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Bellezza: che figuraccia di festival

È in programma a Verona dall’11 al 19 settembre il Festival della Bellezza  di cui stanno parlando un po’ tutti in queste ore. L’organizzazione è riuscita a compiere un piccolo capolavoro: per parlare di eros e bellezza ha pensato giustamente di invitare solo maschi, tutti maschi. Evidentemente, come troppo spesso accade da noi, si ritiene che non ci sia una donna in grado di parlare dell’argomento. Riuscire a infilare 24 oratori per parlare di bellezza e eros tutti di sesso maschile richiede un certo sforzo, effettivamente (l’unica donna, Gloria Campaner, accompagna al pianoforte l’intervento di Alessandro Baricco).

Giustamente ieri Michela Murgia si chiedeva se gli invitati non avessero nulla da eccepire, se non sia il caso di cominciare a prendersi la responsabilità di dare uno sguardo al programma prima di accettare un invito (lo fece qualche tempo fa il ministro Provenzano, che infatti declinò). Del resto i dati ufficiali dicono che nei festival italiani la presenza femminile si attesta intorno al 15%. E non è roba di cui andare fieri.

Ma non è tutto. L’organizzazione del festival ha cercato di difendersi dicendo che le “molte figure femminili” che erano state invitate “non se la sono sentita di intervenire in un periodo difficile, in un contesto particolare come l’arena di Verona”. Capito? Le donne si sono impaurite, evidentemente.

Ma non è tutto. Guardando i programmi degli ultimi anni si scopre che dal 2014 solo otto donne sono salite sul palco dell’Arena e del teatro romano di Verona per partecipare alla rassegna.

Ma non è tutto. L’anno scorso in un’intervista Alcide Marchioro, direttore artistico del Festival della Bellezza, rispondeva alle critiche sulla poca presenza femminile (già l’anno scorso, eh) diceva: “è più complesso con le figure di donne intellettuali. Trovare le persone adatte a sostenere un palcoscenico davanti a quasi duemila persone non è facile: il pubblico deve sentirsi coinvolto e il protagonista deve essere a suo agio”. Alla grande.

Ma non è tutto. L’immagine usata per pubblicizzare il festival è una donna (per la precisione una bambina) e l’artista autrice dell’opera, Maggie Taylor, ha espresso tutta la sua indignazione per quell’immagine che è stata usata senza il suo consenso aggiungendo di esser stata sconvolta dalla scelta di utilizzare una bambina, dato che quest’anno il tema della rassegna sarà l’eros.

Beh, alla grande direi, no? La misoginia ha radici profonde, in giro un po’ dappertutto, difficili da sradicare.

Buon giovedì.

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Chi difende Willy? Se a uccidere un bianco fossero stati 4 neri sarebbe scoppiato il finimondo

Eppure ci sono dentro tutti gli elementi della propaganda salviniana: c’è una zona che, a detta degli stessi abitanti che la abitano, è completamente sfuggita al controllo delle forze dell’ordine, una zona di quartiere e spaccio, una zona dove spesso accadono atti di violenza. Una zona franca, direbbe Matteo Salvini, che è sempre pronto a prendere parola quando accadono cose di questo tipo. Ci sono persone dedite allo spaccio, alla violenza, che fieramente si mostrano in tutta la loro prepotenza sui loro canali social. I due fratelli Marco e Gabriele Bianchi vengono raccontati come ragazzi che sfociavano spesso nell’uso delle mani, forti della loro preparazione sportiva e di un pensiero in cui la forza diventa una virtù da esibire con cura.

Cè tutta la vigliaccheria di chi se la prende con un ragazzo di 21 anni, Willy Monteiro Duarte, che ha avuto la sfortunata idea di provare a difendere un amico, la sua colpa sarebbe tutta qui, ha avuto l’ardire di sedare una rissa che invece era un fiume di violenza inarrestabile e che si sarebbe sfamato solo con la morte. L’hanno ucciso a calci e pugni, a mani nude, come un in brutto video di quelli che circolano in rete. E Willy era un ragazzo come tanti, con il sogno di giocare nella Roma di cui era tifosissimo e con la passione della cucina. Giovani, italiani, spacciatori, picchiatori, pregiudicati. Sono il prototipo dei nemici di Matteo Salvini, solo che quelli contro cui sbraita Salvini ogni volta devono essere neri e invece questi, per sua sfortuna, sono bianchi.

