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Sindaco nega la cittadinanza a Liliana Segre, ma invitava Jennifer Lopez a trasferirsi nella sua città

Uno degli atteggiamenti più ridicoli e osceni di una classe politica inetta e in malafede consiste nel tentativo di dare spessore politico a piccoli odi personali, a deprimenti battaglie di quartiere e decisioni prese per posa senza nessun pensiero dietro. Ogni volta che un politico, di qualsiasi grado, si dimena per giustificare prese di posizione con motivazioni vuote appare per quello che è: piccolo, molto piccolo.

Gualdo Cattaneo è un piccolo comune di 5.000 abitanti in provincia di Perugia. Anche qui, come accade in tutte Italia, in consiglio comunale è arrivata la mozione per assegnare alla cittadinanza onoraria a Liliana Segre come presa di posizione nella lotta all’odio, alla violenza e al razzismo. Il sindaco di Gualdo Cattaneo, tal Enrico Valentini, è contrario. Posizione legittima, certo, solo che ogni volta che si nega di prendere posizione verso un certo periodo storico è curioso sentire le più disparate motivazioni e il sindaco e la sua maggioranza si sono superati.

Durante la seduta di consiglio che ha bocciato la mozione il sindaco, tra risate generali, ha spiegato che Liliana Segre “non può essere cittadina onoraria di Gualdo Cattaneo perché non ha legami storici con il territorio, non rappresenta il nostro Comune, non ha vissuto qui”. Ci sarebbe da discutere sul fatto che la cittadinanza solitamente va data a una persona per i valori che incarna e non per il fatto che abbia una casa per le vacanze nella piazza locale, ma Valentini dice che sulla Segre c’è in corso “una strumentalizzazione”: strumentalizzare la libertà, la lotta al fascismo e al nazismo e la democrazia è un chiodo fisso di certi amministratori. Ma tant’è.

L’aspetto grottesco però è che quel Enrico Valentini è lo stesso Enrico Valentini che un anno fa in un suo post su Facebook si era esibito in una lunga lettera a Jennifer Lopez in cui invitava la star americana a trasferirsi nel suo paese elencandole tutte le caratteristiche del luogo, dalla “gianna” che tira, al tartufo bianco e nero, le lumache alla pomontina, la porchetta, la frittella di Pozzo, il presepe di Marcellano. “Per ovvie ragioni legate alla distanza , ‘scelte lavorative e di vita differenti’ non ci conosciamo direttamente anche se ,da qualche parte, credo di averti visto nonostante fatichi a ricordare il dove”, scrive il prode sindaco, tutto barzotto e simpatico (e con evidenti problemi di punteggiatura).

Quindi funziona così: evidentemente Jennifer Lopez incarna lo “spirito” del sindaco, Liliana Segre no. E non c’è altro da aggiungere, mi pare.

L’articolo proviene da TPI.it qui

Eccoli “i migliori”

Cosa hanno fatto e detto in passato alcuni ministri del nuovo esecutivo guidato da Mario Draghi, il cosiddetto governo dei migliori

Renato Brunetta in un Paese normale, in un Paese capace di esercitare il muscolo della memoria almeno per qualche anno, sarebbe considerato un politico “finito”, uno di quelli che incassa con dignità le sue sconfitte e silenziosamente si ritira a fare altro. In Forza Italia, nella Forza Italia che si è sgretolata in questi ultimi anni, lui ha mantenuto invece la qualità politica che più conta da quelle parti, la fedeltà al capo e ad esserne lo scherano e così ce lo ritroviamo estratto dal cilindro. Brunetta fu già ministro nel terzo governo Berlusconi, proprio alla Pubblica amministrazione, ve lo ricordate? Fu quello che si presentò additando come «fannulloni» i dipendenti pubblici (e se ci fate caso quel vento sta tornando di moda, bravissimo Draghi a fiutarlo, chapeau) e pensò bene di installare dei tornelli negli uffici (voleva metterli anche nei tribunali) per risolvere il problema dell’assenteismo. Capite vero? Il governo dei migliori che dovrebbe farci dimenticare i banchi con le rotelle ha ripescato dal cassetto dei giocattoli rotti il ministro dei tornelli. Fu il Brunetta che si scagliava contro i magistrati che «lavorano due e tre giorni alla settimana» (ma per difendere Berlusconi bisogna per forza odiare i magistrati) e che aveva definito alcuni poliziotti dei «panzoni passacarte». La sua riforma che avrebbe dovuto rivoluzionare la pubblica amministrazione non ha cambiato nulla, nulla. In compenso Brunetta fu quello che accusava le donne di usare «gli ammortizzatori sociali per fare la spesa» e che, tanto per farsi un’idea dello spessore culturale, disse: «Esiste in Italia un culturame parassitario vissuto di risorse pubbliche che sputa sentenze contro il proprio Pae­se ed è quello che si vede in que­sti giorni alla Mostra del Cine­ma di Venezia». Un migliore, senza dubbio.

Mariastella Gelmini fu la ministra all’Istruzione che per quelli della nostra generazione ha lasciato come ricordo le macchie di un incubo. Tanto per stare sui numeri: un taglio in tre anni di 81.120 cattedre e 44.500 Ata (il personale non docente). È la sforbiciata complessiva di 125.620 posti dal 2009 al 2011 che avrebbe dovuto far risparmiare all’Erario poco più di otto miliardi di euro. Otto miliardi e 13 milioni, per la precisione, stima il Tesoro nel «Def 2011». Parte di queste risorse, il 30%, servivano a recuperare gli scatti stipendiali bloccati nel luglio 2010 da Giulio Tremonti. Da buona efficiantista non sognava una scuola migliore ma ambiva a tagliare “gli sprechi”. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, di fronte ai tagli alla ricerca, era però dovuto intervenire a gamba tesa nel 2009 invitando la ministra a «rivedere alcuni tagli indiscriminati». Delle donne disse che sono delle «privilegiate» se scelgono di assentarsi dal lavoro dopo la gravidanza. Nel 2009 pensò anche a un tetto del 30%, per ridurre il numero degli stranieri in classe. Una migliore, applausi.

