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minacciati

Dora

Ricoverata per un’operazione all’anca. Contagiata all’interno della clinica. Dimessa per errore come negativa al Covid. Morta e abbandonata in un deposito del cimitero in mezzo ai sacchi della spazzatura. È accaduto a Monopoli. Ora la famiglia di Teodora Scarafino chiede giustizia

«Io quest’anno non ho voglia di festeggiare niente, l’idea di passare le feste senza mia mamma è lacerante. Ho dovuto a malincuore preparare l’albero per mia figlia ma voglio solo che quest’anno passi il più velocemente possibile, il più silenziosamente possibile». Non trattiene la commozione Roberto Leoci mentre racconta a Left la drammatica storia di sua mamma Teodora Scarafino, per tutti Dora, che è uno delle migliaia di lutti che attraversano il Paese in quest’epoca di pandemia ma che assume i contorni di un enorme schiaffo in pieno viso per come si sono svolti i fatti.

Dora era il perno della famiglia, sempre attiva, sempre dedicata alle cure di suo marito, dei suoi figli e dei suoi nipoti. La sua cucina era sempre in movimento per ospitare qualcuno a pranzo o a cena, lei che la domenica andava in campagna per raccogliere ciliegie e i capperi e gli asparagi e preparare quelle cene di famiglia che tenevano insieme quattordici persone.

«Non era una presenza: era la presenza», dice il figlio. E proprio per essere in forma in occasione delle feste che arrivavano Dora aveva deciso di farsi operare all’anca, «avremmo anche potuto ritardare» dice Roberto. E invece il 7 settembre la signora Scarafino viene ricoverata nella clinica Mater Dei di Bari per un’operazione che avrebbe dovuto essere di routine. «Effettua il tampone in ingresso, negativo, – racconta il figlio – va tutto bene e dopo tre giorni viene trasferita nel reparto di riabilitazione motoria per iniziare il suo percorso di recupero». Anche in questo caso tutto procede nella norma, arriviamo ai primi di ottobre: «Era il 2 o 3 ottobre e ci sentiamo telefonicamente poiché le visite erano proibite dalle norme anti Covid. Mia madre mi racconta, un po’ preoccupata, che la sua vicina di letto, in stanza con lei, lamenta tosse, febbre e dolori vari».

I quattro figli di Dora si preoccupano, durante la prima ondata del virus a marzo l’hanno tutelata con molta attenzione. «Comincia a fare dei ragionamenti non suoi, sragionava, ad esempio mi chiedeva se mio padre fosse rientrato dal lavoro eppure mio padre è in pensione da anni». I figli chiedono informazioni a medici e infermieri ma non ottengono risposte, vengono sommariamente rassicurati, gli dicono che non c’è nessun problema e che la febbre della compagna di stanza è una semplice influenza, probabilmente dovuta a un colpo di freddo.

Il 5 ottobre la signora Dora comunica ai figli che alla vicina di letto è stato fatto il tampone, una risonanza e i raggi ai polmoni. «Aumenta ovviamente la preoccupazione – racconta il figlio al nostro settimanale – ma dalla clinica la risposta è sempre la stessa: state tranquilli. La signora continua a rimanere in camera con mia madre. Addirittura il giorno successivo, il 6 ottobre, me la passa al telefono e quella mi saluta, “tranquillo tranquillo” mi dice mia mamma»·

Quello stesso giorno, nel pomeriggio, tutto precipita: «Nostra madre ci chiamava e ci dice che l’hanno spostata in un’altra camera, con tutte le sue cose, il suo letto, il suo armadietto, i suoi vestiti, che non le permettono nemmeno di affacciarsi sul corridoio dell’ospedale, che si sente reclusa. Io e mio fratello partiamo subito, cerchiamo di parlare con vari medici, non ci fanno entrare e riusciamo solo a metterci in contatto con una dottoressa che ci dice che l’ex compagna di stanza di nostra madre non è positiva al tampone e di stare tranquilli. Addirittura prende nostra mamma dalla stanza dov’era e la fa affacciare dalla finestra. Mia madre continua a sragionare, in quell’occasione disse a me e a mio fratello di “fare i bravi con i medici” perché la stavano trattando bene».

I due fratelli tornano a casa, a Monopoli, in attesa del risultato del tampone. Quella sera stessa leggono alcune notizie di un focolaio di Covid proprio nella clinica Mater Dei di Bari. La mattina dopo si rimettono in macchina e ripartono, riescono a parlare con il direttore sanitario della struttura che li rassicura, ancora, conferma che ci sono casi di positivi nel reparto ma dice di non preoccuparsi. Alle 15 arriva l’esito del tampone: negativo. «Diciamo a mia mamma di firmare le dimissioni, anche perché erano cinque giorni che non faceva più riabilitazione e non aveva senso rischiare. Arriviamo in ospedale e in tre minuti fanno uscire nostra madre al freddo, in pigiama, con la sua valigia. In auto non stava bene: tossiva, aveva dolori e difficoltà respiratorie». Ma era negativa, nessuno si preoccupa. Due ore dopo la clinica richiama e dice che c’è stato un errore: avevano scambiato il tampone di ingresso con quello di uscita, la signora Dora è positiva. I figli non possono credere di ritrovarsi in una situazione del genere: chiamano il 113, scrivono all’Asl, alla Regione Puglia, decine di mail, nessuna risposta. Solo il medico di base prescrive una cura.

