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presidente della repubblica

Berlusconi, ancora, torna

Piccoli segnali di un riavvicinamento che continua a essere nell’aria: il provvedimento salva Mediaset è un emendamento confezionato su misura per l’azienda di Silvio Berlusconi, proprio come ai bei (brutti) tempi in cui l’azienda del leader di Forza Italia e il suo destino giudiziario erano il centro di tutta l’attività politica. L’ha firmata la senatrice del Pd Valeria Valente e poi quando è scoppiata la vicenda (poco, a dire la verità) il ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli (badate bene, uno di quei grillini che Berlusconi lo vedevano come fumo negli occhi) ha dovuto ammettere di avere scritto lui la norma, anche se ha scaricato parte della “colpa” sul ministero dell’Economia guidato da Roberto Gualtieri. In sostanza lo scopo è quello di neutralizzare i voti di Vivendi, la holding azionista di Mediaset, per non disturbare la strategia aziendale della famiglia Berlusconi. Ben fatto.

Lui, Silvio, gioca a fare il moderato (e gli viene facile, di fianco a Meloni e Salvini) e punta all’empatia come ai vecchi tempi. Se notate nessuno ci dice che potrebbe essere “utile”, vorrebbero farci credere che sia diventato “inoffensivo” come se questo bastasse a cancellare tutti i disastri contro la democrazia che ci ha lasciato nei suoi anni di attivismo politico. È un moto basato su una sorta di “perdono” e che serve soprattutto ad avere i senatori che permettano di essere tranquilli con i numeri e aprire la trattativa sull’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.

Che nel bel mezzo dei morti, dei danni di certo populismo, della fame che attanaglia le persone, dell’incertezza, dei soldi che mancano per arrivare a fine mese, dei lavoratori che faticano a poter immaginare il proprio futuro, del paternalismo a quintali che ci viene riversato ogni giorno, si giochi per riavviarsi a Berlusconi curando gli interessi della sua azienda è qualcosa che avrebbe fatto strepitare gli strepitanti a lungo. Solo che in questo caso gli strepitanti sono suoi alleati e quindi si rimettono a cuccia mentre gli altri sono al governo. E Berlusconi, ancora, ritorna.

Buon lunedì.

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Calabria, il Governo non usi Gino Strada per nascondere i suoi vergognosi errori

Povera Calabria. Povera terra che ostinatamente prova a sopravvivere a una classe dirigente che si occupa soprattutto di essere diligente con i propri padroni piuttosto che con i propri compiti, una terra in cui spesso ciò che è Stato si rivela essere un ostacolo per incompetenza, per tradimento di valori e per servilismo. La Calabria in questi giorni occupa le pagine dei giornali per l’incredibile sequela di figuracce che arrivano da un piano importante, l’ufficio del “commissario straordinario” alla Sanità che dovrebbe essere, per nome e per ruolo, la figura di garanzia in un momento buio che attraversa il mondo.

E invece prima c’è la pessima commedia del generale Saverio Cotticelli, quello che scopre durante un’intervista di essere lui a dover preparare il piano anti-Covid che in Calabria continua a mancare e che poi giusto per peggiorare la sua situazione si inventa un’ospitata da Massimo Giletti per farci sapere che “non era lui”, che forse era “stato drogato” e che non si riconosceva nelle sue stesse azioni. Qui siamo a livelli di insaputismo che supera ogni fantasia.

Poi arriva Giuseppe Zuccatelli, il Governo corre (male) ai ripari e decide di nominare un manager sanitario che in Calabria non ha certo collezionato grandi successi (durante la prima ondata lo scandalo della Rosa di Villa Torano è finita in un’inchiesta ancora in corso) e che sembra avere come merito quello di un’appartenenza politica spiccatissima nelle fila di Leu, con cui si è candidato riuscendo a prendere più o meno i voti di un rappresentante di classe.

È bastato grattare un po’ la superficie per scoprire il nuovo commissario calabrese esprimere fantasiose teorie su mascherine che non servono, sul virus che si prende solo baciandosi per almeno 15 minuti e altre bischerate che l’hanno fatto scaricare persino dal suo compagno di partito Nicola Fratoianni.

Ora gira l’idea di Gino Strada. Ma attenzione: come sub commissario. In sostanza si torna sul nome di chi per il M5S era un papabile presidente della Repubblica e che poi è diventato uno degli amici dei “taxi del mare”. E cosa vorrebbero fare di lui? Nominarlo alle dipendenze di Zuccatelli per lavarsi la faccia e ripulire un po’ tutta questa lordura. E la cosa fa un certo senso: credere che una personalità come Gino Strada possa fare da secondo a Zuccatelli significa avere un’idea distorta del merito e un’impenitente attaccamento ai propri errori. Quindi siamo sicuri che nessuno potrebbe avanzare una proposta così offensiva. Vero? Sì?

