le imprese legate ai clan che negli anni hanno monopolizzato i mercati del calcestruzzo, del movimento terra e inerti, fino a essere presenti in ogni cantiere pubblico e privato in Calabria: nei prossimi anni la torta più grande verrà dalle opere legate alla Esposizione universale prevista a Milano nel 2015. È il tam tam che si sta diffondendo in quella ristretta comunità di ingegneri e costruttori che si contendevano gli appalti da Caserta in giù. «Dopo aver lavorato ai macrolotti Gioia – Palmi e di recente Palmi – Villa san giovanni dell’autostrada Salerno – Reggio – spiega un ingegnere veneto trasferitosi da un decennio- la mia ditta, emiliana, mi chiede se sono disposto a programmare i prossimi dieci anni a Milano: si apre un ufficio lì, ci saranno fin troppi appalti da gestire». I clan hanno capito che non c’è più da fare affidamento sui grandi appalti in queste regioni, e così come le ditte “pulite” direzionano la bussola degli affari verso l’altro polo. «Qui stanno smobilitando tutti – continua l’ingegnere, sotto garanzia di anonimato – fino a febbraio mi chiedevano ancora se avevo intenzione di restare perché c’erano grosse aspettative legate al Ponte sullo Stretto, ma poi si è capito che per 5 anni soldi non ne arrivano. Sono previsti 2 anni per il progetto esecutivo, ma sappiamo tutti che ce ne vorranno più del doppio. Cantieri a breve non apriranno,quindi tutte le ditte hanno una sola preoccupazione: non rimanere indietro a Milano. È lì che si lavorerà bene. Quelli del posto che ho visto per anni sui cantieri della Salerno- Reggio mi dicono da mesi: ci vediamo in Lombardia». È tempo di preparare i bagagli per il Nord: per i calabresi non è certo un mercato nuovo. Le imprese legate ai clan hanno messo radici da almeno due generazioni nelle terre tra il Ticino e l’Adda: già nel 1999 il magistrato milanese Armando Spataro avvisava la commissione parlamentare antimafia di Beppe Lumia come nel capoluogo padano «il 90 percento delle inchieste riguarda clan di ’ndrangheta: le mafie della Locride stanno penetrando il cuore finanziario d’Italia». Infiltrazione andata a buon fine dieci anni dopo, se nell’ultima relazione della procura antimafia, su 900 pagine si dedica un lungo capitolo a Milano e ai calabresi in Lombardia, passando a setaccio territori diversi. La metropoli e il suo hinterland sono «appannaggio delle cosche reggine, sia della costa Jonica che Tirreniche come pure le famiglie di Reggio città, che agiscono in sintonia con i siciliani di Cosa Nostra legati da antichi rapporti con i clan della Locride, in mano a loro la gestione del pizzo degli investimenti immobiliari e le infiltrazioni nel commercio». L’ortomercato si era rivelato terreno di casa dei Morabito di Ardore dopo un blitz della polizia nel 2007. E in provincia gli investigatori scoprono crotonesi e vibonesi sempre più presenti in alta Brianza e Valtellina, nelle provincie di Lecco Como e Sondrio. Già nel 2006 la procura di Lecco riesce a incriminare 20 persone legate ai clan Coco-Trovato che in zona hanno creato un loro “locale” (come vengono chiamate le nuove cellule) collegato con i clan Arena di Isola Capo Rizzuto a Crotone e con i potentissimi De Stefano di Reggio. I Farao Marincola, crotonesi di Cirò Marina, sono presenti nei cantieri e si occupano di recupero crediti, tra Varese Legnano e Busto Arsizio, a ovest del capoluogo, monopolizzando anche il traffico di cocaina. I Mancuso di Limbadi (Vibo) controllano Monza, nella periferia milanese di Sud ovest, tra Buccinasco, Cesano Boscone e Assago, le famiglie dell’Aspromonte si sono radicate da tre generazioni creando un «consorzio del Nord» che impone le proprie imprese in subappalto in ogni cantiere. Fanno capo ai Barbaro di Platì, che coordinano le famiglie Perre, Trimboli Sergi e Papalia, già inserite negli appalti per l’Alta velocità, come pure al raddoppio della Venezia-Milano, adesso aspettano Pedemontana lombarda e nuova Tangenziale est milanese. Lo scorso marzo tre pm del Tribunale di Milano hanno chiesto 21 arresti per i compari di Marcello Paparo, imprenditore edile che riforniva di bazooka i parenti di Isola Capo rizzuto dalla sua ditta di Cologno Monzese. Dalle 400 pagine del gip Caterina Intelandi emerge una «cabina di regia» unica delle cosche sugli appalti lombardi, che impongono «quale impresa lavora e quale no» e dividono la torta in parti uguali, anche per Tav a quarta corsia della A4. Nella stessa inchiesta emerge anche un fattore nuovo: queste imprese dai profitti elevati fanno gola generano una devianza insospettabile: i lumbard che si affiliano alle cosche. Almeno quattro nominativi di contabili, geometri e piccoli imprenditori del Milanese sono stati indicati dalla gip Interlandi. Cinque kalashnikov, tre mitragliette Uzi, tre pistole Sig sauer. «Su ordine del boss Trovato le consegnai ad un capofamiglia alleato nel ristorante “Il Portico” di Airuno in Brianza», confidava un testimone di giustizia al gip milanese Vittorio Foschini a inizio anno, «le forniture di armi erano iniziate nel 2002, dopo che clan rivali nel milanese avevano ordito un attentato contro Peppe De Stefano e Franco Trovato a Bresso (periferia nord di Milano, a ovest di Sesto San Giovanni)». Gli arsenali vengono preparati in vista della possibile guerra degli scissionisti, per il sostituto procuratore antimafia Pennisi «inchieste come la Over size del 2006 dimostrano il graduale affrancamento dei clan calabresi di Lombardia dalla regione d’origine, con la sostanziale autonomia dei nuovi clan brianzoli e milanesi», una novità segnata dal fatto che le nuove famiglie possono comprendere elementi che provengono da province, paesi diversi, sfuggendo «all’elemento di radicamento con la comunità originale», con un territorio calabrese ben definito, come aveva già segnalato il magistrato antimafia Nicola Gratteri. E queste nuove famiglie hanno fame di appalti, di altri soldi. Tanto da far temere che ben presto, con l’Expo, i kalashnikov si faranno sentire anche in Lombardia. «I sempre più rilevanti interessi nel settore dell’edilizia e dei subappalti per opere pubbliche, possono far saltare alleanze consolidate da tempo», avvisa la Direzione investigativa antimafia nella sua ultima relazione. Le avvisaglie ci sono già: il 27 marzo 2008 Rocco Cristello, ex alleato dei Mancuso caduto in disgrazia, viene ucciso in Brianza, il 14 luglio tocca a Carmelo Novella a San Vittore Olona, territorio dei Farao Marincola, che pagano con il sangue del loro affiliato Aloisio Cataldo, ucciso fuori Legnano il 27 settembre scorso.