Ora immaginate questa notizia invertita: immaginate gli editoriali, immaginate i politici sbraitare, immaginate l’emergenza sicurezza scritta su qualche prima pagina, immaginate le pelose descrizioni di quello che rischiamo, immaginate il leader leghista accusare il governo, le istituzioni, magari organizzare una bella fiaccolata. E invece sulla tragedia di Willy non si dice niente, non esce niente. Il caso di Colleferro contiene tutti gli ingredienti per raccontare che la violenza non ha un’etnia, non ha un colore e non ha una fede religiosa e notare la differenza di trattamento che questa notizia ha rispetto alle altre simili è una cosa che fa rivoltare lo stomaco. Invocano sicurezza tutti i giorni, ma hanno bisogno che i protagonisti corrispondano ai loro pregiudizi. Altrimenti non se ne fa niente, questa morte non è usabile, è da scartare, da cacciare via.

Leggi anche: 1. “Vi prego basta, non respiro più”: la testimonianza di una donna che ha visto morire Willy / 2. “Sognava di diventare come Totti”: chi era Willy, il 21enne ucciso dal branco a Colleferro / 3. Dal culto per le arti marziali ai precedenti per spaccio: chi sono gli aggressori di Willy Monteiro

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Lettera ai negazionisti: “Venite a Lodi a tenere i vostri comizi davanti a orfani del Covid”

Oggi è il giorno in cui anche l’Italia si accoda ai negazionisti in piazza, per non essere meno con la cretinità del mondo. Oggi è il giorno in cui alle 16 in piazza Bocca della Verità a Roma ci sarà l’annunciata manifestazione contro la “dittatura sanitaria” orchestrata, come accade in quasi tutto il mondo, dalla destra più destrorsa, quella del pregiudicato Giuliano Castellino e che raggruppa come sempre accade, tutti quelli che per mancanza di profondità delle proprie opinioni ha bisogno di negare, di aizzare i complotti, di disegnare un fantasioso mondo da combattere, tutti presenti con gli accoliti di Forza Nuova, i No Vax, i No Mask, l’arruffato provocatore Vittorio Sgarbi e perfino l’indimenticato ex M5S Davide Barillari.

E mi sarebbe tanto piaciuto andarci, essere invitato, avere avuto l’occasione di intervenire anch’io per raccontargli la storia di quelli che il Covid l’hanno vissuto. Gli avrei raccontato, ad esempio, di cosa abbia significato vivere a Lodi nel momento in cui Lodi era la ferita più sanguinante del Paese, quando l’unica colonna sonora di giornate schiacciate dalla paura erano le sirene delle ambulanze che incessantemente, come una goccia che ti fa impazzire il sonno, passavano sotto le mie finestre a qualsiasi ora del giorno, in una macabra e lenta processione che ancora adesso risuona e ci lascia storditi, che ci accomuna mentre camminiamo per strada.

Avrei voluto raccontargli che qui il Covid, dalle nostre parti, è stata una tagliola che ha cambiato la geografia della città, che ha disegnato assenze nei nostri luoghi abituali, che ha spazzato via le stesse persone con cui dividevamo gli aperitivi. Avrei voluto raccontargli di coetanei che hanno avuto nel giro di pochi giorni entrambi i genitori rinchiusi dentro i sacchi senza nemmeno il tempo di sentirsi arrivare addosso il lutto, con partenze che sono state sparizioni. Avrei potuto raccontargli la difficoltà di parlare ai nipoti, spiegargli che i nonni sono partiti e non tornano più perché la morte spazza via certe generazioni.

Avrei potuto raccontargli del lutto che ancora oggi si respira nella piazza e nel corso, come una nebbia ancora prima della stagione della nebbia. Gli avrei proposto di venire qui, da noi, a dire che è tutto finto, a parlare di un’invenzione dei poteri forti, di tenere i loro comizi guardando negli occhi gli orfani, senza abbassare lo sguardo, senza sentirsi gli usurpatori di carogne che sono. Vedere se davvero riuscirebbero a non vergognarsi.

