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I diritti cominciano pretendendoli

Quando si iniziò a chiedere il diritto al divorzio in Italia ci credevano in pochi. Così come avvenne per la fine dell’apartheid negli Usa. Perché i diritti restano sotto la brace per anni, e prima o poi trovano la scintilla

Quando nasce un diritto? Quando viene riconosciuto? Ma no, dai, su. Sessantacinque anni fa Rosa Parks su un autobus a Montgomery, in Alabama, si rifiutò di cedere il proprio posto ad un bianco. Stava tornando a casa dopo aver lavorato tutto il giorno in un grande magazzino come sarta, faceva molto freddo, e non aveva trovato posti liberi nel settore riservato agli afroamericani e per questo decise di avere il diritto di sedersi nel settore dei posti comuni. Salì un uomo bianco che rimase in piedi e l’autista del bus dopo alcune fermate le chiese di alzarsi. Disse di no. Venne arrestata. Iniziò una protesta che poi è storia: il boicottaggio dei mezzi pubblici di Montgomery durò 381 giorni, i tassisti afroamericani abbassarono le loro tariffe a quelli dei bus, le piazze si riempirono di sostenitori. Il 13 novembre 1956, la Corte suprema degli Stati Uniti dichiarò fuorilegge la segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblici poiché giudicata incostituzionale.

Cinquant’anni (e 1 giorno) fa fu approvata la legge che prevedeva il diritto al divorzio alla Camera dopo una seduta parlamentare che durò oltre 18 ore. La riforma era richiesta a gran voce dai movimenti delle donne e dai radicali. Quando si cominciò a chiedere il diritto al divorzio in un Paese clericale come l’Italia non ci credeva quasi nessuno. Nel 1878 ci provò il deputato Salvatore Morelli. Nel 1902 il governo Zanardelli elaborò una proposta che però non venne mai approvata.

La legge sul divorzio fu realizzata durante una stagione di diritti: furono gli anni dell’abrogazione del reato di adulterio (’68), del divorzio (’70), della riforma del diritto di famiglia (’75), dell’aborto (’78), dell’abrogazione del delitto d’onore (’81). Ne siamo usciti migliori.

Il punto è proprio questo: i diritti cominciano nel momento in cui si comincia a pretenderli. Non è vero che non siano mai esistiti prima: semplicemente non esisteva qualcuno capace di dire “no” e poi di moltiplicare la sua pretesa. E accade così ancora oggi, ogni volta che qualche conservatore ci vorrebbe dire che ci si “inventa” diritti. I diritti sono lì, sotto la brace per anni, e prima o poi trovano la scintilla. Ed è una brace da tenere con cura perché passano gli anni ma continuano a insistere quelli che vorrebbero negarli, i diritti, esattamente come decenni fa.

Disse Fanfani in merito al referendum sul divorzio, il 26 aprile 1974 a Caltanissetta: «Volete il divorzio? Allora dovete sapere che dopo verrà l’aborto. E dopo ancora, il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva».

Gli auguriamo di avere avuto ragione.

Buon mercoledì.

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Fratoianni a TPI: “Una patrimoniale per combattere le disuguaglianze. Altro che mazzata, così il ceto medio risparmia”

In un emendamento alla Legge di Bilancio firmato da deputati di Leu e del Pd si chiede l’abolizione dell’Imu e dell’imposta di bollo sui conti correnti e di deposito titoli, per sostituirle con un’aliquota progressiva minima dello 0,2% “sui grandi patrimoni la cui base imponibile è costituita da una ricchezza netta superiore a 500 mila euro”. I primi firmatari sono Nicola Fratoianni, che fa parte della componente di Sinistra Italiana in Leu, e Matteo Orfini, della minoranza Pd. Le opposizioni insorgono ma anche nella maggioranza in molti storcono il naso. Per TPI abbiamo intervistato Nicola Fratoianni.

Onorevole Fratoianni, sulla cosiddetta “patrimoniale” si sono sollevate subito le reazioni. Se le aspettava?
“Reazioni peraltro un po’ scontate. Come ha osservato più di qualcuno ‘patrimoniale’ è parola impronunciabile nella scena politica italiana. Tutto contro ogni ragionevolezza e perfino contro le idee di molti supermiliardari: Forbes nel luglio di quest’anno ha pubblicato la lettera di 83 miliardari che chiedono ai loro Paesi di introdurre tassazioni stabili e significative sulle loro grandi ricchezze. Tutto sulla base di un argomento molto chiaro e molto semplice: noi non possiamo fare chissà cosa ma abbiamo molti soldi e quei soldi possono risolvere molti problemi, non solo le emergenze drammatiche di questa fase della pandemia ma anche le crescenti disuguaglianze che costituiscono un problema non solo per chi le subisce ma anche per chi ha grandi ricchezze”.