L'onorevole Pecorella, Don Diana e quel gioco antico

Don-PeppinoE’ un gioco antico (ma non per questo meno doloroso) il dubbio che cammina sul bordo della delazione per le vittime di mafia. E’ la ginnastica suicida di un paese che non riesce nemmeno a lasciare in pace la propria memoria, quella più violenta e infame che di solito finisce sotto un lenzuolo. Che l’onorevole Pecorella decida o meno di ripassare il brillantante su “l’eroico” Vittorio Mangano o altri è una liturgia che potremmo aspettarci, come pure che tutto passi latente e indolore come si conviene ad un paese bengodiano che indossa sempre la maschera del martire per celebrare i funerali con tanto fumo da offuscare il ricordo dei fatti; ma che, ancora una volta, si condisca il cadavere di un giusto con l’olio e le feci del dubbio è e deve essere inaccettabile.

Ho sentito la prima favoletta detrattrice su Don Peppe Diana mentre l’auto blindata mi portava dentro le viscere polverose di Casal di Principe pochi mesi fa, mi dicevano di questa consonanza di cognome con famiglie di camorra e alludevano alle armi nascoste in sacrestia. Mi si è chiuso lo stomaco. Alludevano con l’occhio peloso delle malignità che riuccide, con quella mano che indica e subito si ritira, con l’impunità di un momento storico per la  responsabilità alla deriva dove  non dimenticare è reazionario, raccontare i fatti prima delle opinioni è desueto e vigilare un privilegio che ci viene generosamente accordato. La delazione invece (meglio ancora se esercitata nella sua forma più pavida della insinuazione) è un esercizio gratuito e per tutti che saltella popolare dai bar e dagli uffici fino ad arrampicarsi tra i pensatori maximi sbrindellati e cicciottelli nei consigli comunali e ancora più su. In un democraticissimo e trasversale turbine di livore, invidia, noia e bassezza d’animo che defeca dubbio.

Il dubbio è la pratica culturalmente mafiosa più abusata dalla società civile per isolare i vivi e riseppellire i morti. E’ uno schiaffo infame perchè non appartiene a nessuna mano, nessuna faccia ma arriva come un’ombra quasi sempre di rimbalzo dalla piazza. E’ la solitudine di dover rispondere a qualcuno non si sa chi che ti preme dentro il cervello e ti esplode nell’inimmaginabile assurdità di doversi difendere dopo essere già stato colpito o, peggio, proprio per scontare la colpa essere stato attaccato.