Leggi anche: 1. Coronavirus, a Roma la manifestazione dei negazionisti No Mask / 2. Forza Nuova, Sgarbi, Povia: negazionisti Covid in piazza a Roma. “Contro la dittatura sanitaria”

3. Berlino, corteo negazionisti Covid sciolto dalla polizia: “Mancato rispetto norme anti-contagio” /4. Coviddi (non) ce n’è: la crociata negazionista degli anti-virus

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La deputata Aiello a TPI: “Lascio il M5S, vanno avanti solo i soliti nomi”

La deputata Piera Aiello ha lasciato oggi il Movimento 5 Stelle pur continuando la sua attività di parlamentare. L’abbiamo intervistata per comprendere meglio la sua scelta.

Perché questa decisione di abbandonare il M5S? Quali sono le cose che l’hanno delusa?
Ero partita con un’idea ben precisa: quella di aiutare la categoria a cui appartengo, i testimoni di giustizia ma anche quella dei collaboratori e degli imprenditori vittime di racket e di usura. Quando io ho messo a disposizione la mia esperienza trentennale sono rimasta inascoltata, nessuno mi dava contezza di quello che si stava facendo. Molti testimoni, collaboratori e imprenditori si sono rivolti a me fiduciosi poiché sono nella commissione parlamentare antimafia e pensavano che io avessi il potere di aiutarli. Ma io quel potere non ce l’ho, non l’ho mai avuto e non l’ho cercato. Il potere adesso ce l’ha sicuramente Crimi che ha le deleghe al ministero con la commissione ex articolo 10 e quando io porto avanti le richieste di aiuto non vengo nemmeno sentita. Non mi sento valorizzata. L’ho sempre detto: non ho mai preteso nessun posto apicale ma la cosa che pretendevo di più era quella di essere ascoltata sulla base della mia esperienza. A me interessava poter aiutare le persone che mi chiedevano aiuto. E questa è stata la mia prima delusione. Io non sono un animale politico, sono una persona molto semplice, una donna del popolo cerco di risolvere le problematiche e da quello che ho visto problematiche non si risolvono.

Cosa non è stato fatto per i testimoni di giustizia che invece andava fatto?
I testimoni di giustizia alcuni sono stati auditi ma da quello che mi risulta non è stata risolta nessuna situazione, né economica e né di sicurezza. Andava fatto questo prima di tutto, mettere in sicurezza i testimoni e non fargli correre rischi inutili, come è capitato a Marcello Bruzzese, fratello di un testimone di giustizia, ucciso il 25 dicembre 2018 in una località protetta. Doveva essere una località sicura ma così non è stato. Molti corrono ancora questo rischio. Non è stato fatto nulla, non si sono risolte situazioni che sono incancrenite da moltissimi anni. Tante promesse ma nulla di fatto.

C’è stata un’effettiva involuzione del Movimento in questi anni?
Il movimento è cambiato, non rispecchia più il pensiero di Casaleggio, vedi il terzo mandato per la Raggi, cosa ci si deve aspettare che lo tolgano del tutto per far candidare i soliti?
È pentita della sua scelta della politica?
Non sono pentita della scelta che ho fatto, sono delusa, ma comunque faccio tesoro di tutto, metto un punto e vado avanti.

Ora inevitabilmente partiranno gli attacchi, le richieste di dimissioni, le accuse di tradimento: come risponde?
Si ho visto gli attacchi, me ne farò una ragione. A tutti quelli che pensano che rimango in parlamento dico che prima di entrare in politica ero un’impiegata regionale, la mia famiglia non se la passa poi male perché lavoriamo tutti onestamente, resto per completare il lavoro che ho iniziato in antimafia, resto perché ho depositato due leggi, una su testimoni e collaboratori l’altra su imprenditori vittime di racket ed usura, leggi che ha oggi sono insabbiate, che non vanno avanti, che sarebbero state il fiore all’occhiello. Sinceramente non mi sembra di aver tradito nessuno, direi il contrario, non ho intenzione di abbassare la testa davanti a nessuno, non lo ho fatto trent’anni fa con i mafiosi, non lo faccio adesso. Nella sua vita si è ritrovata sempre a prendere scelte che sono state coraggiose e che le sono costate molto dal punto di vista personale.
Crede che la politica sia pronta per dare il giusto spazio a testimonianze come la sua?
La politica è pronta se fa un programma forte contro le mafie, se tutto questo non viene preso in considerazione non andremo avanti, la criminalità e dappertutto, specialmente dove ci sono i soldi, questo lo abbiamo già costatato e lo costerneremo con l’arrivo dei soldi per l’emergenza Covid.