Leggi anche: 1. Esclusivo: Cotticelli a TPI: “Davo fastidio alla massoneria. Volevano eliminarmi, non potendo uccidermi mi hanno screditato” / 2. Calabria, il commissario della Sanità Cotticelli si dimette: “Il piano Covid dovevo farlo io? Non lo sapevo” | VIDEO; / 3. Per gestire la Sanità della Calabria ora si fa il nome di Gino Strada / 4. Calabria, il nuovo commissario alla Sanità Zuccatelli: “Le mascherine non servono a un ca**o”

L’articolo proviene da TPI.it qui

La parità degenere

In Puglia l’ostruzionismo di Fratelli d’Italia ha impedito che la doppia preferenza di genere fosse inserita nella legge elettorale, come previsto da una norma nazionale del 2016. Così il governo ha dovuto metterci una pezza

Che gran brutta figura che ha rimediato il Consiglio regionale della Puglia. La notizia è passata sottobraccio eppure è una notizia di portata storica perché vede il governo, con il presidente Conte, intervenire per decreto lì dove i consiglieri regionali sono riusciti a dare il peggio di se stessi.

Partiamo dall’inizio: il Consiglio regionale pugliese nell’ultima occasione utile non riesce a introdurre la doppia preferenze di genere così come stabilito dalla legge nazionale, la n.20 del 2016, riuscendo addirittura a farsi bloccare da qualche migliaio di emendamenti da parte di Fratelli d’Italia, quelli della famiglia tradizionale che evidentemente le donne le vorrebbero vedere solo a casa a stirare e accudire i bambini. Che una Regione non riesca a mettersi in regola, dopo oltre quattro anni, con una legge così importante e non riesca a garantire la parità di genere e soprattutto per fare qualcosa di concreto per la partecipazione politica delle donne è la fotografia di un Paese in cui l’autopreservazione (degli uomini) è e rimane uno degli ostacoli principali.

Il governo ha provato a richiamare i consiglieri regionali alle loro responsabilità ma l’invito è caduto nel vuoto: la brama di qualche maschietto di non perdere il posto alle prossime elezioni evidentemente ha contato di più di principi che vengono annunciati e poi mai messi in pratica. Così alla fine è dovuto intervenire il presidente Conte con una mossa che ha qualcosa di storico: il governo ha nominato il prefetto di Bari Antonia Bellomo commissario straordinario con la funzione di provvedere «agli adempimenti strettamente conseguenti per l’attuazione del decreto sulla doppia preferenza di genere nelle Regionali in Puglia». Poche ore dopo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato il decreto legge.

Ha ragione la ministra per le Pari opportunità e la Famiglia Elena Bonetti quando scrive: «Affermiamo così che la parità di genere è un principio da tutelare in tutto il Paese, in maniera uniforme, perché in maniera uniforme va tutelato il diritto alle pari opportunità. Avevo anticipato negli scorsi giorni la volontà di utilizzare questo strumento inusuale, sperando tuttavia che le istituzioni pugliesi si adeguassero autonomamente. Non avendolo fatto, non abbiamo avuto altra scelta che questa per garantire i diritti e la legalità. Ho chiesto e insistito per un commissario straordinario che sia garante della piena applicazione del decreto e lo abbiamo individuato nella persona del Prefetto di Bari».

È un gesto enorme. E giusto. E dimostra invece la parità degenere della politica quando si occupa solo di sopravvivere.

Ben fatto.

Buon lunedì.

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Tante promesse per nulla

Niente, gli è andata male anche questa: Salvini ci teneva così tanto a fare il martire per il suo processo che avrebbe dovuto cominciare il prossimo 4 luglio, quello che lo vede imputato per sequestro di persona per il cosiddetto “caso Gregoretti” quando 131 migranti rimasero per quattro giorni su una nave militare italiana prima dello sbarco ad Augusta il 31 luglio del 2019. Ci teneva moltissimo Salvini perché avrebbe potuto mettere in scena la trama del povero perseguitato che viene messo all’angolo dalla magistratura cercando un legame (che non c’è) con la vicenda delle orrende intercettazioni del magistrato Palamara. E invece niente. «C’è mezza Italia ferma però mi è arrivata una convocazione a Catania per il 4 luglio», aveva dichiarato il leader leghista e invece il presidente dell’ufficio del giudice dell’udienza preliminare Nunzio Sarpietro è stato costretto al rinvio: «I nostri ruoli sono stati travolti dallo stop per l’emergenza coronavirus, ci sono migliaia di processi rinviati che hanno precedenza e ho dovuto spostare l’inizio del processo che vede imputato il senatore Salvini ad ottobre», spiega. E anche sui dubbi di un processo ingiusto Sarpietro tranquillizza l’ex ministro: «Stia tranquillo il senatore Salvini, avrà un processo equo, giusto e imparziale come tutti i cittadini. Né io né nessun giudice che si è occupato di questo fascicolo abbiamo nulla a che spartire con Palamara. E sono d’accordo con lui: quelle intercettazioni tra magistrati sono una vergogna».