Qualcuno dice che fissare un limite di 500mila euro è un azzardo. “Basta avere ereditato una casa in una grande città”, si legge in giro. Come risponde?
“Non è così. Non ne faccio colpa ai cittadini che non conoscono la norma. Primo: riguardo la questione immobiliare che viene usata contro questa norma occorre non confondere il valore commerciale con il valore catastale dell’abitazione. La nostra proposta, come tutte quelle che intervengono sulle questioni patrimoniali, si riferisce al valore catastale, quindi a chi dice che in alcune città il valore al metro quadro supera i 3mila euro basta rispondere spiegando questo punto. Se qualcuno ha una casa con un valore catastale superiore ai 500mila euro è difficile che abbia particolari difficoltà. In ogni caso le nostra proposte sono progressive, partendo dallo 0,2% da 500mila a 1 milione di euro e poi via via crescendo fino ad arrivare al 3% per patrimoni superiori al miliardo di euro. E poi ci si riferisce a persone fisiche, per cui se marito e moglie sono comproprietari di una casa quel valore si divide”.

E il secondo punto?
“Secondo: oltre a introdurre aliquote progressive, facciamo l’operazione di riordino di quella giungla di micro interventi patrimoniali, come l’Imu anche sulla seconda casa e la famosa imposta Monti (lo 0,2% sui depositi finanziari e sui titoli che non era progressivo). Quindi il ceto medio – ammesso che esista ancora – potrebbe perfino risparmiare”.

L’hanno stupita le reazioni all’interno del Partito Democratico, Zingaretti incluso?
“Sono molto contento che diversi parlamentari del PD abbiano appoggiato questa proposta, ma non mi stupisce la reazione complessiva del PD come quella del Movimento 5 Stelle. Questo è un momento in cui c’è una subalternità culturale sul tema delle tasse e dei patrimoni e sulla disuguale distribuzione della ricchezza. Il mantra ripetuto in ogni occasione è che le tasse sono troppe e vanno abbassate ma le tasse non sono troppe in sé: sono troppe su chi le paga e sono poche sulle grandissime ricchezze. Sono distribuite in modo diseguale. Faccio osservare che nei decenni la tassazione sui redditi ha conosciuto una brusca contrazione delle aliquote diminuendo la progressività. Questo significa favorire i redditi altissimi e penalizzare quelli più bassi. Bisogna proteggere i piccoli patrimoni e chi ha acquistato una casa dopo anni di lavoro o chi ha ereditato una casa (non certo a Roma o a Milano) che ha uno scarso valore commerciale e pesa sullo stipendio. Bisogna uscire da questa stagione di subalternità culturale: se uno usa sempre le parole dell’avversario è difficile poi sconfiggere il suo racconto pubblico”.

Nel pieno della pandemia è un buon momento per affrontare questo tema?
“Il momento buono è da molto tempo, oggi ancora di più. La pandemia ha messo in risalto la fragilità di un sistema di organizzare il lavoro, le vite, l’economia e del nostro welfare. Ha disvelato l’imbroglio del primato della privatizzazione nella tutela della salute. E la pandemia, come ogni grande crisi, ha evidenziato l’aumento della disuguaglianza: c’è chi ha visto crescere ancora e significativamente i propri patrimoni e chi si è trovato in difficoltà. Quindi questo è il momento della discontinuità nelle scelte e nel linguaggio per immaginare un mondo diverso da quello a cui siamo abituati, che spesso ci è stato presentato come l’unico mondo possibile”.

Sui giornali e sulle televisione la proposta è diventata “la proposta di Orfini”…
“Va benissimo così. Sono il primo firmatario ma non ho problemi di primogenitura, mi interessa aprire una discussione”.