Ha intenzione di continuare comunque il suo percorso politico? Se sì, come?
Come dicevo prima ultimo i lavori iniziati difendendoli a spada tratta, anche se non ho un simbolo di appartenenza non vuol dire che non posso continuare, anzi direi che non avendo le mani legate, non stando agli ordini di scuderia, posso fare meglio e informare i cittadini di ciò che succede in parlamento.

Leggi anche: 1. Piera Aiello, storia della prima testimone di giustizia italiana, eletta con il M5S / 2. La deputata Piera Aiello dice addio al M5S: “Non mi rappresenta più”

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Governare l’incertezza

Ci ripetono che dobbiamo convivere col Covid. Ma il governo fatica a dare risposte chiare, a partire dalla scuola. Mentre l’opposizione propone di “tornare come prima”. Come se il virus non esistesse più

La sfida è esattamente questa: governare l’incertezza. E l’incertezza è un sentimento che rende un popolo irrequieto, inevitabilmente spaventato, che rende difficili le giornate e soprattutto che rende complicata la programmazione. E questa epoca, così ferocemente incastrata al millimetro, ci chiede di essere perfettamente programmati, noi, le nostre giornate, i nostri figli, i nostri affetti, i nostri mestieri, i nostri rapporti, le nostre cose. E la sfida, lo si diceva già in tempi non sospetti, è esattamente questa.

Nel dibattito tra catastrofisti e negazionisti sembra sparita la via di mezzo: convivere con il virus, che è quello che ci continuano a ripetere, non è per niente semplice se non c’è una guida chiara con regole certe e con limiti definiti. Accade con la scuola, ad esempio: non sapere cosa accadrà a scuola e come si muoverà la scuola a poche settimane dall’inizio (ma inizierà davvero?) ripropone quello stesso sentimento che ha appiattito anche sentimentalmente e dal punto di vista vitale molte persone durante il periodo del lockdown: intorno a un figlio c’è tutta un’organizzazione famigliare che coinvolge moltissimi elementi e che modifica le proprie abitudini. E sarà così anche per il lavoro, che in questo periodo vacanziero è sparito dal dibattito pubblico e invece si riproporrà con forza: milioni di persone aspettano di sapere se avranno un rinnovo di contratto e le loro aziende cercano di leggere un mercato che rimane con la spada di Damocle del virus.

Il fatto è che ci avevano detto che avremmo dovuto imparare a convivere con il virus e invece qualcuno propone come soluzione quella di tornare esattamente come prima, come eravamo prima quando non ci ammalavamo mica se qualcuno ci respirava in faccia in un posto qualsiasi. E noi la convivenza con il virus, mesi dopo, non abbiamo ancora imparato nemmeno a immaginarla, non sappiamo darle una forma e un nome e continuiamo a aspettare che passi, banalmente, semplicemente.

Eppure governare l’incertezza e leggere il presente e il futuro è esattamente il compito della politica: è la stessa politica che ha avuto sei mesi (sei mesi) per programmare il ritorno nelle aule e che non ci ha spiegato nulla di più dei banchi, che sono ancora oggi l’argomento principe della discussione. Intanto dall’altra parte l’opposizione insiste nel dire irresponsabilmente “torniamo come prima”.

Ed è una discussione che diventa tifo, così bassa, così triste, così pericolosa.

Buon venerdì.

 

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Sardegna, mentre i contagi aumentano Solinas fa lo scaricabarile col governo (in stile Fontana)

Ricomincia lo scaricabarile e sarà un storia che durerà ancora per molto: mentre in Italia destano preoccupazione i casi di importazione di Covid che stanno facendo alzare il numero dei contagi giornalieri, ora le Regioni partono all’attacco del governo lamentando ritardi e incomprensioni. Sembra di essere tornati ai tempi dello scontro tra governo e Lombardia, quando il presidente Fontana chiudeva qualcosa in meno rispetto ai decreti governativi o apriva qualcosa in più tanto per farsi notare, giusto per chiarire che esistono anche loro.

L’ultimo attacco arriva dalla Sardegna e diventa ancora più incomprensibile alla luce delle testimonianze che arrivano dall’isola, dove al di là delle discoteche ormai chiuse si nota una movida (come in quasi tutte le località vacanziere) assolutamente fuori controllo. Il governatore della Sardegna, Christian Solinas, in un’intervista al Corriere della Sera chiarisce che “la Sardegna non ha mai avuto una circolazione virale autoctona”. “Tutti i casi – dice – sono di importazione o di ritorno, persone già positive testate una volta giunte in Sardegna o sardi infettati durante le vacanze all’estero”.