Tutto fermo, quindi e niente scontro giudiziario come quelli che piacciono così tanto al centrodestra eppure l’ombra di Salvini, al di là delle vicende processuali, continua a pesare su questo governo e a essere un macigno per questo centro sinistra che si ritrova alleato con gli stessi alleati che furono di Salvini, con lo stesso presidente del Consiglio che celebrò proprio i decreti sicurezza e con un’aria stagnante per quello che riguarda il futuro prossimo sul tema. “Discontinuità”, avevano promesso proprio all’inizio del Conte bis. In molti si ricordano che le due leggi estremamente restrittive sull’immigrazione furono ampiamente contestate da buona parte del Partito democratico, in molti si ricordano le promesse che furono fatte e poi ripetute e in molti si ricordano che furono proprio i maggiorenti democratici a dirci di stare tranquilli che sarebbe cambiato tutto e che si sarebbe cancellato presto quell’abominio. Niente di niente. I decreti sicurezza sono lì e dopo otto mesi non sono stati cambiati. Non sono nemmeno state apportate le modifiche che addirittura il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, aveva chiesto in una sua comunicazione ufficiale. E se è vero che il numero di persone che cercano di attraversare il Mediterraneo è diminuito in questi primi mesi dell’anno è altresì vero che dopo la pandemia sicuramente ci si ritroverà di fronte allo stesso identico problema, con le stesse identiche strumentalizzazioni di Salvini (e della ringalluzzita Meloni) e ancora una volta si assisterà al cortocircuito del governo che tiene insieme quelli che andavano a visitare le barche tenute alla deriva di Salvini e quegli stessi che con Salvini definivano «taxi del mare» le navi delle Ong. Sono diverse le proposte di modifica depositate nei mesi: la riduzione delle multe che i decreti prevedono per le navi Ong impegnate nei salvataggi in mare (su cui anche Mattarella aveva avuto da ridire), il ripristino di alcune forme di protezione internazionale per rendere più facile la regolarizzazione delle persone sbarcate nonché maggiori investimenti nel sistema di accoglienza diffusa, quella che ha sempre funzionato meglio coinvolgendo piccoli gruppi in piccole strutture sparse sul territorio italiano. Niente di niente. Rimane solo qualche parola delle poche interviste rilasciate dalla ministra dell’Interno Lamorgese, l’ultima all’inizio di questa settimana, che ha più volte ripetuto di non essere favorevole allo stravolgimento delle leggi. A posto così. Figuratevi, tra l’altro, se in un contesto del genere si possa anche solo lontanamente parlare di ius soli o di ius culturae che erano altri capisaldi di una certa sinistra progressista che urlava ad alto volume contro Salvini e che ora si è inabissata in un penoso silenzio.

Ma è rimasto tutto fermo? No, no, è andata addirittura peggio di così: all’inizio di aprile il governo ha stabilito che i porti italiani non possono più essere definiti “porti sicuri” per le persone soccorse in mare e di nazionalità diversa da quella italiana, di fatto impedendo l’accesso delle navi delle Ong, riuscendo nel capolavoro di fare ciò che nemmeno Salvini era riuscito a fare con tutte le carte a posto. Nonostante la sanatoria approvata dal Consiglio dei ministri per rimpinzare di braccia i campi dell’ortofrutticolo e per garantire l’ingrasso della grande distribuzione il governo non ha nemmeno trovato il tempo di rivedere la legge Bossi-Fini del 2002 che di fatto rende impossibile trovare lavoro regolare per qualsiasi straniero extra comunitario. A metà dello scorso aprile dodici persone sono morte per sete e per annegamento (mentre altre cinquantuno sono state riportate nei lager libici) e anche l’indignazione per i morti sembra ormai essersi rarefatta. Il giornalista Francesco Cundari il 18 aprile ha colto perfettamente il punto: «Il governo ha abbandonato anche quel minimo di ipocrisia che ancora consentiva di accreditare una qualche differenza, almeno di principio, tra le parole d’ordine di Matteo Salvini e la linea della nuova maggioranza in tema di immigrazione, sicurezza e diritti umani», ha scritto per Linkiesta. Ed è proprio così: ormai la sinistra non finge nemmeno più di essere sinistra e spera solo che non si sollevi troppa polemica. Tutto si trascina in un desolante silenzio spezzato solo dalle inascoltate parole di qualche associazione umanitaria e dalla interrogazione parlamentare di Rossella Muroni sui respingimenti illegali, di cui leggerete nell’inchiesta di Leonardo Filippi che apre questo numero. Mentre in Parlamento ci si inginocchia in memoria di George Floyd qui ci si dimentica di quelli che senza ginocchio si riempiono i polmoni d’acqua per i criminali accordi che l’Italia continua a sostenere con la Libia e ci si dimentica di quelli che muoiono nelle baracche di qualche borgo di fortuna per schiavi.

Poi, in tutto questo, vedrete che arriverà il tempo in cui Salvini tornerà a fare il Salvini e tutti si mostreranno stupiti, ci diranno che vogliono fare tutto e che vogliono farlo presto e intanto sarà troppo tardi, intanto la gente muore, intanto gli elettori si allontanano e si ricomincia di nuovo daccapo.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 19 giugno

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SOMMARIO

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Preparatevi: Salvini e Meloni per il 2 giugno faranno qualcosa di grosso per farsi notare a tutti i costi

Preparatevi perché domani il duo Salvini-Meloni proverà a fare più schizzi possibile per farsi notare e per ricordarci che esistono ancora. Scomparsi dal radar dell’agenda politica, infilati nella guerra al’Europa che invece ha dimostrato di esistere nel sostegno economico all’Italia, rinchiusi nella guerra agli Stati che non vogliono italiani in vacanza dimenticandosi del loro rincorrere chiusure e frontiere e ora balbettanti di fronte a una Festa della Repubblica che vorrebbero usare per racimolare qualche minuto di attenzione. Forti Meloni e Salvini, festeggiano il 2 giugno senza sapere che non ci sarebbe stato nessun 2 giugno senza il 25 aprile. E per farsi notare un centimetro in più avevano deciso di farsi un bel video deponendo una corona d’alloro ai piedi del Milite Ignoto, sostituendosi al Presidente della Repubblica per fare una foto spalmare sui social.

