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«Non riesco a respirare»

Eric Garner, George Floyd, Riccardo Magherini, Federico Aldrovandi… Sono morti che rimangono ai bordi delle strade, riemergono quando l’indignazione scoppia e poi vengono riseppellite di nuovo.

Il 17 luglio 2014, a Staten Island, l’agente Daniel Pantaleo afferrò per il collo fino a soffocare Eric Garner. «Non riesco a respirare», urlava disperato Garner. Morì senza respiro. George Floyd ha ripetuto «non riesco a respirare» negli otto minuti e 46 secondi in cui il poliziotto Derek Chauvin gli premeva il ginocchio sulla gola. I due si conoscevano, erano stati colleghi come buttafuori in un nightclub. Anche questa volta c’è un video che lascia pochi dubbi e che mostra i fatti. Poi c’è la macchina giudiziaria e quella, quando si tratta di forze dell’ordine, si inceppa in declinazioni mostruose: “Non ci sono elementi fisici che supportano una diagnosi di asfissia traumatica o di strangolamento”, dice il referto dell’autopsia, “gli effetti combinati dell’essere bloccato dalla polizia, delle sue patologie pregresse e di qualche potenziale sostanza intossicante nel suo corpo hanno probabilmente contribuito alla sua morte”. Alla fine sarà morto di droga. Sembra una storia già vista, eh?

I neri vengono ammazzati, preferibilmente se adolescenti: nel 2012 il 17enne Trayvon Martin in Florida, nel 2014 il 18enne Michael Brown a Ferguson, Missouri, finisce sempre così: i poliziotti assassini sono assolti, scoppiano le rivolte razziali, arriva la Guardia nazionale e comincia il coprifuoco. Secondo uno studio della National Academy of Sciences in Nord America la sesta causa di morte tra gli uomini di età tra i 25 e i 29 anni è un arresto di polizia per gli appartenenti a uno stesso nucleo etnico: rispetto ai bianchi, gli uomini afroamericani sono 2,5 volte più a rischio, le donne 1,4 volte. Per i nativi uomini, il rischio è di 1,2-1,7 volte maggiore, mentre per le donne tale fattore è compreso tra 1,1 e 2,1. Per gli uomini latini, infine, la probabilità cresce di 1,3-1,4 volte rispetto ai bianchi.

Ma non è tutto. Fatal Encounters è un sito fondato e diretto dal giornalista D. Brian Burghart che attraverso un’accurata rassegna stampa anche di testate minori e locali, ha raccolto in un database gli estremi di oltre 24.000 uccisioni effettuate dalla polizia dal 1° gennaio 2000 ad oggi: alla data del 6 gennaio 2019 venivano elencate 1810 vittime della polizia colpite tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2018. Questo significa che la polizia, prima ancora di un processo, ha ucciso 72 volte più persone di quante ne siano state messe a morte a seguito di una procedura giudiziaria.

Poi c’è il resto: un presidente incendiario che con il sorriso di Nerone osserva le proteste blindato nel suo ufficio spargendo parole di odio e di fuoco. Il mandante morale e morbido dello scontro ha gli occhietti iniettati di Trump.

Poi ci sono gli italiani che si dimenticano i nostri morti che non riuscivano a respirare: «mio figlio Federico è morto nello stesso modo di George Floyd. Schiacciato sotto le ginocchia e il peso di un poliziotto mentre chiedeva aiuto e diceva “non riesco a respirare”», ha scritto Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovrandi. Urlava la stessa frase Riccardo Magherini, morto la notte del 3 marzo 2014 quando venne fermato dai carabinieri.

Sono morti che rimangono ai bordi delle strade, riemergono quando l’indignazione scoppia e poi vengono riseppellite di nuovo.

Buon lunedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il clan Sarno, il pentito e l'onore più della mamma

giuseppesarnoCalpestare per sopravvivere. Calpestare tutto, anche la propria madre in nome dell’onore.

Le famiglie che si sfaldano come sfoglia troppo cotta sono la foto migliore della morale che si sbriciola di una “famiglia” che, mentre morde per diventare sempre più grande, scuoce nel senso materno. Anni di onore costruito sulla gerarchia all’ennesima potenza e un padre gerarca con i gradi del boss come spilla sul petto.