Erika Stefani è ministra alle disabilità. Già il fatto che per le disabilità venga messo in piedi un ministero senza sapere e senza capire che il tema attraversi tutte le competenze ha la forma di un’elemosina, lo ha spiegato benissimo Iacopo Melio in questo articolo per Repubblica, ma uno si aspetterebbe che in quel ministero lì ci sia una persona empatica, inclusiva, con testa e cuore larghi. Erika Stefani è stata ministra con il primo governo Conte ma se la ricorda solo Wikipedia. Fino a qualche giorno fa aveva come copertina della sua pagina Facebook la sua foto in Parlamento mentre strillava con un cartello “No ius soli”. Era una di quelli che proponevano le gabbie salariali ovvero «alzare gli stipendi al Nord e abbassarli al centro-Sud». Una migliore, complimenti.

Poi c’è Giorgetti, sempre della Lega, come Stefani. Giorgetti è in Parlamento dal 1996 e ha il grande “pregio” di aver sempre seguito i potenti, passando indenne da Bossi a Maroni fino a Salvini. Parla poco perché quando parla dice cose che rimangono impresse a fuoco come quella volta che disse che i medici di famiglia non servono più. Infatti nella sua Lombardia i medici di famiglia sono stati disarticolati e la Covid ha preso piede con grande libertà. Un capolavoro. Giorgetti è uno di quelli stimati perché non parlano mai e rischiano di sembrare intelligenti, come Guerini nel Pd, sempre pronti ad attaccarsi alle braghe del potente giusto per risultare pontieri mentre invece sono solo camerieri. Giorgetti era uno di quelli che ci spiegò che i mercati europei attaccavano la Lega perché «i mercati sono popolati da affamati fondi speculativi che scelgono le loro prede e agiscono», disse proprio così. Ora è europeista. Che migliore, davvero.

Questo è solo un assaggio. Nei prossimi giorni li raccontiamo per bene tutti. Evviva i migliori. Evviva.

Buon lunedì.

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Moltiplicano i pani, i pesci e i Salvini

Non serve nemmeno frugare troppo in giro per ritrovare ciò che pensava di Draghi Matteo Salvini fino a dieci minuti prima di diventare draghiano e europeista e addirittura così “responsabile” da chiedere per sé il Ministero dell’istruzione. Il 6 febbraio del 2017 diceva «L’euro non è irreversibile come sostiene Mario Draghi. Mi spiace ci sia un italiano complice della Ue che sta massacrando gli italiani e l’economia italiana». E quando qualcuno gli parlava dello spread e dell’Europa (che sarebbero tra i motivi che oggi hanno convinto il leader della Lega all’ennesima giravolta) disse letteralmente: «Noi vogliamo che l’Italia torni a scegliere, a decidere, a sperare nel futuro. Il ricattino dello spread lo abbiamo già visto 5-6 anni fa, non ci casca più nessuno. Non sono tre banchieri, tre massoni o tre finanzieri a tenere in ostaggio il popolo italiano». E, sempre nel 2017, quando fu Berlusconi a fare il nome di Draghi al governo (questo a dimostrare da quanto il nome di Draghi veleggi e da quei lidi fosse invocato) Salvini rispose: «Non se ne parla nemmeno. Mario Monti bis. E la fotocopia di Mario Monti non mi interessa».

Salvini dunque ha cambiato idea ed è vero che sono gli stupidi che non cambiano mai idea ma ci sono anche quelli che scambiano l’opportunismo per responsabilità e si impegnano in queste ore a esercitare una narrazione che vorrebbe convincerci che sia addirittura un privilegio avere un governo con “tutti dentro” come se la politica fosse davvero una livella che tiene tutti a cuccia, basta trovare l’uomo giusto per zittire. E questi strani frequentatori della democrazia che ritengono il ruolo dell’opposizione semplicemente come quelli “che sono stati fuori dal giro delle poltrone” incensano lo splendore di un governo in cui tutti diventano potabili, in cui tutte le idee accettano di essere piallate e in cui le differenze vengono dimenticate: sognano uno studio associato di segretari del commercialista da poter rivendere come Parlamento. È il loro obiettivo. Che la Lega in Europa si sia astenuta sul Recovery Fund nel dicembre del 2020, che abbia votato no ai Coronabond, no alla condanna di Putin per il caso Navalny (a settembre 2020) e tanto altro rientra semplicemente nelle “gag” leghiste che ora siamo disposti a tollerare.

Lo scriveva bene ieri il blog satirico Spinoza: «Non condivido le tue idee, ma mi batterò fino alla morte affinché tu possa farmi entrare nel tuo governo». E ora anche Salvini diventa uno statista poiché è stato bacchettato sulle dita da Confindustria e ha deciso di rimettersi a cuccia, ovviamente solo per il tempo di trovare uno spiraglio per scassare tutto appena i sondaggi gli diranno di andare a elezioni.

Qualcuno nel delirio di questa desertificazione che chiamano “responsabilità” in questi giorni tenta anche irresistibili confronti con il passato. Ieri proprio Salvini per giustificare il suo ingresso al governo ha tirato fuori il governo guidato da Alcide De Gasperi dal 10 dicembre 1945 al 14 luglio 1946 che teneva insieme Dc, Pci, Partito d’azione, Psiup, Pli e Partito del lavoro. Peccato che abbia dimenticato di dire che tutti quelli avessero lottato contro il fascismo e ne avessero subito la persecuzione. Ma anche l’antifascismo, se notate bene in giro, è un argomento “disturbante” per l’unità nazionale. Avanti così.

Ma il vero capolavoro politico sono quelli che esultano per l’operazione in corso che poi sono gli stessi che esultavano per la scorsa operazione politica “capolavoro” che ci avrebbe dovuto liberare da Salvini: il capolavoro, lo scrivevamo qualche giorno fa ora è Matteo che ha riabilitato Matteo. Segnatevelo: sono gli stessi che fra poco si stupiranno delle differenze che usciranno in Parlamento e le chiameranno intralci. Del resto qualcuno sogna da tempo una politica senza Parlamento, senza partiti, che semplicemente vada tutte le mattine sullo zerbino di Draghi per lasciare giù i voti e ritirare le comande.

Avanti così.

Buon lunedì.

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L’impolitica

La sola idea che basti il nome di Mario Draghi perché l’Italia torni a volare è il sintomo più lampante della decadenza di una classe politica che si è fatta implodere e di una classe culturale eternamente appesa al prossimo salvatore

C’è un’aria frizzante questa mattina tra politici e commentatori, quasi tutti felici per avere demolito l’esistente e tutti subito attaccati alle braghe del commissario, tutti con quella felicità della classe che ha appena scoperto che oggi ci sarà il supplente e quindi sicuramente non interroga, non controlla i compiti fatti a casa e forse se va bene non si fa nemmeno lezione.