Una pratica che hanno esercitato con arte i corleonesi contro i magistrati, la camorra contro Don Peppe Diana, i suoi stessi colleghi contro Giovanni Falcone, la finanza deviata contro Giorgio Ambrosoli e poi Mauro Rostagno, Peppe Fava, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rita Atria, Antonino Scoppellitti… l’elenco sarebbe lunghissimo e doloroso come nessuna nazione mai si meriterebbe. E poi ci sono i vivi: Roberto Saviano, Pino Maniaci, Rosario Crocetta, Vincenzo Conticello, Piera Aiello, Pino Masciari, Lirio Abbate… e anche questo sarebbe lunghissimo e doloroso come nessuna nazione mai si meriterebbe.

Caro onorevole Pecorella, legga di fila quei nomi e scoprirà un unico denominatore: sono nomi che alla sera, da vivi e da morti, si saranno chiesti se è normale doversi difendere non solo dai nemici dichiarati (che fanno parte del gioco) ma soprattutto da questo vento di isolamento che nasce dall’insinuazione. E ci aiuti anche lei, per il ruolo istituzionale che ricopre, a fare in modo che i fatti riprendano il posto e la forma dei fatti, le opinioni non tracimino dalle sponde del rispetto e i professionisti della delazione possano continuare a masturbarsi la propria povertà nella solitudine da wc che si meritano.

La solitudine da scontare sia solo cosa loro per il 41 bis.

Il clan Sarno, il pentito e l'onore più della mamma

giuseppesarnoCalpestare per sopravvivere. Calpestare tutto, anche la propria madre in nome dell’onore.

Le famiglie che si sfaldano come sfoglia troppo cotta sono la foto migliore della morale che si sbriciola di una “famiglia” che, mentre morde per diventare sempre più grande, scuoce nel senso materno. Anni di onore costruito sulla gerarchia all’ennesima potenza e un padre gerarca con i gradi del boss come spilla sul petto.

Giuseppe Sarno o mussillo è stato un generale secondo le regole: capo clan di Ponticelli ambiva ad inghiottirsi tutta Napoli mangiandosi i Mazzarella, nonostante l’arresto prima del fratello Ciro ‘o sindaco e ad aprile di Vincenzo. Dal bunker del rione De Gasperi i Sarno a partire dagli anni ottanta  si sono rovesciati da Ponticelli  a Cercola, Somma Vesuviana e poi Sant’Anastasia fino al quartiere Mercato con l’alleanza dei clan Misso, Formicola e Ricci e addirittura un bel “Bingo” tutto luccicante e nuovo tra Chiaia e Fuorigrotta. E dietro tutta una scia di prestanome incensurati umidi come uno starnuto.

Insomma, nelle storie delle famiglie che lavorano nonostante gli inciampi in qualche sbirro, i Sarno sono uno di quei capitoli nel libro mastro della camorra che cresceva proprio come te l’aspetti. Fino ad oggi.

Cosa succede? Succede che per il suo cinquantunesimo compleanno Giuseppe organizza una bella rimpatriata famigliare, seppur latitante, nel suo nascondiglio all’ultimo piano di via Trastevere al civico 148 in Roma. I familiari del Sarno che lo raggiungono (mentre brillano di torta e cinquantuno candeline) sono un’esca troppo profumata per i carabinieri che fanno irruzione e catturano il boss che cerca la fuga sui tetti della capitale ma risulta ben poco felino per sfuggire. E’ il 4 aprile 2009.

Non passa molto e  Giuseppe, il patriarca boss, si pente ammalato di quella malattia tra l’infamia e la sbirritudine che puzza come se fosse secca sotto la suola delle scarpe; e, nel cortocircuito malato della famiglia che si svende per salvarsi, il codice d’onore arriva a pungere la moglie che in quanto responsabile del pentimento del marito – il boss Giuseppe Sarno – era oggetto di continue minacce di morte da parte dei familiari, perfino da parte del figlio ventiduenne.

Le pesanti intimidazioni a carico di Anna Emilia Montagna rappresentano uno degli aspetti più raccapriccianti dell’operazione che ha portato alle prime ore del giorno all’arresto da parte dei carabinieri di cinque esponenti di spicco del clan camorristico Sarno. I cinque – tutti esponenti di vertice della cosca – sono ritenuti responsabili, con altre persone non ancora identificate, di aver minacciato di morte Anna Emilia Montagna, per indurre il marito a ritrattare le dichiarazioni già rese e a non renderne di nuove. Dopo il pentimento dello storico capoclan Giuseppe Sarno, è stato accertato che i suoi fratelli ed altri esponenti del clan avevano ripetutamente minacciato la moglie, Anna Emilia Montagna. Dalle indagini, infatti, è emerso che la decisione di Giuseppe Sarno, 51 anni, di collaborare con la giustizia – che risale a poche settimane fa – ha provocato un autentico terremoto negli equilibri della criminalità organizzata napoletana, ed è frutto a sua volta di un’ irreversibile rottura dei rapporti con i fratelli, con i quali per anni aveva condiviso le responsabilità di guida del clan di famiglia. In seguito al pentimento dell’ex boss, alcuni suoi familiari ed altri esponenti della cosca si sono recati più volte, a partire dal 6 luglio scorso, a casa della moglie, minacciandola di morte per indurre il marito a interrompere la collaborazione con la giustizia. Ad Anna Emilia Montagna sarebbe stato intimato, tra l’altro, di abbandonare il coniuge e la casa di famiglia nel caso in cui Giuseppe Sarno non avesse ritrattato quanto già detto ai magistrati. Ma a minacciare di morte la donna ci pensava anche il figlio ventiduenne Salvatore, detto ‘Tore ò pazzo’. Quest’ultimo ha sin da subito intrapreso la “carriera” del clan e quando alla famiglia è arrivata la notizia del pentimento, non ha tardato ad accusare la madre e perfino a dirle che sarebbe morta se non si fosse impegnata perchè terminasse la collaborazione del padre con la giustizia. A casa della madre Salvatore ci andava molto spesso, accompagnato dagli zii e dai cugini: ai carabinieri non risulta comunque che la donna sia stata anche oggetto di violenze fisiche.

