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opere pubbliche

Pedoni, pedali e pendolari per una mobilità nuova

mobilita-nuovaProgettare la mobilità significa avere in mente già l’Italia del futuro. Mica quella che ci capita ma quella che vogliamo: la differenza sembra piccola ma è sostanziale. Per questo il manifesto di #mobilitànuova è sostanzialmente un manifesto politico su un tema che dal Parlamento viene troppo spesso comodamente relegato alle Regioni che a loro volta con una certa inedia scaricano agli amministratori locali che (guarda il caso) hanno pochissimo margine di manovra. E alla fine succede che sia “normale” associare il pendolare ai disservizi, il ciclista al rischio su strada e il pedone ad un infiltrato indesiderato in una mobilità in cui non ha un suo posto. E per questo aderisco e rilancio:

L’Italia ha ipotecato il futuro delle opere pubbliche e della mobilità approvando progetti per nuove autostrade e nuove linee ad alta velocità ferroviaria che costeranno complessivamente oltre 130 miliardi di euro, offriranno ulteriori occasioni di business alla malapolitica e alla criminalità organizzata, sottrarranno al Paese territorio e bellezza spesso senza offrire un servizio migliore alla collettività.

Per soddisfare la domanda di mobilità del 2,8% delle persone e delle merci (è questa la quota di spostamenti quotidiani superiori ai 50 chilometri) si impegna il 75% dei fondi pubblici destinati alle infrastrutture del settore, mentre all’insieme degli interventi per le aree urbane e per il pendolarismo (dove si muove il 97,2% della popolazione) lo Stato destina solo il 25% delle risorse, puntando spesso e ancora una volta su nuove strade, tangenziali e circonvallazioni piuttosto che sul trasporto collettivo o su quello non motorizzato.

C’è un’urgente necessità di riorientare le risorse pubbliche concentrando la spesa laddove si concentra la domanda di mobilità e nello stesso tempo va avviato un radicale ripensamento del settore dei trasporti, sostenendo attraverso scelte strategiche le persone che quotidianamente si muovono usando i treni locali, i bus, i tram e le metropolitane, la bici e le proprie gambe e dando l’opportunità a chi usa l’automobile di scegliere un’alternativa più efficiente, più sicura, più economica.

La #MobilitàNuova si propone di avviare una trasformazione e una rigenerazione della società che va molto al di là della semplice trasformazione degli stili di mobilità individuale e punta a un deciso ridimensionamento del binomio auto+altavelocità. Una scelta, quest’ultima, egoista, dispendiosa, vecchia e inefficiente, che produce inquinamento, incidentalità stradale, danni sanitari, congestione, consumo di suolo e sprawling, aggressione al patrimonio storico, artistico e paesaggistico, iniquità sociale, alienazione e inaridimento delle relazioni sociali.

Al contrario una #MobilitàNuova che ruota attorno a quattro perni – l’uso delle gambe; l’uso delle bici; l’uso del trasporto pubblico locale e della rete ferroviaria; l’uso occasionale dell’auto privata (sostituita in tutti i casi in cui è possibile da car sharing, car pooling, taxi) – modifica lo spazio pubblico e la sua destinazione d’uso, rafforza i legami comunitari tra le persone e tra le persone e il luogo dove vivono, studiano e lavorano, stimola un’economia agroalimentare basata sul km0, crea lavoro stabile, contribuisce a far crescere la percezione di sicurezza attraverso strade e piazze più vissute e frequentate. In altre parole rende le città e il territorio più bello e migliora la qualità della vita.

E’ per questo che ti chiediamo di entrare nella Rete per la #MobilitàNuova, illustrando come questa nuova mobilità può incidere positivamente sui temi che ti stanno a cuore e indicando le tue priorità programmatiche sul tema da indirizzare ai decisori politici.

Insieme daremo vita a questa campagna collettiva e individuale, orizzontale e partecipata, che si articola in due momenti diversi.

Sabato 4 maggio a Milano manifestiamo per imporre ai decisori politici una rivoluzione della mobilità che parta proprio da un riequilibrio delle scelte politiche e delle risorse pubbliche destinate al settore dei trasporti, dando insieme visibilità e sostegno alle vertenze nazionali e locali contro quelle opere pubbliche stradali, autostradali e ferroviarie inutili e dannose per il Paese.

Mentre a partire dal 4 maggio lanceremo insieme una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare (obiettivo un milione di adesioni) che vincoli almeno i tre quarti delle risorse statali e locali disponibili per il settore trasporti a opere pubbliche che favoriscono lo sviluppo del trasporto collettivo e di quello individuale non motorizzato.