La giornata di ieri del resto è stata una convulsa regressione verso il gnegneismo che si possa ricordare. Tutti in fila a dare il peggio di sé dentro una trattativa politica che è stata uno spettacolo indecente: i Cinquestelle con Vito Crimi (il pro tempore più duraturo nella storia delle reggenze politiche) issato a difendere perfino l’indifendibile, il Partito Democratico come spesso accade trascinato dalla corrente, Renzi e la sua ciurma a fare finta di trattare come a una recita di fine anno mentre alzava la posta in gioco ogni minuto che passava e divertendosi come un matto. Uno spettacolo indecoroso mentre là fuori morivano le solite 500 persone a cui ci siamo abituati come se fossero brina mattutina.

E così quelli che per settimane ci hanno sfrantumato dicendo che la politica si fa con le idee e non si fa con i nomi ieri sera sono andati a dormire tutti esultanti perché sono riusciti a demolire gli avversari e si sentono rassicurati dall’arrivo del nuovo logo Mario Draghi, come se bastasse un’etichetta per nobilitare un Parlamento farcito di capetti viziati e capricciosi che si sono litigati la merenda fino all’ultimo minuto dell’intervallo e che ora esultano per un probabile governo verde loden. La sola idea che basti il profumo di Draghi perché l’Italia torni a volare è il sintomo più lampante della decadenza di una classe politica che si è fatta implodere, di una classe culturale eternamente appesa al prossimo salvatore e di un giornalismo rassicurato dall’essere fedele al prossimo padrone.

Alla fine in mezzo ai bambini è arrivato il Presidente Mattarella che ormai appare l’unico adulto là dentro e che prova tutti i giorni a metterci una pezza a questa immatura inconcludenza. Ma è lo stesso Mattarella che ieri nel suo discorso ha parlato di un governo «che non debba identificarsi con alcuna formula politica» e vedere esultare la politica per un governo impolitico rende perfettamente l’idea della crisi di rappresentanza democratica che sforna soluzioni costituzionalmente legittime ma che sono tutt’altro che una vittoria. Mario Draghi inevitabilmente perseguirà, com’è nell’anima di ogni governo, interessi e valori che probabilmente riusciranno a cementare una certa idea di centro (tendente a destra) che tanto piacciono a Renzi, a Berlusconi, a Calenda e a tutta quella compagnia di giro ma forse in mezzo a tutta questa esaltazione varrebbe la pena ricordare che le scorie del governo Monti portarono all’esplosione del populismo e di certa destra salviniana. Esulterei un po’ meno, ecco tutto.

Se invece il gioco è quello di convincerci che peggio di com’eravamo messi non potrebbe andare e quindi bisogna esultare perché “un governo Draghi non può fare peggio di questo governo” allora si rientra nel campo del fideismo da tifoserie e nell’infantile speranza che riesce ad accendersi solo quando vede le macerie. E si torna al punto di partenza: un impolitico gioco di specchietti per le allodole. Manca la politica, appunto.

Buon mercoledì.

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Il senso del lavoro di Sgarbi

Vittorio Sgarbi, da sempre incapace di entrare nel merito nelle sue baldanzose e sconclusionate uscite in cui attacca gli avversari politici di turno, ha pensato bene di criticare Virginia Raggi con una bella provocazione classista delle sue, dicendo: «Secondo me prima di fare il sindaco era una cameriera nell’ufficio di avvocati e guadagnava 600 euro al mese». Essere cameriera e guadagnare 600 euro al mese evidentemente per il critico d’arte è elemento di vergogna e di inettitudine. Del resto, mica per niente, Sgarbi da sempre è l’assiduo frequentatore di immorali imprenditori. Virginia Raggi, da canto suo, ha risposto parlando della dignità dei camerieri e tutto il resto, seguita a ruota da Di Maio.

Ma c’è un aspetto interessante in tutto questo: Sgarbi ha pronunciato la sua infelice frase mentre si candidava come sindaco di Roma (e già cerca di attaccarsi ai pantaloni di Calenda) e praticamente in contemporanea ha annunciato la sua candidatura in Calabria. Del resto che Sgarbi sia terrorizzato dall’idea di dover lavorare senza politica lo racconta benissimo la sua storia politica che Fondazione Critica Liberale ha messo tutta in fila e che letta tutta d’un fiato fa parecchio spavento:

«1) Unione monarchica italiana; 2) Partito comunista italiano, accettando la proposta di candidarsi al consiglio comunale di Pesaro, nel 1990, candidatura poi fallita per avere contemporaneamente accettato anche la proposta di candidato per il Psi; 3) Partito socialista italiano, per il quale è stato eletto nel 1990 consigliere comunale a San Severino Marche; 4) Dc-Msi, alleanza con la quale è stato eletto sindaco di San Severino Marche nel 1992; 5) Partito liberale italiano, per il quale è stato deputato nel 1992; 6) Forza Italia, con la quale è stato eletto deputato nel 1994, nel 1996, nel 2001 e 2018; 7) Partito federalista, che ha fondato nel 1995 e poi lasciato per aderire alla 8) Lista Pannella-Sgarbi; 9) “I Liberal – Sgarbi”, movimento da lui fondato nel 1999; 10) Polo laico, movimento effimero esistito nel 2000 per garantire una rappresentanza alle elezioni dell’anno successivo ai Liberali e ai Radicali Italiani; 11) Lista consumatori, con la quale si è candidato, per le Politiche del 2006, senza essere eletto; 12) Udc-Dc, alleanza con la quale è stato eletto sindaco di Salemi nel 2008; 13) Movimento per le autonomie con il quale è stato candidato alle elezioni europee del 2009 nel cartello elettorale L’Autonomia nella Circoscrizione Isole; 14) Rete Liberal Sgarbi-Riformisti e Liberali nelle elezioni regionali 2010 del Lazio; 15) Partito della Rivoluzione-Laboratorio Sgarbi, movimento politico fondato dallo stesso Sgarbi ufficialmente il 14 luglio 2012; 16) Intesa popolare, partito fondato nel 2013 assieme a Giampiero Catone; 17) i Verdi, in occasione delle elezioni comunali a Urbino del 2014, hanno sostenuto la sua iniziale candidatura a sindaco e poi la proposta al sindaco eletto di nominarlo assessore alla Cultura del Comune di Urbino, a seguito dell’alleanza tra i Verdi e la coalizione di Centrodestra, guidata da Maurizio Gambini; 18) Rinascimento, partito da lui fondato con Giulio Tremonti nel 2017 con il quale inizialmente si candida come governatore alle Regionali in Sicilia; in seguito appoggerà la candidatura di Nello Musumeci per la coalizione di centrodestra, che risulterà eletto. In vista delle elezioni politiche del 2018 il partito si federa con Forza Italia; 19) Alleanza di centro, il 12 dicembre 2019, nel gruppo misto della Camera, sei giorni dopo che Sgarbi ha lasciato il gruppo di Forza Italia, si costituisce la componente “Noi con l’Italia – Usei – Alleanza di Centro”, poi divenuta, il successivo 18 dicembre, “Noi con l’Italia – Usei – Cambiamo! – Alleanza di Centro”».