Delle cinque ordinanze di custodia cautelare, una, quella a carico di Vincenzo Cece, è stata eseguita in carcere. Gli altri arrestati sono stati individuati in abitazioni, non direttamente a loro riconducibili, nel quartiere dove il clan viveva.

Un matricidio nemmeno consumato. Una madre consumata da un matricidio minacciato. Come nelle peggiori fiction a basso costo in terza serata.

E insieme la famiglia e l’onore che finiscono giù al suono dello sciacquone.

Il "Vento del Nord" che raffredda i Bellocco

arrestogregoriobelloccoCi sono segnali importanti nascosti tra le pieghe dell’operazione “Vento del Nord” coordinata dal pm Elisabetta Melotti dell Dda di Bologna.

Innanzitutto la famiglia protagonista suo malgrado: i Bellocco appartengono a pieno titolo a quel modello di ‘ndrina che non si è accontentata del controllo della zona di Gioia Tauro e del podio  nel danaroso mercato del narcotraffico ma si è spinta, liquida e comunque vertebrata, in Basilicata, Toscana, Emilia Romagna, Liguria fino alla metallizzata e per niente vergine Lombardia. Dal nonno fondatore Umberto Bellocco (1937), che da Rosarno ha coltivato la potenza ingorda fino a delegare a Giuseppe Rogoli alla fondazione della Sacra Corona Unita nel 1983, passando poi a Gregorio Bellocco (arrestato il 16 febbraio 2005) fino a Giuseppe Bellocco (arrestato nel luglio del 2007). Una genetica preservazione del gene criminale che scavalca le generazioni con il sapore acre della mala educazione sancita dall’appartenenza fiera al capo bastone, come nella migliore tradizione di quel rospo multicefalo che nuota per l’Italia a forma di ‘ndrnagheta. Insomma i Bellocco rispondono in pieno alla letteratura della Santa, con i soldi scivolosi di muco che sanguinano dal malaffare e tutto quel mito sotterrato che funzionerebbe nelle commediole di bassa lega dei teatrini vicino al porto (basti pensare al disco “Pensieri di un latitante” in cui ritroviamo una canzone dedicata proprio al Gregorio probabilmente sfornata dall’ispirazione latitante del cugino Giuseppe.

Poi c’è la geografia: come Gregorio era riuscito ad esportare gli affari nella ridente Milano che nasconde la testa dentro un Campari, oggi il cinquantatreenne Carmelo Bellocco (con suo figlio Umberto, 18 anni, agli arresti domiciliari a Rosarno, l’altro figlio Domenico, 29enne, detto ‘Micù, con il nipote Domenico, 32enne detto ‘Micu u longù, con il fratello Rocco, 57enne di Rosarno, insieme alla moglie Maria Teresa D’Agostino, di 50 anni e ad un suo fedelissimo Gaetano Rocco Gallo originario di Rosarno di 56 anni) si è appoggiato a forma di macchia nella zona bolognese dove fingeva (male) di travestirsi da ortofrutticolo nella Veneta Frutta srl del fedele Gallo (che a dispetto del nome proprio non cantava) all’interno del mercato Caab di Bologna. Una saliva interregionale e mafiosa versata sul Nord. In un quadro cubista sarebbe la cittadina di Rosarno che esplode in pezzi che si infilano nel resto del mondo.