Leggi anche: Il linguaggio dei banchieri centrali: come è cambiato negli anni e quanto è capace di influenzare i mercati

L’articolo proviene da TPI.it qui

“Quello che mi resta di mamma morta di Covid? Un sacchetto con le sue cose infette”, la terribile storia di Moira

Una foto che gronda solitudine, un sacchetto rosso appoggiato per terra con gli indumenti e gli effetti personali della madre morta di Covid all’Irccs Policlinico San Donato. Moira Perruso, che di mestiere è una giornalista ma si occupa anche di fotografia, ha condiviso quel momento sul suo profilo Facebook: «Ai miei piedi ciò che mi restituiscono di mia madre… Non posso nemmeno buttarmi a capofitto su quegli abiti per sentire ancora una volta il suo odore, sono infetti… Per chi nega, per chi specula, per chi non ha protetto: che possiate sentire anche voi il rumore del cuore in frantumi». In poco tempo sul suo post si sono accavallate centinaia di testimonianze di persone che hanno vissuto lo stesso dolore.

«Il post è nato – mi racconta Moira – perché ho chiamato l’ospedale, volevo indietro le cose di mia madre, la sua fede nuziale, una collanina che indossava sempre e che le avevamo regalato noi. “Posso riavere gli oggetti di mia mamma?”, ho chiesto. Quando sono arrivata al Policlinico, al settimo piano del reparto Covid un infermiere mi ha adagiato il sacchetto, con anche i suoi vestiti, e mi ha chiesto una firma. Quel momento mi si è fissato negli occhi e ho voluto fotografarlo perché era un fatto emotivo personale ma anche un fatto pubblico, qualcosa che sta accadendo a migliaia di persone. Solo oggi ho ricevuto centinaia di mail di figli che hanno ritirato così le cose di un genitore. Mia madre stava bene, cresceva i nipoti, tutta una vita messa ai miei piedi. In quel momento mi sono detta: come si fa a negare questa evidenza? Come si fa a dire: “Non muori per Covid ma muori con il Covid”».

Già, questo gioco di frugare tra le parole per sminuire. Mia madre è morta di Covid, mia madre stava bene e ora è un mucchio di vestiti infetti. Capisco anche i medici, non hanno il tempo fisico per trattare il dolore, non possono anche curare “l’umano”, ma io ho avuto il cuore in frantumi. Mi è stata negata anche la “liturgia” della morte, non ha potuto indossare quel maglione rosso che amava, nessuno che la teneva per mano. Era una donna riservata e dignitosa. Ora quando mi addormento la penso sigillata dentro un sacco. Ma come si fa a non avere la responsabilità di proteggere il prossimo? Non possiamo pensare di dare colpa alla politica se non siamo responsabili come individui. La giustizia non è una delle virtù cardinali? Moira ce l’ha con i negazionisti.

Non si può negare, non è più tempo, non si può dire che i Pronto Soccorso sono vuoti, non si può avere il coraggio di dire che le ambulanze girano vuote. Il negazionista cos’ha? Paura della morte? Da che cosa è afflitto? Becera ignoranza? Il mio dolore non è un complotto. Mi è stato negato il diritto di seppellire mia madre e non so nemmeno dove sia in questo momento. Mi è stata negata anche la morte, di mia madre. Sono arrivate tantissime testimonianze. Forse c’è bisogno di parlare del dolore, se ne parla ancora troppo poco. Sì, si sta parlando troppo poco del dolore, nella narrazione si trascurano le persone. I protocolli tra ospedali cambiano: mio padre (anche lui malato di Covid) è all’Humanitas e mi chiamano tutti i giorni per aggiornarmi sulle sue condizioni di salute mentre per mia madre ho dovuto implorare dopo otto giorni di sapere qualcosa, poi mi hanno detto che l’avrebbero svezzata e che andava tutto bene, poi le hanno messo il casco poi la morfina, poi è morta.

Non l’ho più sentita. Ma questa cosa me l’hanno raccontata un migliaio di persone, che è anche una responsabilità, per me. Ho l’immagine di mia mamma terrorizzata che si sarà chiesta che fine avrà fatto la sua famiglia. Lei mi ha accudito per 50 anni e io non sono stata capace di accompagnarla nella morte. Lo so, è una roba scontata, ma dov’è lo straordinario nel dolore? È un momento in cui siamo di fronte a un fatto che sta cambiando il mondo e il nostro modo di affrontare il dolore. E forse chi nega semplicemente ha una paura fottuta.

L’articolo “Quello che mi resta di mamma morta di Covid? Un sacchetto con le sue cose infette”, la terribile storia di Moira proviene da Il Riformista.

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L’ultimo stadio del populismo: il risultato non ci piace? Ci inventiamo brogli e cancelliamo la democrazia

Il bamboccione, il vero bamboccione, è quel ragazzo attempato che guida una superpotenza mondiale e ieri è riuscito nella mirabile impresa di svolgere la peggiore conferenza stampa di questi ultimi anni in una cosiddetta democrazia. Il ragionamento di Trump, come tutti i ragionamenti semplici di chi è incapace di affrontare la complessità, è basico e feroce, come quello dei bamboccioni, e si srotola tutto nel ritenere il potere un proprietà privata che contiene tutto: presidenza, favor di popolo e persino la democrazia e tutti i suoi meccanismi.