Eccolo il senso del lavoro per Sgarbi: navigare da un partito all’altro in cerca di un ruolo pubblico. Poi si potrebbe ricordare la condanna in via definitiva a 6 mesi e 10 giorni per truffa aggravata e continuata e falso ai danni dello Stato, per produzione di documenti falsi e assenteismo nel periodo 1989-1990, mentre era dipendente del ministero dei Beni culturali.

Poi, oltre a quello che fa, c’è quello che dice e come lo dice. Ma qui si cadrebbe in un dirupo, sarebbe troppo, anche per un buongiorno.

Buon giovedì.

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Fratoianni a TPI: “Una patrimoniale per combattere le disuguaglianze. Altro che mazzata, così il ceto medio risparmia”

In un emendamento alla Legge di Bilancio firmato da deputati di Leu e del Pd si chiede l’abolizione dell’Imu e dell’imposta di bollo sui conti correnti e di deposito titoli, per sostituirle con un’aliquota progressiva minima dello 0,2% “sui grandi patrimoni la cui base imponibile è costituita da una ricchezza netta superiore a 500 mila euro”. I primi firmatari sono Nicola Fratoianni, che fa parte della componente di Sinistra Italiana in Leu, e Matteo Orfini, della minoranza Pd. Le opposizioni insorgono ma anche nella maggioranza in molti storcono il naso. Per TPI abbiamo intervistato Nicola Fratoianni.

Onorevole Fratoianni, sulla cosiddetta “patrimoniale” si sono sollevate subito le reazioni. Se le aspettava?
“Reazioni peraltro un po’ scontate. Come ha osservato più di qualcuno ‘patrimoniale’ è parola impronunciabile nella scena politica italiana. Tutto contro ogni ragionevolezza e perfino contro le idee di molti supermiliardari: Forbes nel luglio di quest’anno ha pubblicato la lettera di 83 miliardari che chiedono ai loro Paesi di introdurre tassazioni stabili e significative sulle loro grandi ricchezze. Tutto sulla base di un argomento molto chiaro e molto semplice: noi non possiamo fare chissà cosa ma abbiamo molti soldi e quei soldi possono risolvere molti problemi, non solo le emergenze drammatiche di questa fase della pandemia ma anche le crescenti disuguaglianze che costituiscono un problema non solo per chi le subisce ma anche per chi ha grandi ricchezze”.

Qualcuno dice che fissare un limite di 500mila euro è un azzardo. “Basta avere ereditato una casa in una grande città”, si legge in giro. Come risponde?
“Non è così. Non ne faccio colpa ai cittadini che non conoscono la norma. Primo: riguardo la questione immobiliare che viene usata contro questa norma occorre non confondere il valore commerciale con il valore catastale dell’abitazione. La nostra proposta, come tutte quelle che intervengono sulle questioni patrimoniali, si riferisce al valore catastale, quindi a chi dice che in alcune città il valore al metro quadro supera i 3mila euro basta rispondere spiegando questo punto. Se qualcuno ha una casa con un valore catastale superiore ai 500mila euro è difficile che abbia particolari difficoltà. In ogni caso le nostra proposte sono progressive, partendo dallo 0,2% da 500mila a 1 milione di euro e poi via via crescendo fino ad arrivare al 3% per patrimoni superiori al miliardo di euro. E poi ci si riferisce a persone fisiche, per cui se marito e moglie sono comproprietari di una casa quel valore si divide”.

E il secondo punto?
“Secondo: oltre a introdurre aliquote progressive, facciamo l’operazione di riordino di quella giungla di micro interventi patrimoniali, come l’Imu anche sulla seconda casa e la famosa imposta Monti (lo 0,2% sui depositi finanziari e sui titoli che non era progressivo). Quindi il ceto medio – ammesso che esista ancora – potrebbe perfino risparmiare”.

L’hanno stupita le reazioni all’interno del Partito Democratico, Zingaretti incluso?
“Sono molto contento che diversi parlamentari del PD abbiano appoggiato questa proposta, ma non mi stupisce la reazione complessiva del PD come quella del Movimento 5 Stelle. Questo è un momento in cui c’è una subalternità culturale sul tema delle tasse e dei patrimoni e sulla disuguale distribuzione della ricchezza. Il mantra ripetuto in ogni occasione è che le tasse sono troppe e vanno abbassate ma le tasse non sono troppe in sé: sono troppe su chi le paga e sono poche sulle grandissime ricchezze. Sono distribuite in modo diseguale. Faccio osservare che nei decenni la tassazione sui redditi ha conosciuto una brusca contrazione delle aliquote diminuendo la progressività. Questo significa favorire i redditi altissimi e penalizzare quelli più bassi. Bisogna proteggere i piccoli patrimoni e chi ha acquistato una casa dopo anni di lavoro o chi ha ereditato una casa (non certo a Roma o a Milano) che ha uno scarso valore commerciale e pesa sullo stipendio. Bisogna uscire da questa stagione di subalternità culturale: se uno usa sempre le parole dell’avversario è difficile poi sconfiggere il suo racconto pubblico”.

Nel pieno della pandemia è un buon momento per affrontare questo tema?
“Il momento buono è da molto tempo, oggi ancora di più. La pandemia ha messo in risalto la fragilità di un sistema di organizzare il lavoro, le vite, l’economia e del nostro welfare. Ha disvelato l’imbroglio del primato della privatizzazione nella tutela della salute. E la pandemia, come ogni grande crisi, ha evidenziato l’aumento della disuguaglianza: c’è chi ha visto crescere ancora e significativamente i propri patrimoni e chi si è trovato in difficoltà. Quindi questo è il momento della discontinuità nelle scelte e nel linguaggio per immaginare un mondo diverso da quello a cui siamo abituati, che spesso ci è stato presentato come l’unico mondo possibile”.