Poi ci sono gli usi e i costumi che, nonostante si sia ormai alla terza generazione, continuano a galleggiare più forti della decennale metropolizzazione della famiglia: la moglie di Bellocco, parlando con il figlio Umberto, dice: “Una volta che partiamo, partiamo tutti e ci inguaiamo tutti. O loro o noi. Vediamo chi vince la guerra”. Il motivo di questa primitività? Il 20 giugno scorso il capo di un gruppo criminale calabrese non strutturato come ‘ndrina aveva raggiunto Carmelo Bellocco che attualmente viveva a Granarolo, comune alle porte di Bologna, in affido ai servizi sociali dopo essere stato scarcerato dal carcere della Dozza. Lì Bellocco riceveva uomini di spicco della criminalità organizzata ma anche usurati che gli consegnavano il pizzo. Bellocco, era il capo della cosca dopo l’arresto del fratello Pino. In quell’incontro del 20 lo sconosciuto gli ha chiesto “giustizia” per un omicidio commesso nell’«89. Per tale ragione gli ha chiesto una vita in cambio di un’altra. L’affronto non era andato giù a Bellocco che per tale ragione aveva convocato una riunione della famiglia e dei fedelissimi a Granarolo per decidersi il da farsi. Innanzitutto bisognava capire se lo sconosciuto si era presentato a proprio nome o faceva parte di una famiglia dell«ndrangheta. Fatto ciò bisognava organizzarsi per la faida. Da qui la necessità di recuperare armi, auto blindate e giubbotti antiproiettile.

Infine c’è la sorpresa che rincara l’ottimismo: ha ragione il questore di Bologna Luigi Merolla quando dice “Forse è la prima volta che la presenza criminale non viene accertata da indagini nel paese d’orgine dell’organizzazione ma da attività di ricognizione del territorio, è un’operazione estremamente importante perchè rappresenta il segno di una maggiore attenzione degli organi di polizia e giudiziario a questo fenomeno. Abbiamo individuato l’organizzazione comprese le sue articolazioni.”

Il bicchiere è mezzo pieno, e i Bellocco non se ne sono ancora accorti.

Il silenzio colpevole uccide più delle mafie

pauraLettera di Carlo Pascarella, giornalista. Non servono commenti.

E’ proprio vero, il silenzio uccide e scriverò un libro sulla camorra per dimostrarlo: non si offenda nessuno, altro che Gomorra. Non mi importa se lo leggerò solo io, non mi interessano i soldi, lo farò per mia figlia Francesca, la mia dolce bimba di 4 anni che voglio cresca in un mondo migliore. Sarà il libro in cui racconterò le cose che finora non ho detto perché troppo preso a difendermi dagli attacchi della camorra e dal moralismo “aberrante” di uomini di potere che hanno tentato di chiudermi la bocca senza riuscirci.

Racconterò anche di come l’anticamorra per alcuni colleghi, anche di Pignataro Maggiore, sia diventata una moda più che un dovere. Qualche collega forse mi odia, qualcuno mi invidia, qualcuno mi vuole bene. E’ un periodo durante il quale mi sento isolato in una folla oceanica, anche se accanto a me in redazione sento stima ed affetto.

E il libro che scriverò sarà una sorta di mio testamento. Ho insegnato il lavoro a tanti colleghi, molti dei quali hanno fatto poi carriera. Ma ora di me non si ricordano più. Ci sarà un motivo. Forse perché sono rimasto l’unico della carta stampata che scrive ancora su Pignataro Maggiore? Comunque non fa niente, prendo atto di chi mi ha dimenticato.

Chiedo perdono a qualche mio collaboratore con il quale ho sbagliato, il mio carattere di merda che avevo prima mi ha fatto commettere degli errori. Adesso sono un uomo diverso da quello di tre anni fa. Anche i miei maestri sono diversi, si ricordano tuttora di me, che sono stato un umile loro allievo. Ora non mi sento in pericolo, nonostante la mia storia di denunce alla camorra sia finita su quattro libri, ultimo “Il Sud che resiste” di Pasquale Iorio. Nonostante il clamore mediatico scatenato dalla telefonata che mi fecero i boss della camorra casalese Michele Zagaria e Antonio Iovine che mi ha portato su tutti i giornali, anche nazionali. Nonostante “Porta a porta”, nonostante “Anno Zero”, nonostante le tante interviste da me rilasciate a l’Espresso, al Giornale, a Repubblica e a tanti giornali nazionali.

Nonostante tutto resto qui a Caserta a scrivere di camorra: spero ne valga la pena, lo spero davvero. Ma perché ora ho tanti dubbi? Non mi sento un eroe, sono un cronista, ora troppo solo.

Dopo 13 anni vissuti a Caserta da qualche mese sono tornato a vivere nel mio paese, a Pignataro, nel cuore della mafia che ho denunciato. Nulla è cambiato, noia, noia, noia e una cappa opprimente. E non è solo colpa dei camorristi, posso dirlo io che li combatto da anni, nel mio piccolo.

E’ anche colpa di chi ha voluto portare ad ogni costo sul fronte politico, con diatribe da quattro soldi, una battaglia antimafia che andava combattuta tutti insieme, senza il colore o il simbolo di una bandiera. E qualche errore forse l’ho commesso anche io, forse sono caduto in una trappola.