 

E non è cambiato niente mai, e la disperazione ha preso il cuore di mi­lioni di cittadini, e io questo posso scriverlo onestamente perché la di­sperazione ancora non mi ha vinto.

Per non avere la memoria a corrente alternata ma una resistenza elettrica e continua, oggi ho ritrovato un pezzo di Pippo Fava. Era il 1975. Dovevo nascere due anni dopo. E può tornare utile rileggerlo per uscire dalla stucchevole polemica su alleati e alleanze di questi giorni:

Mi volete spiegare perché un uomo, un cittadino che da anni vede gli enti pubblici gonfiarsi di racco­mandati, le­noni della politica, imbro­glioni, gabel­loti dei partiti, e vede l’amministrazio­ne onesta paralizzata dalla faida di po­tere a tutti i livelli, e vede le opere pubbliche boicottate e annientate dalla paura che ogni uomo politico nutre ch’essa opera pubblica possa servire al concorrente, e vede i quartieri della città trasformati in lan­de di scorreria per teppisti d’ogni età; perché quest’uomo cittadino che pos­sibilmente è anche povero e galantuo­mo e non riesce a trovare lavoro one­sto, e vede i raccomandati, i lacché, i vassalli poli­tici scavalcarlo continua­mente negli esami, nei concorsi, nel diritto civile alla vita; quest ‘uomo che magari è stato ricoverato una vol­ta in ospedale o vi ha condotto un fi­glio o un padre, e ha visto i topi cam­minare sotto i let­ti, e gli esseri umani agonizzare per­ché mancava un litro di sangue, men­tre duemila, tremila impiegati politici divorano ogni mese miliardi di pubbli­co denaro, quest’uomo povero, fiducioso, perseguitato, che per anni e anni ha votato per la democrazia acca­nendosi a sperare che da una settima­na all’altra, da un anno all’altro, tutto potesse cambiare, e infine ha fanatica­mente votato fascista per esprimere la sua disperazione e nemmeno allora è successo niente, nessuno ha raccolto il monito drammatico.

Perché quest’uomo così ridotto e fe­rito come essere vivente e come cit­tadino ora, in questa occasione eletto­rale, non do­vrebbe votare comunista?

E così per anni e decenni, per mesi e per giorni, e per infinite occasioni, in­finite illusioni e speranze, gli italia­ni (e i catanesi) hanno perdonato e re­stituito la fiducia, e nutrita la speran­za che tutto stesse veramente per cambia­re.

E non è cambiato niente mai, e la disperazione ha preso il cuore di mi­lioni di cittadini, e io questo posso scriverlo onestamente perché la di­sperazione ancora non mi ha vinto.

(21 giugno 1975)

Salerno – Reggio Calabria, la talpa e le ‘ndrine

Un gran bel pezzo di Federico Pignalberi per gli amici di Agoravox:

La procura di Reggio Calabria ha aperto un fascicolo d’indagine per favoreggiamento alla cosca Nasone da parte di almeno un infiltrato nelle forze dell’ordine che ha informato il clan di Scilla sulle indagini in corso per le estorsioni nei cantieri stradali. Lo dimostrano alcune intercettazioni ambientali inedite che AgoraVox pubblica per la prima volta. Intanto, tre giorni fa, il ministro Passera ha presentato il suo rivoluzionario piano per lo sviluppo: la Salerno-Reggio Calabria. “Pronta entro il 2013, ci metto la faccia”, ha detto. Ma su come affrontare le infiltrazioni criminali, nemmeno una parola. Per completare l’ammodernamento dell’autostrada mancano ancora all’appello quasi la metà dei lavori. E la ‘ndrangheta continua a comandare sui cantieri.