Sui giornali e sulle televisione la proposta è diventata “la proposta di Orfini”…
“Va benissimo così. Sono il primo firmatario ma non ho problemi di primogenitura, mi interessa aprire una discussione”.

Leggi anche: Il linguaggio dei banchieri centrali: come è cambiato negli anni e quanto è capace di influenzare i mercati

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Orfini a TPI: “Lamorgese non fa la ministra. I flussi di migranti sono gestibili, ma preferiamo finanziare i torturatori libici”

Se c’è una figura nel Partito Democratico che invoca una svolta, quanto alla gestione dei flussi migratori, già dall’epoca di Minniti, si tratta sicuramente di Matteo Orfini. Il tema dei migranti è ormai tornato al centro del dibattito politico, con l’aumento degli sbarchi, Salvini che ha ripreso la sua propaganda a tamburo battente e la maggioranza in pieno stallo, incapace di cambiare rotta. TPI ha intervistato il deputato del Pd per capire quali sono gli scenari futuri e quali decisioni prenderà la maggioranza di governo su una questione non più differibile.

Tre migranti sono stati uccisi dalla Guardia Costiera libica, e non erano passate nemmeno 24 ore dalla manifestazione che si teneva per contestare il rifinanziamento da parte del governo italiano. La notizia tra l’altro non sembra avere nemmeno indignato più di tanto.

Questa purtroppo è la storia di questi mesi, di questi anni. Non è una notizia, succede quasi tutti i giorni e fuori da ogni forma di ipocrisia e di circostanza è la ragione per cui paghiamo la Guardia Costiera libica: trattenere i migranti con ogni strumento e con ogni mezzo mettendo in conto che possono essere chiusi in un lager, torturati, seviziati e anche uccisi. Se tu finanzi torturatori e assassini, quelli torturano e assassinano.

Ci siamo abituati all’orrore?

C’è un’amnesia collettiva di fronte a un qualcosa di enorme che è e sarà una delle pagine più vergognose del nostro Paese nei libri di storia. Tutto questo oggi, purtroppo, non solleva una discussione adeguata nell’opinione pubblica e nella politica.

Ma qual è il blocco che impedisce di cambiare rotta nel governo? L’alleanza con il Movimento 5 Stelle o vogliamo ammettere che c’è anche un serio problema all’interno del Partito Democratico?

È ovvio che c’è un problema anche dentro al Partito Democratico, che per altro è ancora più incomprensibile quando addirittura Minniti è oggi su una linea differente, tanto che nelle ultime interviste ha definito “inapplicabile” quella politica che ha disegnato e concepito nelle ultime interviste. Siamo di fronte a un accanimento incomprensibile da parte della maggioranza e quindi anche del Pd. Questo atteggiamento è figlio della difficoltà a misurarsi con con una strategia radicalmente alternativa e della paura di una battaglia difficile. Mettere in discussione radicalmente quell’impianto significa affrontare uno scontro culturale e politico molto duro nel Paese e in Parlamento. Evidentemente spaventa.

Il Movimento 5 Stelle da questo punto di vista è più coerente: quell’impianto lì l’hanno sempre avuto e sono i coestensori dei decreti sicurezza. Io ricordo sempre che il secondo decreto sicurezza fu peggiorato dagli emendamenti del M5S rivendicati da Di Maio. Loro sono in continuità. È mancata la volontà del PD.

Carmelo Miceli in un’intervista a Il Foglio dice: “Io non ci sto a dire che l’immigrazione non è un problema. E dico anche, con buona pace dei buonisti, che bisogna rimpatriare chi non ha diritto di rimanere in Italia”. Se lo aspettava di sentire la parola “buonisti” usata come roncola da un suo compagno di partito?

Ormai mi aspetto di tutto. Non mi sorprendo più di nulla. Che vada rimpatriato chi non ha diritto mi pare un’evidenza. Il problema è se l’Italia sia in grado di garantire salvataggio nel Mediterraneo, accoglienza dignitosa e un percorso di integrazione. Di questo stiamo parlando: rinunciamo a salvare, paghiamo la Libia per respingimenti che sono illegali, nel momento in cui qualcuno arriva non siamo in grado di gestire l’accoglienza. In queste ore la ministra degli Interni continua a fare dichiarazioni ma non fa la ministra degli Interni: noi siamo di fronte a flussi ampiamente gestibili che diventano un’emergenza perché non c’è un piano.

Che gli sbarchi aumentino d’estate è così da sempre e di solito si dispone un meccanismo adeguato, non si chiudono 600 persone in un tendone sotto al sole in un posto che ne dovrebbe ospitare solo cento. Non è questo il modo. Caricare la pressione solo su alcune comunità locali non è una soluzione. Noi dovremo essere in grado di organizzarci, vedere chi ha diritto di restare e chi no e mettere in campo un processo di integrazione e invece tutto questo è stato smontato in larga parte dai decreti sicurezza e non c’è stato nessun tentativo di ricostruire un meccanismo complessivo.

Ma come può cambiare la linea del PD? Con la vittoria di una corrente interna, visto che la pressione degli elettori non sembra funzionare?

Io penso che servano entrambe le cose: deve crescere una battaglia interna nel Pd che si deve incrociare con una mobilitazione nel Paese. È chiaro che noi abbiamo perso. Il voto sulla Guardia Costiera libica è una sconfitta. L’assemblea del PD aveva votato contro il rifinanziamento e questa decisione non è stata rispettata: abbiamo anche un serio problema di democrazia interna.

Se Orfini potesse cosa cambierebbe, subito?

Intanto abrogherei le norme che ci sono. Dobbiamo abrogare (e non modificare) i decreti sicurezza, abrogare la Bossi-Fini e ricostruire da un punto di vista complessivo le norme che gestiscono i flussi migratori e che aprono canali legali. Poi abbiamo bisogno di una politica differente dall’altra parte del Mediterraneo che smonti quel meccanismo di sostegno ai respingimenti illegali e che ripristini ciò che accadeva con Mare Nostrum: ricerca e salvataggio di concerto con le Ong e le navi della Marina e della Guardia Costiera.