Giuseppe Sarno o mussillo è stato un generale secondo le regole: capo clan di Ponticelli ambiva ad inghiottirsi tutta Napoli mangiandosi i Mazzarella, nonostante l’arresto prima del fratello Ciro ‘o sindaco e ad aprile di Vincenzo. Dal bunker del rione De Gasperi i Sarno a partire dagli anni ottanta  si sono rovesciati da Ponticelli  a Cercola, Somma Vesuviana e poi Sant’Anastasia fino al quartiere Mercato con l’alleanza dei clan Misso, Formicola e Ricci e addirittura un bel “Bingo” tutto luccicante e nuovo tra Chiaia e Fuorigrotta. E dietro tutta una scia di prestanome incensurati umidi come uno starnuto.

Insomma, nelle storie delle famiglie che lavorano nonostante gli inciampi in qualche sbirro, i Sarno sono uno di quei capitoli nel libro mastro della camorra che cresceva proprio come te l’aspetti. Fino ad oggi.

Cosa succede? Succede che per il suo cinquantunesimo compleanno Giuseppe organizza una bella rimpatriata famigliare, seppur latitante, nel suo nascondiglio all’ultimo piano di via Trastevere al civico 148 in Roma. I familiari del Sarno che lo raggiungono (mentre brillano di torta e cinquantuno candeline) sono un’esca troppo profumata per i carabinieri che fanno irruzione e catturano il boss che cerca la fuga sui tetti della capitale ma risulta ben poco felino per sfuggire. E’ il 4 aprile 2009.

Non passa molto e  Giuseppe, il patriarca boss, si pente ammalato di quella malattia tra l’infamia e la sbirritudine che puzza come se fosse secca sotto la suola delle scarpe; e, nel cortocircuito malato della famiglia che si svende per salvarsi, il codice d’onore arriva a pungere la moglie che in quanto responsabile del pentimento del marito – il boss Giuseppe Sarno – era oggetto di continue minacce di morte da parte dei familiari, perfino da parte del figlio ventiduenne.

Le pesanti intimidazioni a carico di Anna Emilia Montagna rappresentano uno degli aspetti più raccapriccianti dell’operazione che ha portato alle prime ore del giorno all’arresto da parte dei carabinieri di cinque esponenti di spicco del clan camorristico Sarno. I cinque – tutti esponenti di vertice della cosca – sono ritenuti responsabili, con altre persone non ancora identificate, di aver minacciato di morte Anna Emilia Montagna, per indurre il marito a ritrattare le dichiarazioni già rese e a non renderne di nuove. Dopo il pentimento dello storico capoclan Giuseppe Sarno, è stato accertato che i suoi fratelli ed altri esponenti del clan avevano ripetutamente minacciato la moglie, Anna Emilia Montagna. Dalle indagini, infatti, è emerso che la decisione di Giuseppe Sarno, 51 anni, di collaborare con la giustizia – che risale a poche settimane fa – ha provocato un autentico terremoto negli equilibri della criminalità organizzata napoletana, ed è frutto a sua volta di un’ irreversibile rottura dei rapporti con i fratelli, con i quali per anni aveva condiviso le responsabilità di guida del clan di famiglia. In seguito al pentimento dell’ex boss, alcuni suoi familiari ed altri esponenti della cosca si sono recati più volte, a partire dal 6 luglio scorso, a casa della moglie, minacciandola di morte per indurre il marito a interrompere la collaborazione con la giustizia. Ad Anna Emilia Montagna sarebbe stato intimato, tra l’altro, di abbandonare il coniuge e la casa di famiglia nel caso in cui Giuseppe Sarno non avesse ritrattato quanto già detto ai magistrati. Ma a minacciare di morte la donna ci pensava anche il figlio ventiduenne Salvatore, detto ‘Tore ò pazzo’. Quest’ultimo ha sin da subito intrapreso la “carriera” del clan e quando alla famiglia è arrivata la notizia del pentimento, non ha tardato ad accusare la madre e perfino a dirle che sarebbe morta se non si fosse impegnata perchè terminasse la collaborazione del padre con la giustizia. A casa della madre Salvatore ci andava molto spesso, accompagnato dagli zii e dai cugini: ai carabinieri non risulta comunque che la donna sia stata anche oggetto di violenze fisiche.

Delle cinque ordinanze di custodia cautelare, una, quella a carico di Vincenzo Cece, è stata eseguita in carcere. Gli altri arrestati sono stati individuati in abitazioni, non direttamente a loro riconducibili, nel quartiere dove il clan viveva.

Un matricidio nemmeno consumato. Una madre consumata da un matricidio minacciato. Come nelle peggiori fiction a basso costo in terza serata.

E insieme la famiglia e l’onore che finiscono giù al suono dello sciacquone.