L’autostrada A3 non è solo il simbolo dell’inefficienza italiana nel realizzare le opere pubbliche: è l’esempio migliore di cosa vuol dire subire la tirannide delle organizzazioni mafiose e adeguarsi alla loro legge; 495 chilometri di asfalto e cantieri che collegano Napoli a Reggio Calabria, attraversando tre delle regioni più violentate dalle mafie nell’Italia meridionale. È il secondo tronco di quella che chiamano Autostrada del Sole, ma è solo una strada di morte. Dal 1997 al 2002 ha ucciso 47 persone in 2382 incidenti automobilistici. E poi gli operai: ne sono morti sei solo da maggio del 2008 a giugno del 2011. Tutti mentre lavoravano. Alcuni sono caduti dalle impalcature e sono morti per l’impatto col terreno o, nel caso di Salvatore Pagliaro, soffocati in una colata di cemento. Altri hanno avuto un destino non meno orribile. Valerio Vessuti, 21 anni, lavorava per un’impresa di Genova, la Carena, ma era originario di Potenza. Il 24 settembre 2009 stava lavorando alla costruzione di una galleria. Mentre era sul cestello elevatore, un blocco di argilla si è staccato dal fronte di scavo e lo ha colpito alla testa. È morto sul colpo. Un suo collega napoletano meno giovane, Vincenzo Gargiulo, è morto folgorato dalla stessa gru su cui stava lavorando. E tantissimi altri operai sono rimasti feriti, anche in modo grave.

I lavori per l’ammodernamento di questo inferno stradale sono iniziati quindici anni fa. Nel ’98 Enrico Micheli, allora ministro dei lavori pubblici del governo Prodi, prometteva deciso: «Nel 2003 siamo sicuri di completare l’aggiornamento di questa arteria fondamentale». Poi, insediatosi il governo Berlusconi, il Cipe spostava la data di fine lavori al 2005, mentreLunardi, più pessimista, prospettava il 2008, ma nel 2007 l’allora ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro prometteva che i lavori sarebbero stati completati entro il 2009. Nel 2009 i lavori continuavano ancora. Il ministro era Matteoli, che posticipava la loro conclusione al 2012, ma l’Anas lo correggeva: 2013. L’8 giugno scorso l’Anas ha confermato che, almeno in Basilicata, i lavori finiranno entro il 2013, ma c’è chi sostiene che per vedere davvero chiudere l’ultimo cantiere bisognerà aspettare addirittura il 2020.Intanto i costi sono quasi raddoppiati: da 5,8 miliardi di euro previsti nel 2002 a 10,2 miliardi nel 2010. Sergio Rizzo sul Corriere della Sera ha calcolato che per costruire ex-novo la Salerno-Reggio Calabria negli anni sessanta furono spesi 5 milioni di euro a chilometro. Oggi ammodernarla ci verrà a costare 22 milioni al chilometro.I risultati sono sotto gli occhi degli automobilisti: code continue, pochissime corsie di emergenza, cantieri infiniti che riducono la strada a una sequenza di strettoie, aree di servizio inesistenti. E voragini: basta un po’ di pioggia perché si aprano e impediscano ai viaggiatori di attraversare l’autostrada per ore. La protezione civile è di casa sulla Salerno-Reggio. Quasi tutto il territorio attraversato dall’A3 è a forte rischio idrogeologico. Quando piove, le frane sono all’ordine del giorno e le corsie si allagano.

Le responsabilità di questo disastro sono molte. Ci sono i rallentamenti sugli appalti e i subappalti, le gare truccate, i certificati antimafia che vengono revocati. C’è l’Anas che non paga le imprese. C’è un terreno argilloso che costringe a consolidare le gallerie di continuo metro per metro, via via che si scava, per arginare le infiltrazioni d’acqua. E soprattutto ci sono i clan che controllano ogni goccia di calcestruzzo versata. Chilometro dopo chilometro, per tutto il tragitto.

Lungo tutta l’autostrada, la ‘ndrangheta controlla appalti e subappalti. Persino il lavaggio delle lenzuola degli operai delle ditte del nord e del centro Italia che stanno eseguendo i lavori: anche quello finisce in mano alle aziende dei clan. E se una ditta vicino a una famiglia perde la certificazione antimafia e, quindi, il lavoro, subentra al suo posto quella di un’altra famiglia, che lascia i subappalti in mano alle stesse società di ‘ndrangheta che li avevano ottenuti prima.

Per gestire un controllo efficace su un’opera che attraversa confini criminali così diversi, c’è bisogno di mettersi d’accordo. Una sera a cavallo tra il 1999 e il 2000 le ‘ndrine si sono riunite in una contrada semideserta di Rosarno e hanno deciso: su ogni appalto avrebbero avuto diritto a una tassa ambientale, cioè a un pizzo, del 3 per centro. È una regola ferrea, che vale per tutti: appalti, subappalti, forniture. E gli imprenditori pagano. Quasi senza eccezioni. Il 3 per cento è il pizzo equo per tutti: dalle imprese più piccole ai colossi dell’edilizia come Impregilo Condotte. Sono stati proprio questi due giganti imprenditoriali a trovare il modo per pagare le ‘ndrine senza dover ricorrere a fondi neri.