I nuovi populisti, che ci auguriamo vengano spazzati via presto se basta un Biden per spodestarli, sono dalla parte del popolo solo se il popolo è dalla loro parte poiché si riempiono la parola della parola “patria”, ma l’unica patria che riconoscono sono loro stessi, perfino i propri elettori sono semplicemente un ingrediente fastidioso e detestabile che serve solo per raggiungere lo scopo. E così Trump che ci parla di “brogli alle elezioni” senza uno straccio di prova e che legge come voti utili solo i voti che riguardano se stesso sono l’ultimo stadio del populismo che ci ha infettato tutti, da parecchi anni, e che passa dalle più disparate e screanzate teorie che permettono di restare a galla (o di illudersi di restare a galla come nel caso di Trump) senza nemmeno assumersi l’onere della prova.

Trump sta disfacendo la credibilità degli Usa nel mondo senza nessun senso di responsabilità nei confronti dell’onore del suo Paese, quell’onore di cui si è riempito la bocca per tutti questi anni fingendo di parlare di Usa quando in fondo era solo una proiezione della propria identità. E siccome sono personaggi fragili, fragilissimi, riescono a misurarsi solo con la ricchezza e con il potere che hanno conquistato senza mai riuscire a fare i conti con un’eventuale sconfitta.

Un presidente Usa che viene perfino censurato dagli algoritmi social per le sue strampalate teorie senza né capo né coda è un bamboccione che ha già perso, è quello che grida dall’ultimo banco per farsi notare, è quello che dice “la palla è mia ora non si gioca più”, solo che lo fa nelle vesti di presidente di una superpotenza mondiale. Trump ha a disposizione tutti i mezzi per verificare e per raccontarci la regolarità delle elezioni: lo faccia, indaghi, porti i numeri, presenti i fatti. Ma no, non accadrà perché questi sono solo la loro narrazione, in sostanza non esistono e quando la narrazione si incaglia sanno solo svoltolare. Come bamboccioni.

Leggi anche: 1. Il golpe mediatico (con fanfara) di Trump / 2. Altro che trionfo di Biden. Ancora una volta sondaggi e opinionisti hanno toppato alla grande / 3. “Il voto in Usa ci dice che Trump non è un fenomeno passeggero”

ELEZIONI USA 2020: I REPORTAGE DI PIETRO GUASTAMACCHIA PER TPI DAGLI USA

  1. Viaggio nel Bronx: “Io, repubblicano italo-irlandese, voglio sconfiggere Ocasio-Cortez e il suo socialismo”
  2. “La polizia ci spara addosso, l’America capitalista ci sfrutta. Ora noi neri spacchiamo tutto”: reportage da Philadelphia
  3. Elezioni Usa, viaggio in Pennsylvania: “Qui ci si gioca tutto. Se Biden vince, sarà presidente”

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La folle tesi di Salvini su Lamorgese “colpevole” per l’attentato di Nizza

Ecco che tornano a grandi falcate gli sciacalli, Salvini e Meloni, che vanno a braccetto su ciò che è accaduto a Nizza. Salvini ovviamente svetta e chiede le dimissioni della ministra Lamorgese perché, a suo dire, sarebbe colpevole del fatto che l’assassino di Nizza sarebbe sbarcato a Lampedusa e sarebbe stato identificato a Bari e poi non rimpatriato. La banalizzazione ovviamente in qualche modo funziona e così è tutto un rimbalzare di questa nuova trovata per cui addirittura l’ex ministro dell’Interno, senza nemmeno un briciolo di imbarazzo, si ritrova a chiedere scusa alla Francia gettando fango sul suo Paese (quello che da patriota vorrebbe difendere) per un’accusa che ha dell’incredibile.

Ora proviamo a ribaltare il giochetto, che tanto viene facile facile: Matteo Salvini dunque, da ministro dell’Interno, è colpevole del minimo storico di rimpatri con la Tunisia (lui che li aveva promessi e non è stato nemmeno capace di fare meglio dei ministri precedenti) e quindi anche dell’omicidio di don Malgesini, visto che il prete è stato ucciso da un uomo non rimpatriato proprio sotto l’epoca Salvini? Oppure, sempre continuando sulla falsariga del giochetto retorico di Salvini: Anis Amri, autore della strage al mercatino di Natale a Berlino nel 2016, sbarcò nel 2011 e venne trattenuto in Italia con Berlusconi presidente del consiglio e Maroni ministro agli Interni, quindi sarebbe colpa loro, evidentemente?