Simpatica la Meloni che si dichiara inorridita per non avere ricevuto l’autorizzazione di fare la controfigura, la brutta copia, del Presidente Mattarella. Ora dovrà inventarsi in tempi brevi qualche altra sceneggiata. E forte anche Salvini che al 2 giugno non si è mai fatto vedere (l’anno scorso lo festeggiava in Polonia camuffandosi da provincialissimo uomo internazionale) e che ora si dimostra fieramente innamorato di quella stessa bandiera italiana su cui ha sputato per anni. Visti da lontano i due sono un indecente spettacolo di quello che diventa la politica quando ha bisogno di trasformarsi in recita pur di farsi notare: spettacoli che durano solo il tempo di qualche articolo su qualche giornale mentre si consuma una guerra fratricida. Eh sì, perché nel centrodestra italiano tira anche una brutta arietta mica male con gli uomini di Forza Italia europeisti che stonano con gli altri due, con Salvini terrorizzato da Giorgia Meloni lanciata nei sondaggi e pronta a oscurarlo e Fratelli d’Italia che si sforza di essere di destra senza farsi superare a destra dai partitini di destra ma che deve essere moderata per andarsi a prendere i voti dei moderati. Sullo sfondo, come sempre, i fascisti in piazza rinchiusi nelle loro piccole sigle da prefisso telefonico per risultati elettorali.

Preparatevi perché la pandemia e la politica europea richiedono ai due commedianti di fare qualcosa di grosso, di dire qualcosa di forte per rubare qualche inquadratura: sarà il solito indecente spettacolo. Sarà l’ennesima festa nazionale usata per scopi di propaganda. Pronti a tutto e al contrario di tutto.

Qui gli altri articoli di Giulio Cavalli

L’articolo proviene da TPI.it qui

Chi dice cosa

Bel buongiorno, eh? Sono pezzi del discorso del Presidente della Repubblica. Mica un giornalista di parte. Il Presidente della Repubblica.

Nel merito. Ecco come con la nuova riforma si elegge un Presidente della Repubblica di parte.

(Leonardo come molti altri sta facendo un ottimo lavoro e sul suo blog per smontare le bugie del sì e gliene va dato merito. Purtroppo tra le storture di questa campagna (ma forse di quasi tutte) c’è anche l’immane quantità di energie usate per rispondere alle bufale e quella sulla garanzia di un Presidente della Repubblica che non sia solo di una parte sembra essere una di quelle che funzionano di più. Allora leggete, ritagliate e conservate questo post:)

Ma insomma questa riforma è tutta da buttare? Diciamo che ci sono cose assurde e altre quasi accettabili, che uno sarebbe tentato di mandar giù. L’elezione del presidente della Repubblica, dai, in fin dei conti potrebbe anche funzionare… Poi però accendi la tv, vai su internet, e ascolti gli imbonitori del sì, la loro retorica da fustino dixan fuori tempo massimo: lo stesso dettaglio che a te sembrava quasi passabile, cercano di vendertelo come una mountain bike col cambio shimano. Siori e Siori ci vogliamo rovinare! L’articolo 83 della nuova Costituzione è un baluardo contro qualsiasi deriva autoritaria!

Nientemeno?

Con l’articolo 83 della nuova Costituzione sarà matematicamente impossibile eleggere un Presidente della Repubblica che non sia al di sopra delle parti.

No, scusa, ripeti.

Con l’articolo 83 sarà ma-te-ma-ti-ca-men-te impossibile eleggere…

Hai detto matematicamente?

Ma-te-ma-ti-ca-men-te.

E va bene, vediamo questa matematica.

L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi della assemblea. Dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea. Dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti (dall’articolo 83 della Costituzione riformata).
L’attuale presidente della Repubblica è stato eletto il 31 gennaio 2015 con 665 voti su 1009. Siccome era la quarta votazione, il quorum necessario era appena sceso da 673 (due terzi dell’assemblea) a 505 (la metà più uno). Quindi la coalizione di governo, coi suoi 610 grandi elettori, avrebbe potuto eleggerlo da sola. In futuro invece di una coalizione potremmo avere un partito solo (se si continua a puntare sul maxipremio di maggioranza). Aumenta quindi il rischio che i capi del governo, forti della maggioranza alla Camera, facciano nominare al Quirinale un inquilino su misura – in fondo anche stavolta la sensazione è che Mattarella lo abbia scelto Renzi, litigandoci con Berlusconi: figuriamoci nel giorno in cui un post-Renzi guidasse un monocolore. Di fronte a questo grosso rischio, che alcuni chiamano deriva autoritaria e io chiamo presidenzialismo, gli imbonitori del Sì scuotono la testa: ma come, non avete visto il nuovo fiammante articolo 83? Di qui in poi sarà matematicamente impossibile imporre un candidato senza concertarlo con la minoranza.

Ma-te-ma-ti-ca-men-te.