Il 14 ottobre la donna viene portata via in ambulanza. Tutta la famiglia si mette in isolamento, una figlia viene ricoverata per Covid. Dora viene portata in terapia intensiva dove il suo ultimo calvario finisce con la morte: «Un percorso in ospedale di tre settimane che l’ha portata alla morte – racconta il figlio – ma l’ultimo schiaffo doveva ancora arrivare. Il giorno 9 novembre ci restituiscono il corpo e la bara viene trasportata in un ufficio del cimitero di Monopoli adibito a deposito. La bara di mia madre la ritroviamo in mezzo a sacchi della spazzatura, ossari, lettighe per le tumulazioni. Veniamo addirittura minacciati da chi avrebbe dovuto prendersi cura di quel luogo. Noi siamo andati completamente fuori di testa, ho scoperto lati di me che non conoscevo, vedere il corpo di mia madre in quelle condizioni mi ha ferito perfino di più di quella clinica che l’ha uccisa». Ora la famiglia di Dora sta preparando le denunce mentre i responsabili del cimitero si sono sommariamente scusati con un articolo su un giornale locale e il direttore della clinica Mater Dei ha parlato di un “errore fatto in buona fede”.

«L’ultima volta che l’ho sentita – racconta Roberto – prima che entrasse in terapia intensiva le ho detto che qui tutti, i suoi figli e i suoi nipoti, le volevamo un gran bene e lei senza rendersi conto che era un addio mi ha detto “sono vostra madre, è normale che mi vogliate bene”». Ora i figli di Dora chiedono di ottenere, dopo il dolore, un po’ di giustizia.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Vuoi vedere che lo status di minacciato è riconosciuto solo a chi appartiene al salotto buono?

abbondanzaLa domanda se la pone Marco Preve (uno che di giornalismo, denunce e fatti se ne intende facendo per benino nomi e cognomi come piace a noi) scrivendo di Christian Abbondanza e delle ultime minacce ricevute. E il suo articolo va letto con attenzione anche da chi galleggia nel Circo Antimafia sapendo senza sapere, parlando per luoghi comuni dei propri vanti o delle proprie dicerie e soprattutto per chi coltiva l’idea che non esista antimafia senza “rete” e poi invece non riesce ad essere solidale se non con i propri sodali. Fuori dai riflettori e dai “salotti buoni” di cui parla Marco Preve sono in moltissimi a subire l’isolamento istituzionale ma anche “antimafioso” per i modi non sempre compiacenti e per avere rifiutato di sdraiarsi sulle posizioni più frequentate. Si può discutere di tutto su Abbondanza e su tutti gli altri minacciati dai più noti ai meno noti: si può dire che siano (o siamo, se volete) antipatici, egocentrici, pieni di difetti e di errori e spesso anche maleducati ma la credibilità è una corda di sopravvivenza troppo importante per permettere a chicchessia di ballarci sopra per mettersi in mostra. Per questo noto anche con piacere che a Christian sia arrivata la solidarietà di Libera nonostante le infelici uscite di qualche suo rappresentante perché la lezione di Don Ciotti è proprio questa: includere, con i propri limiti. E questa volta ci è riuscita (almeno formalmente) davvero.

I meccanismi con cui lo Stato decide di proteggere o non proteggere persone che vengono minacciate a volte sono sfuggenti. Prendiamo il caso di Christian Abbondanza, ideatore e anima della Casa della Legalità. Chiariamo subito: sono un amico di Christian. Il che non mi ha mai impedito di dirgli che ritenevo alcune sue battaglie forzate o sbagliate. Ciò detto, il suo impegno nella lotta alle mafie penso non possa essere messo in discussione.  Il suo modo di condurre queste battaglie oltrechè renderlo bersaglio di querele per diffamazione (che a volte possono anche diventare, perché no giustamente, delle condanne) lo ha anche esposto a rischi fisici e più volte sono dovute intervenire le forze dell’ordine per garantire la sua incolumità. Bene. Da oltre due anni le autorità (magistratura, forze dell’ordine, prefetture) sanno che alcuni presunti ‘ndranghetisti oggi a processo parlando di Christian pronunciavano nei suoi confronti minacce di morte. E altre minacce gli sono state rivolte nei giorni scorsi nell’aula del tribunale di Imperia dove si celebra il processo La Svolta contro 30 accusati per vari reati tra cui l’appartenenza alla ’ndrangheta. Insomma: sono mafiosi pericolosi secondo la magistratura si o no? Forse non lo sono quando parlano di Abbondanza?

Comunque sia, a Christian nessuno ha ancora ritenuto di dover garantire una forma di protezione. Neppure, una qualche autorità ha ritenuto di dover manifestare solidarietà, per farlo sentire meno solo. Capisco: Christian fa un’antimafia irritante, non una di quelle da convegni, salotti televisivi e via dicendo sulla quale son tutti d’accordo: pure le mafie. Ha rotto le balle al mondo compreso a un paio di magistrati che l’hanno querelato. Spero non sia per questo motivo che a lui non viene garantita la protezione mentre invece lo Stato, giustamente ci mancherebbe altro, la garantisce da anni o l’ha garantita, a chi come minacce ha ricevuto una scritta su un muro, un insulto per strada, una lettera anonima. Magistrati, avvocati, cardinali, professori. Vuoi vedere che lo status di minacciato è riconosciuto solo a chi appartiene al salotto buono? Agli altri, gli sfigati, non resta che toccare ferro.