L’articolo proviene da TPI.it qui

A volte ritornano

Dove vuole arrivare Prodi quando strizza l’occhiolino al suo acerrimo nemico? Come mai il Pd non si scompone più di tanto di fronte all’ipotesi di una “alleanza” di governo con Berlusconi? Ecco perché le manfrine di Palazzo di queste settimane sono un (brutto) film già visto

Lo sapete cosa accade quando partiti hanno il terrore mettersi davanti allo specchio degli elettori, quando hanno paura di dover cominciare considerare i possibili effetti di un possibile voto e quando soprattutto cominciano a sentire che il governo in carica ha problemi di tenuta nella percezione popolare? Iniziano a frugare dentro, tra gli anfratti dello scacchiere parlamentare, si lanciano in merletti e alambicchi di strategia che da fuori appaiono come spericolate ipotesi senza capo e senza coda e tengono in mano la calcolatrice per immaginare altre pericolanti maggioranze che restino in piedi giusto il tempo di riorganizzarsi di nuovo. Una burocrazia di maggioranze che ottiene di solito l’effetto di disgustare ancora di più gli elettori (di qualsiasi parte politica) che per anni sono stati scagliati contro i giochi di palazzo e che fa schizzare i populisti nei sondaggi. Poi, quando accade, quando ci si mette tutti insieme in un’accozzaglia di partiti che hanno come unico punto quello della loro autopreservazione, insistono nel dirci che l’hanno fatto per senso di responsabilità, di solito mettono come presidente del Consiglio quello che si definisce un tecnico e di solito danno vita a tutte le misure impopolari che hanno succhiato la vitalità del Paese (il governo Monti, per dirne una facile facile, ve lo ricordate?).

Ecco, quello che sta accadendo in Italia in questi giorni convulsi in cui si torna a parlare di un possibile ingresso nel governo di Silvio Berlusconi corrisponde esattamente alla fase iniziale di un momento del genere, con parte del Partito democratico che non riesce proprio a trattenersi da un filo-destrismo che non riesce proprio a scrollarsi di dosso; con i renziani di Italia Viva che invece Silvio Berlusconi (o meglio: i moderati di destra) lo corteggiano da un bel po’ (quindi niente di nuovo sotto al sole) e con il Movimento 5 stelle che ancora una volta prova le vertigini che procura la sensazione di perdere il potere. Tutto parte da Romano Prodi, icona di un centrosinistra che ha bisogno di idoli in mancanza di classe dirigente, che nel suo ruolo di souvenir del centrosinistra che c’era ci fa sapere che non sarebbe «un tabù l’ingresso di Forza Italia». Dicendolo come ci ha abituato a dire le cose Romano Prodi, a lato di qualche altro evento o mentre viene incrociato per caso da qualche giornalista durante la sua passeggiata mattutina. L’innesco funziona perfettamente: è tutto un profluvio di riabilitazioni politiche e di venute in soccorso verso il Cavaliere caduto in disgrazia con frasi che superano la semplice circostanza e che addirittura mostrano una sfrenata volontà di riabilitare in fretta quella classe dirigente che fu senza l’impiccio del Movimento 5 stelle e senza i populismi di Salvini e di Meloni: il sogno di un centrosinistra e di un centrodestra che rimangano soli nell’arco elettorale e che fingano di farsi la guerra lavorando sotto traccia per la pace è il desiderio recondito di molti dirigenti che ancora non hanno fatto pace con ciò che è successo in Italia negli ultimi dieci anni. In mancanza di un vocabolario per leggere e per scrivere il presente preferiscono rimettere in piedi quel passato in cui nuotavano così agilmente.

Ma, seriamente, cos’è tutto questo baccano sulla riabilitazione di Berlusconi? Proviamo a fare due conti, passo passo, analizzando le diverse situazioni dei personaggi in commedia. Prodi, innanzitutto, è quello che nemmeno troppo segretamente aspira alla presidenza della Repubblica e sa benissimo che per riuscirci ha bisogno dei voti di un centrodestra che in tutti questi anni l’ha demonizzato e l’ha indicato come la causa di tutti i mali europei: per assurdo…

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il colloquio di lavoro

(Ripensavo a un testo per questo primo maggio e per questo lavoro piuttosto deteriorato e mi è venuto in mente un capitolo del mio romanzo Santamamma. Ora, non è mai bello autocitare un romanzo, suona sempre come mossa promozionale, eppure è una scena che contiene molte delle cose che ho vissuto io che sono di quella generazione a cavallo tra il “lavoro” come lo intendevano i nostri genitori e poi il “lavoro” come sarebbe diventato. Eccolo qui)

«Carlo Gatti»

«Sì, buongiorno. Eccomi.»

«Titolo di studio?»

«Maturità classica.»

«E basta?»

«Già, sì.»

«Strano, una maturità classica senza università…»

«Ho preferito cominciare a lavorare.»

«Sì. Ma non ha cominciato a lavorare visto che è qui per il colloquio.»

«Ho fatto il benzinaio.»

«Con la maturità classica. Un po’ pochino, eh. Chissà come saranno stati fieri i suoi genitori.»

«Lavoro estivo. Una cosetta così.»

«Ma qui c’è scritto settembre aprile.»

«Intendevo estivo nell’interpretazione. Anche se d’inverno.»

«Ah, nell’interpretazione, pensa te. Speriamo che non interpreti anche di fare finta di lavorare, ahinoi.»

L’ufficio aveva piante finte in tutti gli angoli. Smorte comunque. Almeno una spolverata, pensavo, almeno quella ci vorrebbe. Lui rigirava una penna. Lo insegnano a tutti gli ingiacchettati: tenere qualcosa tra le mani evita la fatica di pensare dove metterle. Trucchetto curioso per chi dovrebbe ribaltare l’economia del mondo, ma tant’è. I colloqui di lavoro hanno tutti un filo comune: la recitazione da parte dell’esaminato di un bisogno ma non troppo, di un entusiasmo ma non troppo, di competenze ma non troppo, di umiltà ma non troppo, di troppa buona educazione e una combinazione d’abiti che non vedi l’ora di dismettere. L’esaminatore, invece, sfoggia l’abilità di esaminare ma non troppo, annusa che tu sia brillante ma che non possa fare ombra, gioca al caporale e tu la truppa e poi diventa servo se entra il capo. Al decimo colloquio di lavoro potresti farne la regia in un teatro da mille posti, disegnarne la radiografia. Che messinscena.

«Suona. Anche.»

«Suonavo. Ho studiato pianoforte fin da piccolo. E violoncello.»

«La mia figlia più piccola va a danza. Le maestre dicono che sia portata. Vedremo un po’. Quindi ha suonato alla Scala?»