Sarà. Senz’altro le discussioni si ridurranno, com’è ovvio che succeda in un’assemblea che si riduce di un terzo: dai mille-e-qualcosa di adesso a 730 (cento senatori più 630 deputati). Mettersi d’accordo è più facile quando siamo in meno: è anche più difficile mimetizzarsi nella folla, come fecero i misteriosi 100 che impallinarono Prodi nel 2013. Dunque durante i primi tre scrutini la maggioranza necessaria sarà di 487 grandi elettori, contro i 673 di adesso. Al quarto, se bastasse la maggioranza più uno come adesso, diventerebbero 366 anziché gli attuali 505. Ma con la nuova regola dei tre quinti, baluardo matematico contro la deriva autoritaria, ne serviranno 438. Se qualcuno d’ora in poi vi chiede la definizione matematica di baluardo democratico, ebbene, pare che in un’assemblea di 730 elettori essa si assesti intorno a 438-366=72. Settantadue voti. Un decimo dell’assemblea stessa. (Tre quinti meno un mezzo fa appunto un decimo). Ha un senso?
Magari persino sì, un senso ce l’ha. Ma sapete cosa c’è di buffo? Mentre i nostri nuovi padri costituenti decidevano che il voto di un decimo dell’assemblea è una garanzia democratica, negli stessi palazzi, a volte persino nelle stesse stanze, si stava pensando seriamente di assegnare a chi otteneva almeno il 40% dei suffragi il 54% dei seggi: quella simpatica legge che chiamiamo “Italicum”, sulla quale Renzi decise di chiedere la fiducia al parlamento, e che è tuttora legge della repubblica (certo, hanno detto che la cambieranno. Ma prima bisogna mettere la crocetta sul Sì). Tra il 40% (252 seggi) e il 54% (340) c’è una differenza di 88 seggi. Ok, non ci eleggi un presidente della Repubblica, con 340 seggi. E chissà che situazione puoi trovare al senato. Ma intanto ricordiamo che l’Italicum voleva regalare 88 seggi al primo partito, per una questione di “governabilità”. L’italicum sparirà, e cosa prenderà il suo posto? Non si sa.

Però quest’estate a Orfini piaceva il modello greco (quello che nel frattempo è stato abbandonato anche in Grecia). Un maxipremio al primo partito, senza ballottaggio. Nel parlamento greco (300 seggi), il maxipremio era di 50: un sesto dell’assemblea. Non è servito né a evitare crisi di governo, né governi di coalizione, né referendum inutili. Ma pensiamo a una cosa del genere in Italia: un centinaio di seggi alla Camera da regalare al primo arrivato per la “governabilità”. Capite dove voglio andare a parare? Con una legge del genere, che forse è quella che è stata promessa a Cuperlo, non sarà poi così difficile per un partito trovare quei 438 voti necessari a eleggere come presidente della repubblica un caro vecchio amico non necessariamente super partes (anche Cuperlo – lo dico con simpatia, non sarebbe poi così male Cuperlo).

E comunque, se anche non riuscisse a trovarli, c’è sempre il settimo scrutinio. Da lì in poi il quorum dei tre quinti va ricalcolato sul numero di elettori che si presenta effettivamente a Montecitorio: se non entrano, il quorum diminuisce. Viene in pratica introdotto il silenzio-assenso. A cosa serve? A prima vista sembra una foglia di fico offerta alle minoranze per coprirsi coi loro elettori nel momento in cui cedono a un’offerta irrifiutabile. Mettiamo che abbiano tuonato davanti alle telecamere per giorni e giorni: “Noi Cuperlo mai!” Mettiamo che alla fine abbiano deciso, in cambio di qualcosa, di accettare pure Cuperlo. Non c’è bisogno di votarlo: basta uscire dall’aula e abbassare il quorum. Funzionerà? In altri tempi magari avrebbe funzionato, ma adesso come si fa? Uscire dall’aula ti espone ancora più che restare dentro. All’interno almeno il voto è segreto. Là fuori ci sono le telecamere, appunto, e se proverai a dire che tu non hai votato, che tu ti sei astenuto, ti rideranno in faccia. E un Cuperlo eletto in seguito al ritiro di un’intera delegazione di deputati o senatori non avrà molti motivi per considerarsi “presidente di tutti”. Oggi tutto è discusso, tutto è condiviso, tutto è drammatizzato. È curioso che questa nuova generazione di padri costituenti non se ne sia resa conto: sono quelli che hanno l’iphone, mica il telefono a gettone. Eppure.

Ci sono poi altre possibilità di abbassare artificialmente il quorum: abbiamo già visto che un sindaco-senatore può essere in qualsiasi momento destituito dal suo consiglio comunale. Il voto decisivo per eleggere Cuperlo potrebbe saltar fuori dal consiglio comunale di Vipiteno! Se la situazione è grave si potrebbe anche mandare all’aria un consiglio regionale. Vengono sempre in mente quei vecchi conclavi in cui la mortalità dei cardinali impennava.

Ricapitolando: i riformatori sostengono che nessun partito, anche qualora trionfasse alle elezioni, potrebbe nominarsi un presidente della repubblica senza il consenso di almeno parte della minoranza. Questo perché anche dal quarto scrutinio in poi non basterebbe metà dell’assemblea (366 seggi), ma servirebbero i tre quinti (438). In realtà è difficile capire cosa potrebbe succedere, finché non sappiamo che legge elettorale sarà approvata; e che in caso di legge elettorale alla greca, con maxipremio, quei 438 seggi potrebbero davvero essere a portata di mano del partito di maggioranza. Neanche la possibilità di abbassare il quorum ulteriormente, a partire dal settimo scrutinio, non calcolando gli elettori assenti, sembra una garanzia di pluralità: tutto il contrario. E quindi insomma neanche qui c’è nulla che mi spinga a votare Sì.