Come se ancora una volta il punto centrale sia quello di trovare un untore piuttosto che governare una situazione con cui si dovrà convivere probabilmente ancora a lungo, almeno fino all’arrivo del vaccino. Solinas rimarca la sua ostilità al governo: “Se il governo – dice – avesse accolto il modello che avevo proposto già mesi fa per accompagnare l’ingresso sull’isola di ciascun passeggero con un certificato che attestasse l’esito negativo del tampone, oggi non ci sarebbe la recrudescenza del virus”.

E, quando gli si fa notare che i controlli sono partiti solo ad agosto inoltrato, il governatore risponde: “Questo deve chiederlo a Roma. Quando noi lo abbiamo proposto a maggio, tutti si sono stracciati le vesti, attaccandomi con una violenza inaudita da tutti i fronti: politico, mediatico e scientifico”. E siamo al punto di partenza, ancora una volta, dopo tutti questi mesi: nonostante il ministro Boccia insista nel dire che il grado di collaborazione tra governo e Regioni è alto, continuiamo ad assistere al sovranismo del contagio, alla rivendicazione dell’uno contro l’altro come in una brutta operetta con tutti gli attori in commedia, con strali lanciati sui giornali piuttosto che nelle sedi opportune. Con la politica che diventa solo polemica. E mentre la polemica infiamma le diverse fazioni il virus gira, continua a girare.

Leggi anche: 1. Dopo i runner e i migranti, tocca alla discoteche: perché siamo sempre a caccia dell’untore? (di G. Cavalli) / 2. Il Governo decida: conta più la salute o il lavoro? (di G. Cavalli)

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Il Governo decida: conta più la salute o il lavoro?

Coronavirus, il Governo decida: conta più la salute o il lavoro?

Proviamo a stare un po’ più alti, ad alzarci da questa discussione che si è accesa sulle discoteche che dovrebbero essere i nuovi avamposti della libertà. Siamo d’estate, d’estate le persone si sono mosse e per fortuna si è mossa l’economia, quell’economia che è rimasta stagnante durante il lockdown ed è terrorizzata dal ritorno della seconda ondata del Coronavirus.

Lasciate perdere i milionari che ci insegnano dai loro troni cosa sia il lavoro o dai patetici ballerini che vorrebbero costruire una nuova resistenza sulla libertà di ballare. Parliamo dei lavoratori, quelli veri, quelli che con il proprio mestiere mantengono la propria famiglia a fatica e che a fatica si stanno trascinando in questo anno di pandemia, sono loro che ci interessano, sono loro che spariscono da questo assurdo dibattito di questi giorni. I governi, mica solo quello italiano, hanno deciso che quest’estate dovesse essere apparentemente normale con tutta la normalità che si può pensare con un virus sopra la testa. È una scelta legittima ma si gioca su un equilibrio sensibile, un equilibrio che richiede un’ampia riflessione etica: salute contro lavoro, sostentamento economico contro nuovi contagi.

Il Covid impone con forza uno dei vecchi dissidi su cui la politica si deve misurare: ha più valore il lavoro o la salute, conta di più non morire di virus o non morire di fame, qual è l’equilibrio esatto? Perché in fondo l’estate italiana è tutta qui, in una stagione che non ci si poteva permettere di perdere e che comunque inevitabilmente avrebbe provocato un innalzamento dei contagi. Forse una politica più alta, più onesta, più capace discuterebbe di questo, a carte scoperte, decidendo da che parte stare e ponendo dei paletti etici su cosa è giusto e cosa no, su cosa possiamo tollerare e cosa no.

È una decisione squisitamente politica che andrebbe discussa mettendoci la faccia. Alzano Lombardo e Nembro, ne abbiamo le prove, non sono state chiuse per non fermare le fabbriche della zona e abbiamo visto come è andata a finire. Il tema si riproporrà per diverse attività produttive finché non sarà finalmente pronto un vaccino e l’argomento su cui ci spenderemo nei prossimi mesi sembra difficile da inquadrare nel suo complesso con una chiave di lettura collettiva, così ci si perde nei particolari e si perde il senso generale. Ed è una discussione chiave perché finché non si capisce che si sta parlando di questo i poteri economici potranno agire più facilmente sotto traccia. Parliamo di questo, parliamone chiaramente.