Sulla Salerno-Reggio Calabria il pizzo viene iscritto a bilancio. Si chiama «costo sicurezza». Il dirigente di Condotte che ha inventato questa «strategia aziendale» (testuale) si chiama Giovanni D’Alessandro. «Io su quei margini che escono dai costi di gara, che sono stati forzati, ho inserito una nuova riga, cioè… in cui ho messo un costo fittizio di stima di un tre per cento sui ricavi e l’ho chiamato costo sicurezza Condotte-Impregilo».

Anche Impregilo pagava la ‘ndrangheta. Oggi è il general contractor che ha vinto la gara per il Ponte sullo Stretto di Messina, in altre parole l’azienda che dovrà materialmente costruirlo. E anche per il Ponte ha replicato l’alleanza con Condotte, un colosso delle costruzioni che nel bilancio consolidato del 2010 ha dichiarato un giro d’affari di oltre 740 milioni di euro e un utile netto di 7,6 milioni. Il prefetto di Roma gli avevarevocato il certificato antimafia proprio per le infiltrazioni mafiose nei lavori per la A3. Poi, però, Condotte ha vinto il ricorso al Tar, e oggi ha tutte le carte in regola per continuare a occuparsi dei più grandi appalti pubblici del Paese, Salerno-Reggio inclusa.

Nell’incontro di Rosarno i clan si accordarono anche su come spartirsi il bottino. Ogni ‘ndrina riscuote nel suo territorio di competenza. In provincia di Cosenza se ne occupano le famiglie di Sibari Ai clan del Capoluogo spetta la tratta che va da Tarsia fino a Falerna, all’altezza di Catanzaro. Poi subentrano i clan locali della zona di Lamezia, tra cui gli Iannazzo. Continuando a scendere, l’autostrada si riavvicina al mare all’altezza di Pizzo, dove comanda la cosca Mancuso.Quando si arriva nella piana di Gioia Tauro, si entra in un groviglio di interessi criminali e famiglie di ‘ndrangheta in cui la fanno da padroni i Pesce e i Bellocco di Rosarno, e i Piromalli, una delle più grandi cosche mafiose di tutta l’Europa occidentale. Ma è permesso prendere parte ai lavori anche a clan “minori”, come i Polistena.Da Villa San Giovanni in giù le famiglie locali dividono il loro 3 per cento con i gruppi di Reggio per evitare dissidi. Poco più a nord, invece, sotto Palmi, la spartizione dei soldi delle estorsioni ha causato molto più di qualche disputa. Ha scatenato una guerra di mafia. Una faida che ha visto da una parte i Bruzzise, dall’altra i Gallico che, insieme ai Morgante e agli Sciglitano, non accettavano che i loro avversari fossero stati autorizzati dal boss di Rosarno, Umberto Bellocco, a riscuotere il pizzo sui lavori nella zona di Seminara. Perché controllare i lavori dell’A3 a Palmi è più redditizio che in ogni altro luogo: ci sono ponti, gallerie, più lavori da fare. Un giorno qualcuno, forse il boss Antonino Pesce, disse a Giuseppe Gallico che alla sua famiglia era andata bene, che con l’autostrada a Palmi si sarebbero potuti «sistemare».

Furono gli Sciglitano a subire i primi attacchi, i primi due omicidi, nel 2004. Poi però reagirono, e i Bruzzise ebbero la peggio: cinque morti ammazzati in quattro anni. Solo per due di questi omicidi si è riusciti a dare un nome al mandante: il boss Giuseppe Gallico, oggi sotto processo a Palmi per concorso in omicidio.

Poco più a Sud, appena sotto Sinopoli, l’autostrada passa per Scilla, un paese di cinquemila anime di fronte allo Stretto di Messina. Lì a comandare è la famiglia Nasone. La loro specialità: le estorsioni. E la pirotecnica. Negli anni ottanta misero in piedi più di cento attentati dinamitardi: dopo ogni esplosione arrivava la richiesta estorsiva. E hanno continuato a farlo, anche per i lavori di ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria.

Niente a Scilla deve sfuggire al loro controllo. Nemmeno i furgoncini dei panini. Rocco Callore voleva spostare il suo in una zona del porto dove i Nasone volevano mettere il loro. L’imprenditore aveva chiesto e ottenuto il permesso del Comune, ma non il loro. E la notte tra il 18 e il 19 febbraio scorsi i Nasone gli hanno bruciato il furgone.