Il Capodanno del condannato a morte

Un gran pezzo di Saverio Lodato (e intanto potete continuare a firmare qui):

news_52039_nino_di_matteoNon sappiamo come passerà la notte di Capodanno un condannato a morte, a data da destinarsi, a causa del suo lavoro che non viene gradito, che addirittura risulta insopportabile, che viene considerato un intralcio per i manovratori grandi e piccoli di questo Paese. Non sappiamo quali pensieri gli passeranno per la testa mentre sarà circondato da moglie e figli nei cui sguardi indovinerà facilmente interrogativi pesanti come macigni; mentre immaginerà il 2015 che si spalanca davanti a lui come un ennesimo scenario di trappole, sgambetti, tradimenti, veleni; mentre sarà incerto sul destino di una grande inchiesta che, insieme a un manipolo di altri colleghi della sua stessa tempra, ha tenacemente voluto e spinto avanti nell’incrollabile certezza che per l’accertamento della verità i magistrati, se magistrati sono e non pagliacci che riempiono una toga, devono fare questo e altro.
Sappiamo una cosa, però. Ed è la prima che ci viene in mente. Che sono quattro le massime cariche dello Stato. Al primo posto, c’è il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Al secondo, il Presidente del Senato, Piero Grasso. Al terzo, il Presidente della Camera (in questo caso, se si preferisce, “la” Presidente), Laura Boldrini. Al quarto, il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Direte: che c’entra questo elenco? C’entra, invece. Eccome, se c’entra!