Il tema è sempre lo stesso: banalizzare questioni complesse per un po’ di propaganda è l’unico esercizio retorico che riesce a questa destra che è la peggiore destra di sempre. E ci sono pure quelli che abboccano e riescono a esultare per l’acutezza dell’osservazione dei due sovranisti. Ah: ovviamente Salvini ci ha messo dentro anche il suo processo, è riuscito perfino a fare anche questo, poiché per lui il mondo si riduce a se stesso, i suoi (pochi) pensieri e i suoi problemi. Tutto così, sempre così.

Leggi anche: 1. La nemesi di Salvini: quello che mangia in diretta tv contestato anche dai ristoratori / 2. Ora basta: dichiarate Forza Nuova fuorilegge, e lasciate le piazze a chi soffre e protesta civilmente

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Le sta sbagliando tutte

Matteo Salvini non fa proposte concrete e dimostra di non avere una strategia sull’emergenza pandemia. E continua a inanellare una serie incredibile di figuracce

Ieri nel Consiglio regionale lombardo, settima commissione ore 10/10.30 volano stracci in casa Lega: Massimiliano Bastoni insulta Salvini ma non si accorge di avere il microfono accesso. Il presidente di commissione Terzani lo rimprovera insieme a Paola Romeo (Forza Italia). Una scena meravigliosa ma indicativa. Eccolo qui:

Il piccolo incidente però è indicativo. Matteo Salvini le sta sbagliando tutte e sono in molti ormai nella Lega che glielo stanno facendo notare. Una premessa: governare un Paese in tempi di pandemia, con tutte le decisioni difficili da prendere, costa moltissimo in termini di consensi. Accade negli Usa con Trump, accade in Francia con Macron, accade in Brasile. Indici di gradimento che sono in continua discesa e le opposizioni che risalgono prepotentemente. È il gioco della politica da sempre: governare costa in termini di consenso e farlo in un periodo di incertezza e di crisi sanitaria ancora molto di più.

Lui no. Lui, Matteo Salvini, è riuscito a passare dal 37% dell’agosto 2019 al 24,3% dell’ultimo sondaggio e continua a inanellare una serie incredibile di figuracce. Ieri mattina è corso dal suo presidente della Lombardia Fontana perché diceva non condivideva il lockdown notturno pensato dal presidente della Lombardia. Ha anche sparato la solita tiritera sulla libertà: «le limitazioni delle libertà personali mi piacciono poco e devono essere l’ultima spiaggia», ha detto prima di entrare nel palazzo della Regione. Ne è uscito scornato. Fontana è rimasto sulla sua posizione e pace per il leader leghista.

Badate bene: Salvini è lo stesso che 15 giorni fa diceva che non ci fosse nessun bisogno di prolungare lo stato di emergenza. Anche in quel caso aveva parlato di scelta politica non suffragata da dati sanitari: in 15 giorni è stato seppellito dalla realtà.

Del resto è lo stesso  che questa estate ha rilanciato più volte l’ipotesi del professore Zangrillo che dichiarava il virus “clinicamente morto”. Com’è andata a finire lo sappiamo bene: perfino Zangrillo ha dovuto tornare sui suoi passi. Salvini ovviamente ha fatto finta di niente, come al solito. A fine luglio Salvini aveva partecipato al convegno dei negazionisti, proprio con Zangrillo e Sgarbi. Riascoltare oggi quello che dicevano in quei giorni fa venire la pelle d’oca.

E ve lo ricordate a febbraio, quando fece quel video in cui disse “riaprire, riaprire tutto, tornare alla libertà”, pochi giorni dopo il paziente uno di Codogno? Ecco, poi ci sono stati i morti e le bare di Bergamo. Ha fatto sparire il video dai suoi social ma poi ci era ricascato ancora. Senza contare tutte le volte che si è esibito fiero senza mascherina, fino a che perfino i suoi supporter lo hanno duramente criticato ed è stato costretto a cambiare rotta.

Due giorni fa si è lamentato perché il presidente del consiglio Conte aveva telefonato alla coppia Fedez e Ferragni per chiedere di sensibilizzare i giovani sull’uso della mascherina e lui, pensando di fare una bella figura, ha detto ai giornali «a me ha fatto solo una chiamata di 40 secondi negli ultimi mesi». Ora, pensateci un secondo: quale sarebbe la strategia di Salvini? Non c’è. Proposte concrete non ce ne sono.