Davanti alle forze dell’ordine Callore si è guardato bene dall’indicare sospetti su chi potesse essere stato. Ma suo figlio doveva saperlo bene, visto che pochi giorni dopo è andato a incontrare Francesco Nasone al bar della cosca nella piazza centrale del paese per «sistemare la situazione». In fondo suo padre e lui sono compari. Ma, per Nasone, Rocco Callore è uno di quelli che i legami di «comparato li usa al momento del bisogno». Nasone bussa tre volte per fare il verso a Callore: «Caro compare ho bisogno di questo! Ma poi il compare si dimentica». E minaccia: «Che non si senta che io brucio camion, o brucio macchine, o brucio porte o brucio cose: io affronto le cose faccia a faccia, fino a quando campo io! Fino a che campiamo noi, noi ragioniamo così!».

A fare le spese più pesanti del racket dei Nasone, però, è stata laFondazioni Speciali S.p.A., che ha ottenuto un subappalto per eseguire dei lavori di consolidamento per 850 mila euro sulla A3 all’altezza di Scilla. Hanno aperto i cantieri a luglio del 2011 e in meno di due mesi hanno subito tre danneggiamenti. Il 28 agosto a un impiegato della ditta viene danneggiata l’auto privata. Il capocantiere, che ha capito bene cosa sta succedendo, gli consiglia di «non parlare troppo», di non dire in giro che lavora per la Fondazioni Speciali. «Tu devi fare una cosa Salvo, quell’adesivo che gli hai messo cosi bello carino che si vede lì glielo devi togliere». Spiega, il capocantiere, che prima, quando non serviva, di fronte al recinto c’era una postazione dell’esercito, e che ora che servirebbe come protezione l’hanno rimossa.Poi, per diversi mesi, le acque sembrano essersi calmate. Non per merito, però, delle denunce contro ignoti ai carabinieri: pochi giorni dopo quelle intimidazioni, la Fondazioni Speciali ha accettato di rifornirsi dal bar dei Nasone in paese per la colazione degli operai. Fino a dicembre.Il 3 marzo scorso, allora, il giorno dopo avere messo in piedi un’intimidazione a un’altra ditta che lavorava su altri cantieri dell’autostrada, la cosca si riunisce al solito bar per progettare un nuovo attentato alla Fondazioni Speciali. Gli uomini del clan hanno già fatto dei sopralluoghi, hanno studiato i mezzi per scegliere quale danneggiare. Alla fine decidono di togliere i freni a un compressore e lasciarlo cadere giù per un dirupo. «Là ci sono le ruote, ci sono due pietre. Togli quelle pietre; di qua davanti ha una levetta (incomprensibile) freno a mano (incomprensibile) precipitano di sotto nella strada. Che cazzo ce ne fottiamo!».

Poi pianificano una via di fuga coi motorini, semmai qualcuno capitasse nei paraggi. E una scusa nel caso dovessero essere colti in flagrante. E se i carabinieri non dovessero credere loro, nessun problema: «Che mi interessa? Gli faccio scoppiare in aria!». L’obiettivo della missione è costringere l’azienda a trattare. L’intimidazione deve essere abbastanza grande da spingere gli uomini della Fondazioni Speciali a farsi vivi con i boss. «Io voglio almeno che andiamo al fine di farli venire. Non che io vado e loro dicono: sono stati ragazzini di due anni. Dev’essere un lavoro bello, in maniera da scendere», da farli venire a negoziare. «E se non vengono?». «E se non vengono glieli bruciamo».