Tutti e quattro – Napolitano, Grasso, Boldrini e Renzi – si sono sempre ben guardati dal pronunciare il nome del condannato a morte, non gli hanno mai fatto una telefonata di solidarietà umana, lo hanno accuratamente ignorato in ogni loro dichiarazione sull’argomento, e non è che le occasioni siano mancate.
E’ un caso? Quattro coincidenze in una? Difficile pensarlo. Da due anni ormai tutti gli italiani sanno che il condannato a morte risponde al nome di Nino Di Matteo, che non è, badate bene, carica dello Stato, né massima né minima, ma che per la dignità di ciò che resta del nostro Stato fa indiscutibilmente più di quanto fanno gli altri quattro messi insieme. E’ un punto sul quale vale la pensa insistere. Eppure i quattro lo ignorano. Non gli concedono neanche un minimo attestato di esistenza. Cerchiamo di capire perché.
Le massime cariche dello Stato, di norma, preferiscono indirizzare la loro solidarietà persino a personaggi della cosiddetta “antimafia”, ma questi personaggi hanno da essere un po’ tromboneschi, non protagonisti veri, semmai “figure” o “figurine” che possono rientrare, di solito per cognome illustre, in un teatrino allargato della politica in cui c’è posto anche per loro, e magari persino lauti finanziamenti, perché da loro le istituzioni non hanno proprio nulla da temere. Né vale l’obiezione: cosa hanno da temere i “politici” dai “magistrati antimafia”? Ché dopo le vicende romane simile obiezione sarebbe ultronea, nel senso di superflua.
Questa è una prima ragione del silenzio raggelante che da due anni circonda Di Matteo e gli altri come lui (i Teresi, i Tartaglia, i Del Bene, e valgano questi nomi per tutti). I magistrati antimafia, e quelli di Palermo in particolare, a Roma non sono mai andati giù. Questo loro interpretare la funzione, all’insegna di una indipendenza programmatica, a signori e signorotti della politica romana suona al pari di una bestemmia.
L’attuale Arrogantocrazia – questo governo, insomma – che di battutismo e annuncite, guanti di sfida lanciati a destra e a manca, dispregio pacchiano dei valori (ci viene in mente la ministra Boschi che tra Fanfani e Berlinguer rottamerebbe Berlinguer), pretesa di una longevità politica che rasenta le vette dell’eternità come accadeva nel Pantheon sovietico, in cui si moriva almeno un mese dopo essere morti, e dove lavorano al Cremlino, sin dai tempi di Stalin, equipe di “impagliatori” iperspecializzati nella conservazione dei “cadaveri illustri”, questa attuale Arrogantocrazia, dicevamo, detesta istintivamente i magistrati palermitani. Ma questa è solo una parte delle verità.
Il nome di Di Matteo, infatti, è diventato evocativo del processo sulla trattativa Stato-Mafia che si celebra a Palermo, nonostante non siano mancati fulmini e saette quirinalizi.
Il tacito teorema che accomuna i quattro che fanno orecchie da mercante possiamo spiegarlo così: Di Matteo è l’uomo di punta delle indagini sulla trattativa; ammettere che Di Matteo rischia la vita significa ammettere implicitamente che chi in Italia indaga su fili ad altissima tensione (e vivaddio se non lo sono i fili scoperti di uno Stato che trattò, trattava e tratta con la mafia) rischia di finire assassinato, significa ammettere che il processo di Palermo è cosa serissima e che il nostro Stato, se necessario, spara. Né sarebbe la prima volta.
Il teorema, anche se non verbalizzato, anche se i quattro non lo ammetteranno mai, è esattamente questo. Significherebbe insomma riconoscere addirittura centralità a un qualcosa che con le unghia e con i denti si intende negare, tenendola sin quando possibile fuori dalla porta.
E’ bene che per il 2015 Nino Di Matteo se ne faccia una ragione, anche se abbiamo motivo di ritenere che abbia già idee chiarissime in proposito. Un fatto di cronaca – strettamente mafiologico, se così si può dire – ci ha notevolmente rafforzato nella nostra convinzione. Ci riferiamo al “pentimento” di Vito Galatolo, il boss della borgata palermitana dell’ Acquasanta che ha iniziato a collaborare proprio con  Di Matteo. Intanto, stiamo parlando di una delle “famiglie” più feroci e ammanigliate con i livelli occulti del Potere della Cosa Nostra palermitana. Vito, cosa che anche molti addetti ai lavori tendono inspiegabilmente a dimenticare, è figlio di quel Vincenzo Galatolo attualmente all’ergastolo per la strage Dalla Chiesa, la strage Chinnici, l’uccisione di Pio La Torre e quella di Ninni Cassarà; nonché coinvolto, con tutta la famiglia, nel fallito attentato dinamitardo all’Addaura, nel quale poi la vittima designata, Giovanni Falcone, stigmatizzò la presenza di “menti raffinatissime”. Questo solo per dire che il Vito che si pente oggi non è l’ultimo arrivato quanto ad araldica criminale. Prova ne sia che con le sue dichiarazioni ha già provocato una slavina di arresti. Ma il fatto è che Vito ha vuotato il sacco proprio sulla recente preparazione di un attentato a Di Matteo, indicando nel dettaglio la quantità di tritolo che i mafiosi avrebbero in parte comprato dagli ‘ndranghetisti calabresi; in Vincenzo Graziano, reggente del “mandamento” delle borgata di Resuttana, recentemente catturato da polizia e carabinieri, il custode momentaneo dell’esplosivo; e nel trapanese Matteo Messina Denaro, primula rossa del momento, l’esplicito mandante di questa condanna a morte.
Il “caso Galatolo” è un’ottima cartina di tornasole ai fini del nostro ragionamento. I magistrati che parlano con Galatolo hanno dichiarato che esistono “formidabili riscontri” alle sue parole, pur essendo preoccupati perché il tritolo ancora non è saltato fuori. Ma questa collaborazione sta avendo scarsissima eco nei media, mentre a rigor di logica – in tempi di retorica sui successi antimafia – andrebbe enfatizzata. E qui non vale solo il teorema di prima: ché parlar di Galatolo significherebbe parlar di Di Matteo. La domanda che infatti sorge spontanea è: Messina Denaro ha chiesto alla mafia palermitana di uccidere Di Matteo, ma a Messina Denaro chi è che glielo ha chiesto? Un superlatitante, attorno al quale si stringe il cerchio con l’arresto di familiari stretti, fiancheggiatori, gregari, soci in affari, prestanome, non ha altro a cui pensare? Si sente minacciato dalle indagini di Di Matteo sulla trattativa Stato-Mafia? E perché mai?
Ognuno è libero di darsi le risposte che vuole, così come noi ce ne siamo data una.
Ci teniamo a un’ultima notazione in proposito: non è un mistero per nessuno che neanche all’interno del palazzo di Giustizia di Palermo Di Matteo goda – se così si può dire – di “buona stampa”. Sono molti i suoi colleghi che arricciano il naso di fronte al pentimento di Vito Galatolo. Sono gli stessi – lo diciamo per inciso – che si schierarono apertamente contro Antonio Ingroia quando Ingroia si trovò al centro di una violentissima tempesta istituzional – mediatica che alla fine si risolse con il suo abbandono della magistratura. Sarebbe bene che la deontologia professionale non risultasse mai sacrificata a ragioni di protagonismi e invidie che vorremmo fossero finite con le tragedie delle stragi di Capaci e via d’Amelio.
A tale proposito va detto che il nuovo procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, avrà subito il suo bel da fare. Sul modo in cui si è arrivati alla sua nomina è stato scritto parecchio, anche su AntimafiaDuemila. Tutto è nato – tanto per cambiare, verrebbe da dire – da un intervento a gamba tesa del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, volto a stoppare la candidatura di Guido Lo Forte “reo”, anche lui, di coinvolgimento nel processo sulla trattativa. A farne le spese sono stati – come è noto – sia Lo Forte, sia Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, entrambi molto più titolati di Lo Voi a ricoprire quell’incarico. Napolitano, quando ha voluto (e lo ha voluto spesso durante i suoi due mandati), ha fatto strame di regolamenti, criteri oggettivi, prassi consolidate, in materia di “gestione” della giustizia e della politica. Ma è pur vero che a uscirne con le ossa rotte da questa nomina è l’intero CSM, capace solo di ratificare il diktat di Napolitano, come è altrettanto vero che la presidente della commissione antimafia, Rosy Bindi, che si è sperticata in lodi della procedura adottata dal Csm, ha perduto una grande occasione per stare zitta su materia della quale, all’inizio del suo mandato, lei stessa ammise candidamente di non capirne nulla. E vada steso un velo pietoso su consiglieri laici di provenienza Pd e Movimento 5 Stelle, che a quei giochi si sono supinamente prestati.
Quanto a Lo Voi, dalla poltrona che adesso occupa, saprà cogliere tutte le occasioni possibili per dimostrare di non essere il “normalizzatore” voluto da Napolitano e che molti, invece, stanno paventando. E che se venne designato da Berlusconi in persona per occupare la carica di delegato italiano ad Eurojust, ciò non ha comportato il fatto di essersi legato le mani a vita in ossequio a un pregiudicato che Renzi e Napolitano hanno scelto per ridisegnare i poteri nella nostra Repubblica. Ma è sin troppo ovvio che sarà innanzitutto il processo sulla trattativa, in un senso o nell’altro, lo snodo principale dei futuri anni della Procura nel capoluogo siciliano. Lo Voi – è stato ricordato da più parti – si è distinto, in passato, per “non aver firmato” pagine della storia della Procura palermitana che invece andavano firmate e controfirmate: il processo Andreotti e la denuncia appello degli otto sostituti procuratori per cacciare il “capo” Giammanco, all’indomani delle stragi di Capaci e via d’Amelio. Difficilmente, prendendo le distanze in un modo o nell’altro dall’inchiesta sulla trattativa, Lo Voi potrebbe rivendicare il “gesto” richiamandosi allo spirito volterriano. Lo Voi – di cui conosciamo l’intelligenza – questo lo capisce benissimo da solo, senza bisogno che qualcuno glielo ricordi.
E forse il condannato a morte, nella notte di Capodanno, su questo aspetto farà una riflessione analoga alla nostra.