Certo perdere consensi di questi tempi è un capolavoro di inettitudine e tra i suoi (Zaia in testa) sono in molti a dirlo sottovoce. Almeno c’è di buono che non ce lo siamo ritrovati come ministro. Almeno questo.

Buon giovedì.

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Fino a ieri ha sbeffeggiato il Coronavirus ora Trump (positivo) si affida alla scienza

Non è nemmeno stato capace di twittare l’informazione esatta: il presidente USA Trump annuncia di essere risultato positivo al Covid-19 e non al Coronavirus, non riuscendo a distinguere il virus dalla malattia che sviluppa. Ma non stupisce, certo, no. Del resto è lo stesso Trump che ha sbeffeggiato (come molti altri suoi colleghi leader mondiali, spesso di una certa parte politica) il Coronavirus fin dall’inizio, annunciando al mondo che c’era troppo allarmismo e che non avrebbe certo indossato la mascherina.

È lo stesso Trump che era riuscito a farsi rimuovere un post da Facebook e Twitter scrivendo che aveva “sentito” (ha scritto proprio così, come quelli che parlano di voci che circolano al bar) che i bambini fossero immuni. Falso, ovviamente. È lo stesso Trump, ve lo ricordate, che durante una conferenza stampa consigliava ai medici iniezioni di disinfettanti e candeggina sui malati di Covid-19. Alcuni suoi sfegatati supporter lo presero addirittura alla lettera e vennero ricoverati.

Sono forti questi negazionisti a capo dei Paesi più potenti del mondo: passano dal negare al virus al suggerire cure (per un virus che non dovrebbe esistere) e infine si ammalano. Ma non è tutto, no. Trump è riuscito anche a condividere sui suoi social un tweet in cui si sosteneva che i Centers for Disease Control and Prevention avevano “tranquillamente aggiornato il numero dei morti di Covid, ammettendo che solo il 6% delle vittime riportate – circa 9000 – sono decedute davvero per il Covid”. Il resto “aveva 2-3 altre gravi malattie”. L’informazione arrivava direttamente da un seguace delle teorie cospirazioniste QAnon, gli stessi che raccontano di un network internazionali di satanisti pedofili (tra cui Hillary Clinton e Obama, tanto per capire il livello della ridicolaggine) che insieme a reti di “poteri forti” (eccallà) starerebbero agendo contro il presidente USA.

Poi si passa all’idrossiclorochina che proprio Trump ha dichiarato essere una cura valida per la prevenzione: “ne prendo una al giorno da una settimana e mezzo, cosa c’è da perdere?”, aveva dichiarato il presidente. Niente, nemmeno questo. Poi c’è stato l’annuncio di un vaccino entro la fine dell’anno (smentito da tutti) e proprio qualche giorno fa durante il dibattito televisivo Trump ha scanzonato il suo rivale Biden sull’uso della mascherina: “Ho qui la mascherina. La metto quando serve. Mica come Biden, che la usa sempre”. Probabilmente era già infetto. Intanto negli USA si registrano più di 7 milioni di casi e 208mila morti. E si è ammalato anche lui. Ben fatto, Donald. Ora, come sempre, si affiderà alla scienza che ha deriso fino a ieri.

Leggi anche: 1. Il presidente Usa Donald Trump e la first lady Melania positivi al Covid-19: “Siamo in quarantena, ce la faremo”; // 2. Chi è Hope Hicks, la consigliera di Trump che potrebbe aver contagiato la coppia presidenziale; // 3. Trump positivo al Covid, da Pence a Biden chi è esposto al contagio; //4. Slogan rimasticati, insulti e un arbitro debole: il match senza il colpo del KO tra Trump e Biden (di Giampiero Gramaglia); // 5Ecco perché queste saranno le elezioni più importanti della storia americana (di Iacopo Luzi, inviato TPI a Washington)

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Politicamente colpevole

Matteo Salvini è colpevole di aver inventato una guerra contro gli ultimi, usato la paura come arma politica, sdoganato il fascismo di ritorno. E non serve una sentenza di un tribunale per capirlo

Sarà il fine settimana del processo a Salvini, ci sarà il leader a sbraitare (lo sta già facendo da tempo) e tutti i suoi fan a inondare televisioni e social, tutti continuamente decisi a trasformare un processo giudiziario in un’arma politica, come sempre, da sempre, in questa politica italiana che si aggrappa ai giudici per avere lezioni etiche e morali, confondendo i due piani a proprio piacimento e sventolando i processi a favore o contro in base alle proprie convenienze. Matteo Salvini ha consegnato la sua difesa, anticipandola, qualche giorno fa a Barbara D’Urso (fate un po’ voi): il leader leghista sa bene che quel processo può essere un capitale da sfruttare fuori dall’aula giudiziaria. Allora lasciando da parte la sfida in punta di diritto conviene comunque tenere a mente qualche ragionamento che sarebbe il caso di ripetere, per l’ennesima volta.