Quella notte, il compressore liberato dai freni si schianta contro uno spartitraffico in cemento. La mattina dopo, gli operai della ditta lo trovano semidistrutto. Sopra c’è una bottiglia di plastica piena di una sostanza liquida, tutta avvolta da un nastro da imballaggio marrone. Sembra un ordigno pronto a esplodere, ma la miccia è finta. Serve solo a spaventare.Gli uomini della ‘ndrina però non sono soddisfatti. Quel macchinario non doveva finire sul guard rail: secondo i piani sarebbe dovuto cadere di sotto, nella scarpata. «Non valiamo nulla. Anzi, soprattutto tu non vali niente, perché io – ride, spaccone – io sarei andato. Che cazzo me ne sarebbe fottuto? Io non ho problemi con l’altezza. Io se mi devo buttare da una montagna, mi butto, non ho paura di buttarmi. Posso rompermi le gambe qualche volta. Lì sai cos’è stato? Non è caduto di sotto! Se fosse caduto lì sotto mi sarei divertito di più io!».
Quell’intimidazione non basta a ridurre la ditta a farsi viva. Bisogna tornare sul cantiere. La notte tra l’8 e il 9 marzo alla Fondazioni Speciali viene danneggiato un altro macchinario. Un semaforo finisce sotto la scarpata.Da un po’ di giorni, però, una microspia, che la Procura di Reggio Calabria aveva fatto installare nel bar, stava registrando tutti i colloqui dei boss. Gli inquirenti avevano potuto assistere in diretta al lavoro quotidiano di soprusi ed estorsioni della ‘ndrangheta. Potrebbero continuare a registrare per raccogliere altre prove. Ma c’è un imprevisto. Una talpa tra le forze dell’ordine ha avvertito i Nasone delle indagini in corso. A dire il vero, che ci fossero indagini in corso su di loro e che i magistrati fossero intenzionati a farli arrestare, i Nasone lo sapevano già da novembre. Lo era venuto a sapere Domenico Nasone e lo aveva raccontato a sua cugina Annunziatina che aveva avvertito suo fratello, Giuseppe Fulco, in carcere, dov’era andata a fargli visita accompagnata dalla madre.

Nel verbale di questo colloquio, finora inedito, avvenuto nel carcere di Benevento l’11 novembre scorso e filmato a loro insaputa, la madre dice al figlio detenuto che «è tutto registrato». «Pure in cella», aggiunge la sorella. «Non devi aprire né bocca né niente», lo avvertono.

ANNUNZIATINA FULCO: Quel fatto che ti avevo raccontato io!
GIOIA VIRGILIA NASONE: Tutto
GIUSEPPE FULCO: Uhm
ANNUNZIATINA: Quello che ti ho raccontato io! Che fanno … che volevano fare a Scilla?
GIOIA: (coprendosi la bocca con le mani profferisce) È tutto registrato! 
GIUSEPPE: Come cazzo devo fare i colloqui?
ANNUNZIATINA: Che mi arrestano pure a me! (ride)
GIUSEPPE: E chi te l’ha detto a te?
ANNUNZIATINA: Lo sanno tutti! (incomprensibile) a meno che … gliel’ho detto io non c’era niente di quello che abbiamo che… (omissis) Pure in cella! 
GIUSEPPE: Pure?
GIOIA: Sì, di non aprire né bocca e né niente!
GIUSEPPE: Chi te l’ha detto?
GIOIA: (gesticola facendo capire qualcosa al figlio)
ANNUNZIATINA: Tutti … eh … eh … noi non sappiamo!
GIUSEPPE: Chi l’ha detto?
ANNUNZIATINA: (parla vicino all’orecchio di Giuseppe) MIMMO! (omissis)
GIUSEPPE: E quindi c’è (gesticola con le mani come per dire che sono controllati/intercettati in qualsiasi modo e posto)
ANNUNZIATINA: Sì in tutto!