Presto andrò via per sempre da Pignataro, perché quelle poche volte che esco vedo la bellezza dei luoghi della mia infanzia, incontro i miei vecchi amici, ma sento dell’oppressione, dell’isolamento. E’ come se fossi un uomo scomodo. Devo tanto alla mia famiglia, che ha subito attentati, minacce, soprattutto per colpa mia. Ma mi hanno dato la forza di andare avanti. Fanno piacere le pacche sulle spalle di chi mi dice di aver fatto una bella carriera, di essere stato coraggioso.

Ma vi chiedo: è servito a qualcosa? Mi dicono di sì, ma io comincio a capire che la marea non è cambiata. Il sole c’è a Pignataro, ma ci sono ancora tante nuvole. Il sole c’è anche nelle terre del clan dei Casalesi, ma lì c’è ancora un temporale in arrivo. Perché la mafia si ricicla continuamente. Povero Giancarlo Siani, ucciso per amore della verità, per la passione innata per questo mestiere bello ma che talvolta distrugge l’anima.

La camorra va combattuta tutti insieme.

Non so se resisterò, ci proverò con tutte le mie forze a lottare, per 13 anni ce l’ho fatta. Adesso mi sento un po’ stanco. Come un guerriero ferito dall’indifferenza. Eppure sono vivo, ho la mia piccola Francesca e questo mi basta. Molti di voi no, io invece vi amo tutti. Anche coloro i quali pensano sia un mitomane, anche coloro che mi vogliono morto o altrove.

Carlo Pascarella

Radio Mafiopoli 29 – Edizione straordinaria: Nicchi sa scrivere!


Settimana a Mafiopoli di 40 in fila per sei col resto di 2: 40 gli anni rifilati, 6 i boss pisellati, il resto di 2 è di resto bum bum.

A Palermo 6 presunti appartenenti alla famiglia mafiosa di Carini (che non vuol dire per forza simpatici) sono stati condannati. Le condanne riguardano Antonino Pipitone (7 anni e 8 mesi), il padre Angelo Antonino Pipitone e lo zio Vincenzo Pipitone che hanno avuto sei anni a testa così come i fratelli Calogero e Giuseppe Passalacqua. Sei anni anche per Giulio Comello.

Nella maxi operazione “Cerbero” 37 fermi e ordinanze di custodia per i mandamenti di Brancaccio e Portanuova, nonostante tra gli arrestati ci fosse Francesco Palermo Montagna che oltre che avere 46 anni oltre che essere mafioso oltre che essere amico del boss Rotolo, raccontano che sia un ottimo bonificatore. “E’ il mago delle microspie” urlava sempre fiero Rotolo rotolante nella sua rotolante latitanza. E infatti, troppo impegnati sul tecnologico sono rimasti fregati dal buon vecchio pizzino. Arrestati gli uomini d’onore  si dice abbiamo gia’ cominciato a parlare. Voci di corridoio raccontano di un Rotolo con l’umore incagliato.

Una storia triste: a Washington Victoria Gotti, figlia del super Boss John Gotti, capo dei capi della mafia americana,  bionda discreta come un elefante rosa sul campanile, Victoria è costretta a vendere la sua lussuosa casa di Long Island. “Me la cavo a mala pena” ha spiegato in lacrime di coccodrillo (rosa) davanti alla villa da 5 milioni. A quanto pare suo marito Carmine Agnello che nonostante il nome e la mafiosità conclamata non è ancora stato messo allo spiedo, non le verserebbe gli alimenti. Che vergogna! urla il re ridens durante l’inaugurazione del ponte da Messina a Onna, una storia così meravigliosamente vergognosa che meriterebbe un reatity in prima serata su Beghe 4. Ma il re della disinformazione si svela disinformato: lo sceneggiato tv crescere Gotti è già stato un successo sulle reti americane. Un appuntamento quotidiano come un Kebhab farcito di soldi sporchi, mafia, tradimenti, balle e principi e principesse al ballo della mafia. Gli autori di Porta una porta stanno già chiedendo i danni. E Carmine Agnello? Dopo essere stato scarcerato e avere lasciato la Grande mela si è risposato con la figlia di Mourad Topalian, un capo storico del terrorismo armeno.

Una buona notizia! Mafiopoli esulta. Non solo il latitante Nicchi è vivo, non solo ha imparato con corso accelerato in video cassetta a scrivere la sua firma in modo leggibile, ma addirittura è riuscito con le proprie gambe e la sua gelida manina ad imbucare la lettera per nominare il suo secondo difensore per il processo Gotha. E’ incredibile hanno dichiarato le gemelle Kessler Lo Piccolo dal loro carcere con stanza matrimoniale ma con letti separati “l’avevamo lasciato insieme al Rotolo ad incollare saracinesche in via dei Mille con l’attac, e lo ritroviamo oggi dottore imparato di scrivere e imbucare”. Imbucaiolo imbucato maestro nell’imbucarsi, riferiscono le malelingue, che il Nicchi abbia preso il volo per sfuggire alla ricevuta di ritorno.