Leggi anche: 1. Coronavirus, le nuove decisioni del governo: discoteche chiuse in tutta Italia e mascherine anche all’aperto dalle 18 alle 6 / 2. Chiusura discoteche, Sileri a TPI: “Si è scelto il principio di massima precauzione” / 3. Santanché a TPI: “La mia discoteca resta aperta, l’unica cosa vietata è ballare” / 4. Il proprietario del Papeete a TPI: “La chiusura delle discoteche una mossa per sabotare la campagna elettorale” / 5. Dopo la denuncia di TPI sui mancati tamponi agli italiani positivi tornati da Mykonos, la replica di Ats Milano: “Raddoppieremo disponibilità” / 6. Covid, Crisanti a TPI: “Altro che discoteche, la vera mazzata dei nuovi casi arriverà con l’apertura delle scuole”

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Lo strabismo di Salvini

Non è una barzelletta. Lo ha detto sul serio: Per impedire che il coronavirus si diffonda, vanno chiusi i porti e non le discoteche

Fermi tutti, c’è un vincitore. Dice Salvini che chiudere le discoteche e prendersela con i giovani non ha senso. E uno si domanda: perché non ha senso? Risponde Salvini: perché bisogna chiudere i porti. E uno si domanda: e che c’entrano i porti con le discoteche? Niente di niente. Ma c’entra Salvini.

La propaganda sovranista finalmente ha trovato un gancio dove appoggiare il suo maiale sgozzato: i casi di positività al Covid di alcuni migranti sbarcati ha reso possibile il solito martellante, incessante logorio di propaganda di Salvini, Meloni e di tutta la loro allegra brigata. Avviene quello che accade ogni volta che un nero compie un reato: prenderlo, amplificarlo e renderlo un manifesto politico.

Così mentre il mondo (e le persone serie) si occupano di come risistemare la vita in tempi di Covid, avendo il coraggio di prendere decisioni strutturali che non si perdano dietro all’ultimo tweet indignato, da noi è una gara al “sempre uno più di te” come i bambini che giocano a trovare il numero più grosso.

Peccato che lo strabismo di Salvini in questo caso sia ancora più lampante. Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, ha detto al Corriere della Sera: «A seconda delle Regioni, il 25-40% dei casi sono stati importati da concittadini tornati da viaggi o da stranieri residenti in Italia. Il contributo dei migranti, intesi come disperati che fuggono, è minimale, non oltre il 3-5% sono positivi e una parte si infettano nei centri di accoglienza dove è più difficile mantenere le misure sanitarie adeguate». L’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) scrive: «Dall’inizio dell’emergenza a oggi sono state meno di un centinaio le persone straniere giunte irregolarmente via mare in Italia e trovate positive al nuovo coronavirus. Il numero va confrontato con i 6.469 migranti sbarcati sulle coste italiane tra inizio marzo e il 14 luglio. In tutto, dunque, solo circa l’1,5% dei migranti sbarcati è risultato positivo. Da non dimenticare inoltre che le positività sono state certificate su gruppi di migranti che avevano condiviso la stessa imbarcazione durante il viaggio, dando credito all’ipotesi che un numero significativo di essi si sia infettato nel corso della traversata».

C’è dell’altro: tutti i migranti che sbarcano vengono sottoposti a tampone e quarantena. Pratica che risulta difficile invece negli aeroporti. E poi c’è la chicca finale: racconta Salvini di una ex caserma in provincia di Treviso dove dei migranti ammassati sono risultati positivi in larga parte e che il sindaco della città voglia fare causa al governo. E chi ha voluto concentrare i migranti in vecchie caserme demolendo l’accoglienza diffusa? I decreti Sicurezza. Di chi? Di Salvini.

A posto così.

Buon martedì.

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Le lezioni scolastiche? In discoteca

Il punto è sempre lo stesso: rifiutare la complessità, sempre, comunque, ostinarsi a banalizzare tutto, sempre, comunque, trovare particolari da rivendere come se fossero la fotografia del tutto e soprattutto, come nei peggiori trucchi, trovare un colpevole, sempre.