«Alla Scala c’è una stagione sinfonica. Non concerti solisti.»

«Ho capito, ho capito. Suonava così. Per passione…»

«Ho studiato. Frequentavo anche il conservatorio.»

«Ah, è diplomato! Allora un giorno la invito a vedere mia figlia ballare così mi dice.»

«Non mi sono diplomato. Mi sono fermato al nono anno.»

«Gatti, Gatti… non è riuscito a finirne una…»

«Ho avuto un lutto in famiglia.»

«Oh, mi spiace.»

Almeno un limite di potabilità, me lo ero imposto. Almeno non farsi sbavare addosso. E il lutto è un jolly: funziona a scuola per l’interrogazione e funziona anche qui. Del resto sono tutti maestrini, questi qui.

«Le spiego. Lei sa di cosa ci occupiamo?»

«Ho preso alcune informazioni. Consulenza aziendale specializzata in logistica, mobilità e ottimizzazione.»

«Ha sfogliato il depliant. Almeno quello l’ha finito.»

«Mi informo sempre. Amo sapere con chi sto andando a parlare.»

«Va bene Gatti, adesso non esageriamo. Quello è il mio lavoro. Comunque: esistiamo dal 1949 e il fondatore era un piccolo padroncino che si occupava di consegne e spedizioni nella zona fino poi a coprire tutto il territorio nazionale. Quando l’azienda è passata di mano al figlio, il signor Monti che poi è quello che la pagherebbe se io decido che lei può andare bene, abbiamo deciso di internazionalizzare l’impresa e oggi siamo tra i leader in Europa nella consulenza per le più importanti aziende logistiche. Trattiamo bancali e container che partono dall’Islanda e viaggiano fino alla Nuova Zelanda. Spedizioni che fanno il giro del mondo. Mi segue?»

È forte questa cosa degli incravattati che ripetono manfrine sulla storia dell’azienda com’è scritta sui volantini. È la recita di natale che si ripropone nella versione adulta, solo che qui a noi tocca fare i parenti commossi.

«Noi ci occupiamo che la spedizione avvenga con tutti i crismi: velocità, cortesia, qualità e produttività, soprattutto. Produttività. Abbiamo due divisioni: slancio e controllo. La figura che cerchiamo è per il reparto di slancio.»

«Sì. Di slancio. Che sarebbe?»

«Molto semplice. Il cliente x dice che deve spedire il bancale y da Roma a Berlino. Lei ha i numeri telefonici dei camionisti che collaborano con noi e il nostro sistema le fornisce un’indicazione di prezzo che noi chiamiamo cuneo. Il suo lavoro è di trovare velocemente quale dei nostri trasportatori è disposto a fare la tratta al prezzo più basso. Sulla differenza tra il cuneo e il prezzo che lei è riuscito ad ottenere le spetta una provvigione del 2,5% fino a un abbassamento del 25%, una provvigione del 5% fino al 50% e addirittura del 10% se il cuneo supera il cinquanta. Sembra difficile ma è molto semplice: quel viaggio dovrebbe costare 10.000 euro ma lei riesce a venderlo a un camionista a 5000 e con una telefonata si  è guadagnato 500 euro puliti. Mica male, eh?»

«Eh.»

«Già.»

«Ma perché slancio?»

«Il nome? Perché questo nome?»

«Sì. Una curiosità.»

«Mi sembra facile. Iniettiamo soldi nel mondo del lavoro, creiamo economia, spostiamo merci, accontentiamo clienti e lavoratori. Se al camionista non arrivasse quella telefonata avrebbe il camion fermo in giardino per farci giocare il figlioletto con il clacson e la leva del cambio. Il suo lavoro è tenere tutte queste persone in circolo, con tutti i loro talenti.»

Qui sorrise con trentadue canini. Era evidente che aveva trovato una formula diversa dalla consuetudine intirizzente e ne era entusiasta. L’avrebbe raccontata ai colleghi, agli amici del golf e alla mogliettina simulatamente fiera che l’avrebbe ascoltato mentre sceglieva il sushi. Da noi, in quegli anni lì, il sushi era un marziano con il salotto aperto solo agli eletti.

«Ma lei capisce, signor Gatti, che la responsabilità del ruolo e il prestigio dell’azienda ci impone di scegliere persone con i giusti talenti.»

Daje, con i talenti. Mi venne in mente zio Paperone. Con i sacchi di talenti.

«Per questo ho bisogno di sapere tutto di lei e di protocollo le farò anche delle domande personali. Dobbiamo avere la certezza di affidare il nostro slancio a persone che insieme a noi vogliano cambiare il mondo, aperte a sfide nuove e capaci di interagire con il futuro dandogli del tu.»

«Ovvio.»

«Mi dica Gatti, perché è interessato ad entrare nel mondo della logistica e della grande distribuzione?»

«Perché amo la mobilità. Ecco.»

«Cioè?»

«Credo che il commercio sia la più alta realizzazione delle capacità umane e essere partecipe di un’organizzazione che riesce a dare del tu a tutti i continenti sia una bella sfida.»

«Perfetto. Molto bravo. Ha già capito il nostro spirito. Siamo esploratori, noi. Ha intenzione di farsi una famiglia?»

«Certamente. Pur rispettando la mia autonomia.»

«Appunto. Perché qui non si può fermare il mondo per un anniversario, lei mi capisce. Questo non è un lavoro…»

«È una missione.»

«Una missione. Esattamente. Vuole avere figli?»

«Per ora no. Una famiglia mi basterebbe. Vorrei prima concentrarmi sulla realizzazione personale

«È molto maturo per essere un musicista della domenica, Gatti. Anche se ha letto il greco e latino.»

«La ringrazio.»

«Qui c’è gente che si è presentata in braghe di tela come lei e ora si porta a casa dodici, quindici, diciotto milioni al mese. Ma bisogna crederci, essere all’altezza dei propri sogni, come dice il nostro capo tutti gli anni alla cena di natale. Mi dica Gatti, ma lei è all’altezza dei suoi sogni?»

«Oh certo.»

«Perché qui ha il dovere di sognare. Non so se mi capisce. Questo non è un lavoro, come dirle, è l’affiliazione a un sogno. Qui non ci sono orari e domeniche perché i nostri collaboratori hanno bisogno di venire in ufficio, hanno bisogno di ribassare il cuneo e sentono la necessità di dimostrare al mondo che è possibile spostare un bancale di mille chilometri a metà del prezzo che la società ci vorrebbe imporre. È un fuoco che senti dentro».