GIOIA: Sì!
ANNUNZIATINA: Completamente!
GIOIA: Dalla A alla Z!
Non è la prima volta che a Reggio Calabria si scoprono infiltrati dei clan nelle istituzioni. Quando nel 2008 fu trovata una microspia nell’ufficio del pm Nicola Gratteri, gli investigatori sospettarono subito che a nasconderla potesse essere stato un altro magistrato. «Di talpe probabilmente ce n’è stata più di una», aveva detto Ilda Boccassini alla conferenza stampa di presentazione dell’inchiesta Crimine. In quell’operazione sull’asse Milano-Reggio Calabria furono arrestati, per questo motivo, Giovanni Zumbo, un commercialista sedicente appartenente ai Servizi, ritenuto attendibile dai pm, e il gip di Palmi Giancarlo Giusti. Proprio il 26 marzo scorso i poliziotti della Squadra Mobile di Reggio Calabria hanno arrestato un loro collega accusato di avere informato un uomo ritenuto vicino alla cosca Caridi della presenza di microspie nascoste nella sua auto.
La conferma dell’esistenza di una talpa che teneva aggiornato il clan Nasone sull’evoluzione delle indagini, gli inquirenti la hanno il 23 febbraio, quando due affiliati, Pietro Puntorieri e Francesco Libro, si incontrano nel bar della cosca. Il primo racconta all’altro che il “capo”, Francesco Nasone, li ha avvertiti che gli inquirenti stanno li stanno indagando e controllando per poi arrestarli alla prima occasione utile. La microspia della Procura registra tutto. Ecco il verbale della loro conversazione, che AgoraVox pubblica integralmente per la prima volta.
PIETRO PUNTORIERI: (… Franco Nasone) mi fa: “Qualche giorno di questi … non uno … erano questo qua … questo di là … questo di qua … e ci menano … associazione. Fanno quell’articolo (incomprensibile) con il 416-bis ci possiamo andare a ricoverare!” (omissis) E ci ha spiegato tutto. Un bordello di cose ci ha spiegato! (…) Un bordello. E noi zitti Non abbiamo detto nemmeno una parola! Ha preso le cartelle … sue!
FRANCESCO LIBRO: Ah?
PUNTORIERI: Ha preso le cartelle sue: “Vedi? Vedi qua? Solo con (incomprensibile) e lettere(incomprensibile) qua … ed hanno scritto! (…) E che facevano? Niente, una parlata! Associazione! (incomprensibile) persone.” Uno (incomprensibile) sedici, uno (incomprensibile)ventidue… il minore è quattro anni! (incomprensibile) “Vi sto dicendo che dobbiamo stare calmi. Non è che non la dobbiamo fare una cosa, la facciamo. Però dobbiamo stare calmi! Non vedete il bordello che c’è?” (incomprensibile) una faccia!
LIBRO: (…) Vanno cercando questo. Vanno cercando questo: la miccia.
PUNTORIERI: “Vedi, che ti sembra, ora, perché non c’è niente, che puoi. Ti sembra che non sono usciti, che non stanno facendo niente? Stanno indagando qua, quattro (incomprensibile)!Questo con questo, questo con questo… e stanno vedendo i movimenti che facciamo. Loro ci vedono, pure che non ci sono (incomprensibile) dove cazzo vai? Poi scrivono… che cazzo se ne fottono! Tanto scrivono… mandato di cattura, e ti fai due anni. E poi lo vediamo se sei assolto o meno!”
A quanto pare, però, non si aspettavano una cimice proprio nel loro quartier generale. Dopo diversi giorni, gli investigatori decidono di sospendere l’ascolto ed entrare in azione. È troppo pericoloso. Gli ‘ndranghetisti potrebbero venire a sapere della cimice nel locale e scappare prima di essere arrestati. Lo scorso 30 maggio i Carabinieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria hanno arrestato dodici persone del clan, comprese tutte quelle che avevano partecipato alle estorsioni e alle conversazioni nel bar di Scilla. E poi hanno sequestrato i beni della cosca: 32 immobili, conti correnti, polizze assicurative e altri prodotti finanziari per un totale di milioni di euro. I giudici hanno ordinato l’amministrazione giudiziaria anche per il bar della cosca in cui sono avvenute tutte le riunioni e dove è stata nascosta la microspia che le ha registrate.
Secondo le informazioni in possesso di AgoraVox, la Procura di Reggio Calabria ha aperto un fascicolo di indagine top secret per favoreggiamento al clan Nasone da parte di esponenti delle forze dell’ordine. Non è possibile sapere se, ad oggi, ci siano già state iscrizioni nel registro degli indagati o se si stia ancora procedendo contro ignoti. Gli inquirenti stanno conducendo le indagini per identificare l’infiltrato, o gli infiltrati, della ‘ndrina nelle istituzioni con il massimo riserbo e, data la situazione, con un’attenzione particolare alla segretezza, e non lasciano filtrare indiscrezioni.Intanto venerdì scorso, 15 giugno, alla conferenza stampa di presentazione del “decreto sviluppo”, il ministro dello Sviluppo Economico, delle Infrastrutture e dei Trasporti, Corrado Passera, annunciava giulivo la sua ricetta innovativa per riavviare la crescita economica del Paese: la Salerno-Reggio Calabria. E, per non essere da meno dei suoi predecessori, si è anche avventurato in una promessa: «Entro la fine dell’anno prossimo tutti i cantieri della Salerno-Reggio Calabria saranno completati. Ci metto la faccia». Non una parola su come affrontare le infiltrazioni criminali nei cantieri. E i dati ufficiali dell’Anas promettono meno bene di Passera: in quattordici anni dall’avvio dell’ammodernamento della A3 sono stati terminati appena il 56 per cento dei lavori. Il resto manca ancora all’appello. Più di un cantiere su dieci non è nemmeno stato avviato. E, nonostante le tante inchieste giudiziarie, la ‘ndrangheta continua comandare.

Chi ha deciso TAV?