Il governo italiano si muove per serrare le discoteche. Il 16 agosto dell’anno 2020 della pandemia. Basterebbe scriverlo così per rendersi conto che c’è qualcosa di sbagliato se stiamo viaggiando su e giù per l’Italia (e per fortuna) in treno distanziati indossando la mascherina, c’è qualcosa di sbagliato se il teatro e lo spettacolo dal vivo continuano a essere pericolosamente claudicanti, quasi morti, c’è qualcosa di sbagliato se gli infermieri e i medici continuano a chiederci di ascoltarli e nel frattempo nelle discoteche italiane ci si può sudare addosso con la mascherina sotto il mento.

Perché i controlli in questa estate italiana non ci sono stati. Meglio: sono stati pochi. Infinitamente pochi se si pensa che siamo quello stesso Paese che qualche mese fa andava alla ricerca dei corridori solitari sulla spiaggia con tanto di drone e di esercito. Ma ve lo ricordate?

No, purtroppo siamo il Paese con il ricordo breve, corto, spesso distorto. E così il periodo del lockdown è diventato carne fresca per i complottisti ma ha perso tutta la sua eredità sociale e sentimentale. È tutto passato, non c’è più niente anzi forse non è mai esistito: il discorso Covid l’abbiamo chiuso così, come i bambini che strizzano gli occhi sperando di riaprirli e non c’è più la paura.

E mentre il governo richiude le discoteche (e ci dirà che è colpa “solo” delle discoteche, secondo la stessa logica di banalizzazione che ci ha portato a mirare coloro che portavano in giro il cane) ora si può ricominciare a sentirsi tranquilli. Chiuse le discoteche e tutto a posto.

Nel frattempo, tra le persone da ascoltare, ci sono i dirigenti scolastici che mi scrivono di avere rinunciato alle vacanze per girare classe per classe con il metro in mano, di avere provato a progettare la didattica integrata e di avere passato mesi a rispondere ai “monitoraggi urgenti” richiesti dal governo che dovevano essere pronti per il giorno successivo. Lo so, non se ne legge in giro, già. Eppure la riapertura della scuola è in imbarazzante ritardo e tra poco scoppierà il bubbone, appena si finisce questa risibile polemica sulle discoteche. E via così.

A pensarci bene i nostri ragazzi potrebbero studiare in discoteca, senza sudare, senza ballare. No?

Buon lunedì.

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Ma cos’è stata Sant’Anna di Stazzema?

Lo racconta un superstite. Enio Mancini aveva 6 anni.

Non avevo ancora compiuto sette anni all’alba di quello splendido sabato estivo; niente faceva presagire ai circa quattrocento abitanti di Sant’Anna e agli oltre mille sfollati che si trattasse di un cupo giorno di terrore e di morte, il giorno del massacro di cinquecentosessanta vittime innocenti, delle quali circa centocinquanta erano bambini sotto i quattordici anni.

Mio padre aveva scorto le colonne naziste che scendevano dai passi montani sui borghi di Sant’Anna.

Prima di andare a nascondersi con gli altri uomini nel bosco, ci sveglio’ e ci invito’ a mettere in salvo la nostra “roba”.

Pensavamo si trattasse di un rastrellamento e temevamo l’incendio delle nostre case, come era avvenuto nel vicino paese di Farnocchia.

Nessuno immaginava che donne, vecchi e bambini avessero a subire violenze.

Poco dopo ecco entrare in casa un gruppetto di S.S., indossavano la tuta mimetica, erano armati fino ai denti e portavano l’elmetto sul capo; notammo che due nascondevano il volto con una specie di maschera e parlavano come noi.

Ci buttarono letteralmente fuori, non permettendoci di prendere nemmeno gli zoccoli e, mentre alcuni con strani attrezzi che lanciavano lunghe lingue d fuoco incendiavano la casa, altri ci condussero sull’aia che dominava il borgo di Sennari.

Li’ trovammo gia’ molte persone, ci addossarono contro un muro di una casa e iniziarono ad installare, su un poggio sovrastante, degli strani attrezzi, tipo treppiedi.

Qualcuno comincio’ a piangere e ad implorare per la disperazione; una vecchina, forse per ingenuita’ o per sdrammatizzare il momento, disse di non preoccuparci che forse stavano per farci una fotografia.

Quando anche la mitragliatrice fu montata e lo sgomento e la paura erano ormai generali, arrivo’ nell’aia un ufficiale tedesco, forse un generale, che imparti’ degli ordini in tedesco: “Raus… Valdicastello”, ripeteva.

Le spregevoli belve con il volto mascherato tradussero: l’ordine era quello di scendere verso Valdicastello.