Giuseppe Raffaele Nicotra, sindaco di Aci Catena pese famoso per bolli e passaggi di proprietà, è stato nominato eroe dell’anti pizzo della settimana di mafiopoli. Come insegnano quei politici che prendono di petto i problemi per fare sponda col culo di qualcuno, il sindaco nega di essere vittima di un’estorsione e si becca un’accusa di favoreggiamento aggravato dalla DDA di Catania. Come insegna il suo partito il popolo della pubertà, se una cosa si nega non esiste e si è risolta. Al massimo se insiste si rispedisce a Malta.

A Messina nel centralissimo viale San Martino, la polizia trova negli appartamenti di Antonino, Alfredo, Giovanni, Salvatore e Franco Trovato un vero e proprio laboratorio di droga e circa un milione di euro in banconote. Durante l’ispezione, gli uomini della Squadra mobile hanno trovato in un appartamento 2 chili e mezzo di cocaina pura, 157 grammi di eroina e l’attrezzatura di una vera e propria raffineria: una pressa per il confezionamento delle dosi, ben 8 chili di sostanze da taglio, altro materiale sofisticato. Poi un letto sfatto, il frigo pieno, la tv accesa. Nell’altro appartamento dello stesso stabile, invece, gli agenti hanno rinvenuto 10 pacchi, ricolmi di banconote di vario taglio, per un totale di oltre un milione di euro, nascosti in un vano ricavato sotto un mobile fioriera.

“Non è giusto” hanno gridato in coro una parola a testa come qui quo e qua. “Il milione di euro l’abbiamo vinto al bar di sotto al mafia e vinci. E i due chili di cocaina sono la dose personale di nonna Assunta”. Bravi Bene Bum bum.

Il procuratore Centrone alla guida della direzione distrettuale antimafia dell’Umbria dichiara che alcuni processi evidenziano la presenza nella zona di camorra e boss casalesi. “Dicono” aggiunge il ministro della perversione minorile di mafiopoli “che tra poco arriverà da noi il più terribile famigerato pericoloso boss della seconda repubblica”. Qualcuno l’ha preso sotto il braccio e spiegandoli che quello era il G8 l’ha portato nelle segrete stanze del ministero di Topolinia.

Umberto Ambrosoli figlio dell’eroe borghese Giorgio, liquidatore della Banca Privata Italiana, con cui Sindona ripuliva i soldi della mafia, dichiara al Corriere della Sera che suo padre ancora oggi a Milano non avrebbe solidarietà per il suo sacrificio a servizio delle Stato. “Ambrosoli?” dichiara la sindachessa di Milano lieta ma con il parrucchino triste “con tutto il da fare che abbiamo per l’Expo non abbiamo certo bisogno delle rivendicazioni postume sindacali degli apicoltori”. E scoppia l’applauso. Grazie prego tornerò bum bum.

BIBLIOGRAFIA

Pino Maniaci, l'ordine dei giullari e il prurito dei potenti

maniacicavalliC’è una teatralissima convergenza di tempi tra l’abbraccio sincrono della notizia dell’ordine (volutamente minuscolo) dei giornalisti siciliano che si potrebbe costituire parte civile nella causa contro Pino Maniaci che “con più condotte, poste in essere in tempi diversi ed in esecuzione del medesimo disegno criminoso”, avrebbe esercitato abusivamente l’attività di giornalista in assenza della speciale abilitazione dello Stato e l’ennesimo vergognoso balzello all’indietro della libertà di stampa in Italia secondo la classifica stilata da Freedom House. Una di quelle drammaturgie che ti si arrampica sullo stomaco e, vivendole nell’afa della situazione dall’interno, partorisce un punto di domanda che pesa come un’incudine. Non voglio entrare nell’analisi giuridica e formale di un criterio di stato che ultimamente mi sfugge ogni volta che immagino gli occhi traditi di Piera Aiello, gli occhi convessi di cera dello smemorato Mancino o lo sguardo mai arrendevole di Pino Masciari; mi limiterò ai fatti. Perchè ripescare i fatti nell’acquario torbido delle alghe esotiche e fluorescienti delle notizie distraenti, è una buona abitudine per ossigenarsi la giornata.

Allora, caro signor Franco Nicastro, vorrei raccontarle una storia, una storia fatta di fatti, e vorrei raccontarla a lei che presiede quell’ordine di tessere e qualche giornalista perchè questa è una di quelle storie che probabilmente a qualcuno del vostro dis-ordine non piacciono. E’ infatti una storia dove non c’è di mezzo nemmeno un timbro e nemmeno una mezza certificazione su carta intestata.