Dedicato a chi ancora non ha capito che cos’è lo “stile Tav-Val di Susa, modello di democrazia e legalità all’italiana. Il Fatto Quotidiano on-line, 13 marzo 2012, di Ivan Cicconi

Se ne sentono di tutti i colori sulla bocca dei sostenitori della Tav Torino-Lione. Il luogo comune più gettonato è il richiamo alle decisioni democraticamente assunte che non possono essere bloccate da una minoranza (per di più violenta). Bene, parliamone, guardando agli atti.

Chi e come ha deciso la realizzazione del “cunicolo esplorativo” per il quale a Chiomonte si sta procedendo manu militari alla occupazione dei terreni sui quali aprire il cantiere per la sua realizzazione?

Nell’avviso pubblico del 2010 con il quale si è avviato il procedimento, LTF dichiara testualmente: “Che il cunicolo esplorativo de La Maddalena è progettualmente necessario ai fini della realizzazione del collegamento ferroviario Torino-Lione che rientra nell’ambito del primo Programma delle Infrastrutture Strategiche di cui alla Deliberazione del 21 dicembre 2001, n. 121/2001 (Legge Obbiettivo) del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE)”.

Il procedimento è stato avviato ai sensi dell’art.165 e 166 del D.Lgs 163/2006 e cioè grazie a “norme speciali”, in deroga a quanto stabilito dalle direttive europee e le norme nazionali di recepimento in materia di opere pubbliche, applicabili alle opere incluse nel “Programma delle Infrastrutture Strategiche” definito con la delibera Cipe 121/2001 e dalle successive modifiche ed integrazioni.

In particolare il comma 9 dell’art. 165 consente di realizzare opere propedeutiche, cunicoli esplorativi, in quanto utili per la definizione del progetto delle opere incluse nella legge obbiettivo. A parte il fatto di considerare una galleria di oltre sette chilometri e del diametro di oltre sette metri un cunicolo esplorativo, la norma (che non ha riscontri in nessun altro paese europeo) affida al Ministro delle Infrastrutture “la decisione ed il rilascio delle autorizzazioni per lo svolgimento delle attività relative, ivi inclusa l’installazione dei cantieri e l’individuazione di siti di deposito”.

Il Ministro in carica nel 2010 era Altero Matteoli, ma pare che la decisione sia in realtà precedente. Infatti questo millantato nuovo progetto (altro ritornello dei pasdaran sitav) non è altro che quello stesso per il quale l’impresa della legacoop, la CMC di Ravenna, tentò l’apertura del cantiere a Venaus nel dicembre del 2005. La nuova galleria della Maddelana che oggi prevede l’imbocco a Chiomonte (guarda caso uno dei pochissimi comuni della valle favorevole alla TAV) anziché a Venaus (contrario alla TAV come la stragrande maggioranza dei comuni) è definita nei documenti depositati da LTF come “Variante della galleria di Venaus”. E che il cantiere che nei prossimi giorni si tenterà di aprire sia lo stesso di 6 anni fa è confermato anche dal fatto che ad aprirlo sarà la stessa impresa alla quale era stato affidato l’appalto per la galleria di Venaus, la CMC di Ravenna.

Chi ha deciso ed autorizzato la realizzazione di questa opera propedeutica per la progettazione della Torino-Lione è stato il Ministro in carica nel 2005, Pietro Lunardi, quello che consigliava la convivenza con la mafia, nessun altro.

A Chiomonte la CMC ancora non si è vista perchè quello presidiato dalle forze dell’ordine è un semplice insediamento militare. Il cantiere forse si tenterà di aprirlo nei prossimi giorni e dunque, forse, arriverà anche la CMC. La Comunità Montana valsusina aveva denunciato alle Autorità competenti anche questa anomalia. LTF dovrà spiegare alla Comunità Montana, e sarebbe il caso alle Autorità competenti, le ragioni per le quali quello che oggi viene millantato come un nuovo progetto viene realizzato dallo stesso appaltatore del vecchio progetto senza alcuna nuova gara e con un prezzo quasi doppio.

I paladini della democrazia la smettano di cianciare di decisioni assunte dalla maggioranza dei cittadini. L’opposizione a quel cantiere, formalmente contestato dalla Comunità Montana, fino a prova contraria, è l’opposizione dei rappresentanti democraticamente eletti dai Valsusini contro un cantiere deciso ed autorizzato da Pietro Lunardi, un ministro tecnico, non votato dai cittadini, scelto e nominato da Silvio Berlusconi.