Matteo Salvini è colpevole di avere usato delle persone per spingere una trattativa politica. Anzi: Salvini è colpevole di usare gli stranieri per fare politica. Non serve una sentenza di un tribunale per ripetere le centinaia di volte in cui ha usato un singolo fatto di cronaca nera per riproporlo come paradigma di un mondo. Salvini usa le persone: usa i suoi detrattori per dare sfogo alla sua folla, usa addirittura i presunti assassini perché è incapace di ragionamenti complessi sulla sicurezza, ha usato un citofono privato per fare campagna elettorale e ha usato i naufraghi della Gregoretti (perché erano naufraghi, va ricordato) per trattare con l’Europa, lo scrive lui stesso nella sua difesa in cui dice di averli tenuti alla deriva in attesa della conferma dei ricollocamenti. Un politico che ha bisogno del corpo dei disperati per trattare sui tavoli politici è colpevole di inettitudine e ferocia.

Matteo Salvini è colpevole di avere inventato una guerra contro gli ultimi. E proprio di guerra si tratta: se nella sua difesa dice di avere “difeso” la Patria significa che l’arrivo di quelle persone metteva a rischio la sicurezza nazionale. È un linguaggio sottile che poi esplode nella violenza verbale dei suoi sostenitori.

Matteo Salvini è uno dei mandanti morali del razzismo dilagante in Italia. Come Trump qualche giorno fa Salvini, da anni, non condanna il razzismo per accarezzarlo. Matteo Salvini ha sdoganato nelle sue liste i peggiori xenofobi (e fascisti) che si siano visti negli ultimi anni. Matteo Salvini ha inventato un “razzismo al contrario” contro gli italiani usando lo stesso furbo trucco che venne già usato nel corso della storia.

Matteo Salvini è colpevole di usare la paura come arma politica, ed è una vigliaccheria. Come scrive Jean-Paul Sartre nel suo libro L’antisemitismo – Riflessioni sulla questione ebraica, il razzista «è un uomo che ha paura. Non degli ebrei, certamente: ma di sé stesso, della sua coscienza, della sua libertà, dei suoi istinti, delle sue responsabilità, della solitudine, del cambiamento della società e del mondo; di tutto meno degli ebrei… Sceglie la permanenza e l’impenetrabilità della pietra, l’irresponsabilità totale del guerriero che obbedisce ai suoi capi, ed egli non ha un capo. Sceglie di non acquistare niente, di non meritare niente, ma che tutto gli sia dovuto per nascita – e non è nobile. Sceglie infine che il Bene sia bell’è fatto, fuori discussione, intoccabile… L’ebreo qui è solo un pretesto: altrove ci si servirà del negro o del giallo».

Matteo Salvini è colpevole di avere sdogano il fascismo di ritorno. L’ha fatto furbescamente iniettando un po’ di antiantifascismo e ogni volta finge di non avere consapevolmente eccitato gli animi di certa destra eppure ai suoi comizi sono rispuntati coloro che fino a ieri si vergognavano di essere fascisti e invece oggi lo gridano fieri.

Questo al di là della sentenza sulla Gregoretti. Perché sarebbe ora di prendersi la responsabilità di dare giudizi politici, senza aspettare processi.

Buon venerdì.

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Demonizziamo l’assassino di Lecce senza renderci conto che l’invidia è diventata il motore di quest’epoca

Il presunto omicida di Daniele De Santis e della sua fidanzata Eleonora Manta a Lecce avrebbe confessato di avere agito perché “erano troppi felici e per questo mi è montata la rabbia” (qui le virgolette sono d’obbligo poiché la frase è stata riportata da fonti investigative ed è ancora tutto da appurare) e subito si è scatenata una ridda di criminologi e esperti di ammazzamenti che frugano nella vita del ragazzo per raccontarci tutti i suoi lati presumibilmente oscuri. La demonizzazione dell’assassino è una catarsi meravigliosa: più lo dipingiamo lontano da noi, meno assomiglia a noi e più ci sentiamo in pace con noi stessi.