Ho conosciuto Pino un paio di anni fa, in una giornata con Partinico che si scioglieva sotto un sole incazzato e sbavava percolato. Io sono un attore atipico e inevitabilmente precario: mi dicono che sono troppo curioso per essere un drammaturgo vergine, altri che sono un buffone non di corte ma di carta, questi che mi scontro perchè anelo alla pubblicità, quelli che prima o poi mi schianto e mi faccio male, qualcuno che mi faranno male (ma poi su quest’ultima mi hanno visto fiero e l’hanno prescritta), i corvi più torvi continuano che dovrei solo fare il teatrante (calzamaglia e naso da clown pettinato con la riga ad incensare i miei merce-nati e allenarmi alle dichiarazioni pulite). Capisce, caro signor Nicastro, che l’occasione era troppo ghiotta per il dio dei pagliacci che io e Pino non cominciassimo insieme ad essere compagnia di giro uno capocomico dell’altro.

Da qui abbiamo io e Pino abbiamo cominciato a ballare insieme in una polka (a dire la verità piuttosto sbrindellata perchè ci assomigliasse) che continua a disegnare i nomi, i cognomi, le accuse, la ribellione, la schiena dritta e l’osservazione: quella pratica desueta di raccontare secondo il proprio sguardo (questo sì liberamente criticabile) quel fossile di calcare che sono i fatti (sassolini fastidiosi perchè purtroppo incontrovertibili nella sostanza).

Non ci siamo mai chiesti se fosse inchiesta, informazione, cultura, teatro, cabaret o merda e lo sa perchè, caro Nicastro? Perchè questo gioco sorridente a cui non rinunceremo mai non ce ne ha dato il tempo. Siamo troppo impegnati a difenderci (Pino a Partinico e io a Milano) dagli attacchi diversi che hanno stuprato la tranquillità della nostra vita. In un filo che è lungo come tutta l’Italia e ha la forma di un’ombra. Questo ci basta, a noi buffoni, per pesare il nostro lavoro, questo e tutto il coro che ciclicamente si alza per abbracciare Pino quando ne ha bisogno.

Vede, signor Nicastro, che questa è una storia proprio da giullari, come quelle che 500 anni fa finivano con un bel taglio di teste e si continuava tranquilli a vivere. 500 anni fa, quando non esisteva e se ne sentiva il bisogno di un organo che evitasse questo scempio. 500 anni fa quando si capiva bene chi era con le magagne del re e chi difendeva l’informazione e la risata diritto del popolo.

Chissà cosa penserebbe, oggi, l’ordine dei cantastorie senza tessera, di questa delegittimazione che 5 secoli dopo ha la stessa puzza e la stessa povertà.

Caro Salvatore, stamattina mentre scrivo e ci penso già in via D'Amelio

bucoCaro Salvatore,

stavo rimasticando questi quattro fogli tutti pieghe e mezze orecchie che da qualche giorno mi chiedono di urlare. Sto scrivendo, innamorato del privilegio e la responsabilità, questo mezzo pugno da liberare in via D’Amelio che si è acceso con il  nostro abbraccio di qualche mese fa. E mentre mi ascolto in quel fiume così comodo tra la testa e il dito, ripenso a quella tua faccia serena mentre mi dicevi “io so”. E questa mattina, che si prepara alla mia nuova galera per salvarmi, mi soffia un pensiero osceno: in fondo tu hai vinto, Salvatore, comunque vada in questa partita bislacca che si è incastrata tra i silenzi bollati di quelle mila fotocopie fatte sempre storte dai tribunali. In fondo adesso rimane il resto: tutto quel calcolare, incastrare e scegliere la forma di questo diciassettesimo anniversario omicida in via D’Amelio. Dicono gli Dei della cabala che il diciassettesimo debba essere per numerologia la volta più nera, quella che pesa addosso a qualcuno per tutte le altre. E allora anche la cabala questa mattina ci sorride e ci prende sottobraccio per imbarcarsi con noi. Perchè io so, all’ombra rincuorante e fresca di quel tuo dolore mai arreso e della tua rabbia comunque educata, che resuscitare un funerale lungo diciassette anni è un rito coraggioso e vincente. Come una rincorsa lunga sedici anni per ammonire che il ricordo si esercita solo dopo aver saputo, capito e visto in faccia. Tu lo sai bene quanto ogni mattina è pieno il mondo di orfani, vedove e pendolari del lutto che spolverano il marmo; ecco, Salvatore, io dentro questi fogli vorrei metterci invece tutta la polvere degli anni prima, ed atterrare in via D’Amelio con due sacchi di iuta per farli sbuffare sul palco. Perchè la forma turpe e sconcia di quella nuvola almeno ti faccia sorridere, almeno un secondo, di ritrovare disegnata questa tua intollerabile coltre che ti si è appoggiata sul cuore, questo velo mendace che il 19 luglio ci ritroviamo tutti insieme a provare a sparecchiare. Anche io “so”, Salvatore, che quel giorno saremo lì, tutti insieme, per svestirici dal lutto, buttare le corone di fiori e, se serve, anche per mano, sporgerci senza paura per guardare dentro a quel buco.