«Capisco bene.»

«Capisce, va bene, ma lei ce l’ha il fuoco? Me lo faccia vedere! Ce l’ha il fuoco dentro?»

Sai che forse ci credono davvero questi a quello che dicono? Francesco una volta mi disse che sì, che secondo lui succede che a forza di riempire di polpettone il tacchino qualche tacchino si convince di essere polpettone. Lui aveva suo padre che vendeva porte blindate, le porte blindate più blindate tra le porte blindate, e quando a casa di Francesco gli zingari gli sono entrati in casa per rubargli pochi spicci, le mozzarelle e cagargli sul divano anche quella volta lì suo papà disse che dovevano essere una banda di professionisti, rapinatori da musei e ministeri, se erano riusciti a debellare la sua porta blindata.

«Io ce l’ho il fuoco. Me lo sento che brucia.»

«Perché questo è il punto di partenza essenziale. Senza quello io e lei non facciamo neanche questo appuntamento, altrimenti. Perché è lei che vuole venire con noi. Ma come lei ce ne sono migliaia. E bisogna scegliere bene chi ci prendiamo in famiglia.»

«Certamente. La sua è una bella responsabilità, mi immagino.»

«Lo può dire forte, Gatti! Lo può scrivere mille volte sulla lavagna! Ma lei cosa vuole fare da grande?»

«Essere in squadra per una grande impresa

«Molto bene.»

«Grazie.»

«Guardi questo test, guardi qui. Deve mettere una croce. È alla guida di un treno e c’è una biforcazione. Se continua sulla sua direzione troverà sei persone sui binari e inevitabilmente sarò costretto a ucciderli però può azionare lo scambio e decidere di prendere l’altra biforcazione dove sui binari c’è un uomo solo. Da che parte va, lei, Gatti?»

«Non è facile.»

«Non c’è tempo Gatti! Non ha troppo tempo! Non si può spegnere lo slancio!»

«Ne uccido uno solo, forse.»

«Ma è colpa sua, così!»

«Beh, non credo che se uccido gli altri sei mi facciano patrono del paese…»

«Sa qual è la risposta giusta?»

«No.»

«La risposta giusta anche se non c’è il quadretto della risposta giusta?»

«Mi dica.»

«La strada più breve. La più breve è la risposta giusta.»

«Ah, ok.»

«Ha qualche domanda?»

«Niente in particolare. Volevo chiedere, nel caso in cui io possa andare bene, l’inquadramento. Lo stipendio.»

«Le do un consiglio Gatti. Al di là di questo nostro incontro e che poi venga o no a lavorare con noi. Le do un consiglio. Parlare di soldi a un colloquio di lavoro è terribilmente inelegante».

«Sì, questo lo so».

«Però ci è ricascato. Pensi lei se io dovessi essere così rozzo da raccontarle che dispendio di soldi, tempo e energie è per noi fornirle una postazione, occuparci del telefono, le cuffie, il computer, i programmi, il suo armadietto, il badge, la mensa. Pensi quanto mi costa impiegare qualche collega esperto, di quelli che hanno lo slancio dentro, per spiegarle come funziona. Pensi a uno della nostra squadra che piuttosto che iniettare economia deve istruire uno appena arrivato. Gliene ho parlato? Forse mi ha sentito che le faccio pesare il fatto che qui da noi sapere sviolinare il pianoforte conta come il due di picche quando briscola è bastoni? È cambiato il mondo per voi giovani. Io vi invidio. Avete di fronte un futuro aperto a tutte le possibilità: la domanda che dovete fare non è «quanto mi pagate» ma «quanto valgo, io?». Io non le do niente, io non voglio essere come una volta il padrone della sua vita, io sono qui perché lei mi dica quanto guadagnerà. Sono io che glielo chiedo. Quanto guadagnerà Gatti?»

«C’è un rimborso spese?»

«Sono duecentocinquantamila lire di anticipo di provvigioni per i primi sei mesi. Volendo vedere c’è anche un milione di computer sulla sua scrivania, ottocentomila lire di media di bolletta telefonica per ogni collaboratore, la cancelleria e soprattuto questa azienda che vede, che il proprietario ha voluto bella e accogliente più di casa sua.»

«Ho capito. Mi è tutto chiaro.»

«Lei mi piace Gatti. Glielo confesso perché mi piace. Magari mi sbaglio anche se in tutta la carriera non mi sono sbagliato mai ma sento il suo fuoco. Mi prendo il rischio, via: se vuole domani ci vediamo alle 7 e iniziamo. Non lo dica a nessuno che l’ho deciso così su due piedi ma ogni tanto voglio fidarmi del mio istinto. Forse si è perso un po’ con la musica e la scuola ma le posso raccontare di un collega che non sapeva nemmeno parlare in italiano e ora è un caporeparto con la Golf aziendale e uno stipendio da favola. Non le dico il nome solo perché sarebbe inelegante ma lei ha quella luce negli occhi. Se lo prende qui da noi il diploma, si laurea in slancio. Eh?”

«Domani però non posso. Domani.»

«E perché?»

«Ho avuto un lutto.»

«Mi dispiace tanto.»

«Però vi chiamo. Vi chiamo io.»

«Va bene Gatti. Va bene. L’aspettiamo. Come una famiglia!»

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/05/01/il-colloquio-di-lavoro/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Ma i 180 milioni di euro che la Lega ha preso (e speso indebitamente) da Roma ladrona?

(Un pezzo di Francesco Giurato e Antonio Pitoni per Il Fatto Quotidiano)

Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania  e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova.

MANNA LOMBARDA Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996.

RIMBORSI D’ORO L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef(Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimoblitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura.

ELEZIONI, CHE CUCCAGNA Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro.

CARROCCIO AL VERDE E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso discioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.

FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD

(1988-2013)

1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)
1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)
1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)
1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)
1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)
1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)
1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)
1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)
1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)
1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)
1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)
1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)
2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)
2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)
2002 € 3.693.849,60
2003 € 4.284.061,62
2004 € 6.515.891,41
2005 € 8.918.628,37
2006 € 9.533.054,95
2007 € 9.605.470,43
2008 € 17.184.833,91
2009 € 18.498.092,86
2010 € 22.506.486.93
2011 € 17.613.520,09
2012 € 8.884.218,85
2013 € 6.534.643,57

TOTALE 179.961.382,78