Stupisce però che ci si stupisca dell‘invidia senza rendersi conto che è il motore politico e sociale di quest’epoca, invidia intesa come il soffrire del bene (o spesso del bene percepito) degli altri per rifocillare un’identità fragile. Perché la domanda “perché lui sì e io no?” è in fondo la domanda delle domande di un certo ragionamento sociale e politico che qui sembra andare per la maggiore. L’invidioso che non è contento di sé e che percepisce il bene dell’altro come una diminuzione di se stesso è lo stesso che si lamenta ogni volta che ci si batte per i diritti di qualcuno a cui lui non sente di appartenere (gli altri possono essere gli stranieri, la casta, i percettori del reddito di cittadinanza, i dipendenti pubblici e un’infinità di altre categorie).

Su una certa malsana invidia si è scatenato un certo populismo di questi anni che punta a maledire e smontare ciò che viene vissuto come più in alto piuttosto che proporre ragionamenti complessi. Sull’invidia tra poveracci si basa tutta la retorica di chi ha instillato una guerra tra disperati convincendoci che erodere i diritti degli altri garantisca i nostri diritti. Come oggetti di invidia sociale si propongono alcuni modelli culturali che mostrano inaccessibili stili di vita.

Poi l’invidia diventa risentimento e infine rancore e così si accende la guerra (e talvolta la violenza) di cui infine ci stupiamo. Scriveva Paul Valéry: guardando bene, si scopre che nel disprezzo c’è un po’ di invidia segreta. Considerate bene ciò che disprezzate e vi accorgerete che è sempre una felicità che non avete, una libertà che non vi concedete, un coraggio, un’abilità, una forza, dei vantaggi che vi mancano, e della cui mancanza vi consolate col disprezzo”. Nietzsche scriveva di una versione più feroce dell’invidia come gioia maligna che porta a godere del male dell’altro.

Siamo sicuri che l’invidia sia solo una mostruosa eccezione da relegare all’omicidio di Lecce? Perché il giorno che decideremo di non demonizzare, non deridere, non compiangere, non disprezzare ma comprendere le azioni umane forse riusciremo ad aprire un dibattito più proficuo e interessante.

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Chi votava il clan Di Silvio?

Una sentenza della Corte d’Appello di Roma conferma che il clan Di Silvio, che quattro anni fa si occupò della campagna elettorale a Latina e a Terracina, è un clan mafioso

C’è una sentenza che è sparita dai giornali e dai telegiornali ma è piuttosto interessante: l’altro ieri la Corte d’Appello di Roma ha confermato ciò che disse la Direzione distrettuale antimafia romana e ciò che scrisse a Roma lo scorso anno la giudice per l’udienza preliminare Annalisa Marzano: il clan Di Silvio, che quattro anni fa si occupò della campagna elettorale a Latina e a Terracina è un clan mafioso. La Squadra Mobile arrestò 25 persone tra esponenti di primo piano e picciotti del clan e nove imputati, tra cui tre figli del presunto boss Armando Di Silvio, hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato: 74 anni di carcere in primo grado, ridotti a 50 in appello.

Ma qui viene il bello: nell’inchiesta “Alba Pontina” sono state descritte attività di estorsioni, prestiti usurai, intestazioni fittizie di beni, traffici di droga ed episodi di corruzione elettorale e proprio tra gli episodi di corruzione elettorale si legge che il cosiddetto clan dei Di Silvio di Campo Boario, avrebbe fatto affari nelle campagne elettorali, con l’attacchinaggio di manifesti per la Lega e comprando anche voti.

Chi hanno votato?

Secondo la sentenza di primo grado Latina è una città “strategica negli affari illeciti”, dove la collettività sarebbe “assoggettata all’egemonia dell’associazione che è indubbiamente di tipo mafioso”, e l’associazione mafiosa sarebbe stata “capace di controllare il territorio anche influenzando il voto della comunità locale”, con “una straordinaria forza intimidatrice, che ha assoggettato intere categorie di professionisti e di imprenditori locali”.

Ora Salvini è impegnato a fare la vittima sacrificale per il suo prossimo processo, quello in cui si illude di avere difeso “la Patria” non si capisce bene da chi, ma la domanda al leader leghista è una e semplice: per chi votavano i Di Silvio? E che ne dice? Siamo curiosi.

Buon martedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.