Al nostro nucleo familiare si erano aggiunti la nonna materna, la zia e gli altri.

Scendendo, passammo davanti alle nostre case, ormai quasi completamente incendiate (si udiva ancora il muggito della mucca rimasta intrappolata nella stalla).

Decidemmo di non ubbidire all’ordine di scendere a Valdicastello, ma di nasconderci nei pressi, con la speranza di poter fare presto ritorno alle nostre case per salvare il salvabile.

Ci nascondemmo in un anfratto naturale che si trovava nella selva, duecento metri sotto casa.

Dopo circa mezz’ora si udirono quelle voci gutturali che si avvicinavano al nostro nascondiglio; lo sgomento fu totale, ci videro, erano una decina, alzammo le mani in segno di resa.

Ci incolonnarono e ci spintonarono lungo il sentiero che portava verso il centro del paese, verso la chiesa di Sant’Anna.

Malgrado le pedate e i colpi coi calci dei fucili nella schiena, si riusciva a procedere molto lentamente.

Alcuni, infatti, erano scalzi ed il sentiero era pieno di rovi e ricci di castagno.

Ad un certo punto decisero di proseguire (sembrava avessero molta fretta), lasciando di guardia un solo soldato che, nel frattempo, si era tolto l’elmetto dal capo; era molto giovane, quasi un adolescente e non ci faceva piu’ tanta paura.

Quando il gruppo dei tedeschi scomparve dalla nostra vista, il giovane soldato comincio’ ad impartirci degli ordini, che non capivamo, ma ci faceva anche dei gesti eloquenti.

Questi si’ erano facilmente intuibili: ci diceva di tornare velocemente indietro.

Salimmo il ripido pendio, si udi’ una scarica di arma automatica che ci fece trasalire, ci girammo di scatto temendo che ci stesse sparando addosso ed invece imbracciava il fucile verso l’alto e sparava verso le fronde dei castagni.

Si continuo’ a salire verso Sennari, mentre sul versante opposto, verso la chiesa, si udivano in un frastuono generale crepitio di spari, scoppi di bombe, tetti di case che crollavano, lamenti di animali che stavano bruciando vivi nelle stalle e poi si scorgeva il fuoco ed il fumo nero che proveniva da ogni direzione, da ogni borgo del paese.

Non ci rendevamo pero’ conto di tutto quello che realmente stava accadendo.

Giungemmo a casa poco prima delle dieci e tutti ci adoperammo per salvare dal fuoco quella parte non ancora completamente distrutta.

Ci sembrava cosa gravissima aver perso gran parte della nostra roba e soprattutto la mucca che, in quel periodo, ci aveva permesso di sopravvivere.

Verso le cinque del pomeriggio, pero’, la tremenda notizia.

Un giovane della borgata, allontanatosi al mattino con gli altri uomini per nascondersi nei boschi e che, al ritorno, aveva attraversato il centro e gli altri borghi, arrivo’ a Sennari urlando, sembrava impazzito: “Una strage! Sono tutti morti! Sono bruciati!” ripeteva.

Lasciammo le nostre case che ancora fumavano per correre verso il centro, verso la chiesa.

Ogni gruppo andava la’ dove abitavano i propri congiunti, i propri parenti.

Passammo al “Colle”.

Ne avevano uccisi diciassette (una ragazza, ferita, ed un uomo anziano si erano miracolosamente salvati sotto il cumulo dei cadaveri).

Arrivammo alle “Case” dove abitavano i nostri parenti: cadaveri sparsi dappertutto, rovine, fuoco e i pochi sopravvissuti impietriti dal dolore.

In una casa, sventrata dal fuoco, su una trave che ancora ardeva – incastrata – una rete di un letto e sopra tre corpi quasi completamente consumati.

Al nero dei tessuti carbonizzati faceva contrasto il bianco dello scheletro; uno dei corpi era piccolo, il corpo di un bambino.

E poi l’odore acre, intenso, della carne arrostita.

Una nonna, per fortuna, riprese noi bambini per riportarci verso Sennari.

Avevamo visto molto, troppo per la nostra tenera eta’.

Una esperienza drammatica che segna per sempre un’esistenza, ma comunque meno tragica di altri giovani ragazzi sopravvissuti nell’eccidio che, feriti o incolumi, videro massacrare i propri cari.

Poi ci fu il dopo, ma quella e’ un’altra storia.

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