Lei non può

Oggi il Corriere della Sera ospita, a pagina 13, una durissima lettera di Fausto Bertinotti al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Una missiva nella quale l’ex presidente della Camera accusa il Capo dello Stato di congelare la democrazia con il suo appoggio esplicito all’attuale esecutivo. Una lettera scandita da una serie di perentori “Lei non può

Signor Presidente,

Lei non puòLei non può congelare d’autorità una delle possibili soluzioni al problema del governo del Paese, quella in atto. come se fosse l’unica possibile, come se fosse prescritta da una volontà superiore o come se fosse oggettivata dalla realtà storica.

Lei non può, perché altrimenti la democrazia verrebbe sospesa. Lei no può trasformare una Sua, e di altri, previsione sui processi economici in un impedimento alla libera dialettica democratica. I processi economici, in democrazia, dovrebbero poter essere influenzati dalla politica, dunque, dovrebbero essere variabili dipendenti, non indipendenti. Lei non può, perché altrimenti la democrazia sarebbe sospesa. Sia che si sostenga che viviamo in regimi pienamente democratici, sia che si sostenga, come fa ormai tanta parte della letteratura politica, che siamo entrati in Europa, in un tempo post-democratico, quello della rivincita delle élites, Lei non può. Nel primo caso, perché l’impedimento sarebbe lesivo di uno dei cardini della democrazia rappresentativa cioè della possibilità, in ogni momento, di dare vita ad un’alternativa di governo, in caso di crisi, anche con il ricorso al voto popolare. Nel secondo caso, che a me pare quello dell’attuale realtà europea, perché rappresenterebbe un potente consolidamento del regime a-democratico in corso di costruzione. C’è nella realtà politico istituzionale del paese una schizofrenia pericolosa: da un lato si cantano le lodi della Costituzione Repubblicana, dall’altro, essa viene divorata ogni giorno dalla costituzione materiale. La prima, come lei mi insegna, innalza il Parlamento ad un ruolo centrale nella nostra democrazia rappresentativa, la seconda assolutizza la governabilità fino  a renderlo da essa dipendente. Quando gli chiede di sostenere il governo perché la sua caduta porterebbe a danni irreparabili, Ella contribuisce della costruzione dell’edificio oligarchico promosso da questa costituzione materiale. Nel regime democratico ogni previsione politica è opinabile perché parte essa stessa di un progetto e di un programma che sono necessariamente di parte; lo stesso presunto interesse generale non si sottrae dalla diversità delle sue possibili interpretazioni. Ma, se mi permette, Signor Presidente c’è una ragione assai più grande per cuiLei non può.

La nostra costituzione è, come sappiamo, una costituzione programmatica. Norberto Bobbio diceva che in essa la democrazia è inseparabile dall’eguaglianza come testionia il suo articolo 3. Ma essa, rifiutando un’opzione finalistica nella definizione della società futura, risulta aperta a modelli economico sociali diversi e a quelli dove sarà condotta da quella che Dossetti chiamava la democrazia integrale e Togliatti la democrazia progressiva.

Quando Lei allude ai possibili danni irreparabili per il paese, lo può fare solo perché considera ineluttabili le politiche economiche e sociali imperanti nell’Europa leali, le politiche di austerità. Ha poca importanza, nell’economia di questo ragionamento, la mia radicale avversione a queste politiche che considero concausa del massacro sociale in atto.

Quel che vorrei proporLe è che  nella politica e in democrazia si possa manifestare un’altra e diversa idea di società rispetto a quella in atto e che la Costituzione Repubblicana garantisce che essa possa essere praticata e perseguita. Il capitalismo finanziario globale non può essere imposto come naturale, né la messa in discussione del suo paradigma può essere impedito in democrazia, quali che siano i passaggi di crisi e di instabilità a cui essa possa dar luogo. O le rivoluzioni democratiche possono essere possibili solo altrove? No, la carta fondamentale garantisce che, nel rispetto della democrazie e nel rifiuto della violenza, possa essere intrapresa anche da noi. C’è già un vincolo esterno, quello dell’Europa leale, che limita la nostra sovranità, non può esserci anche un vincolo esterno anche alla politica costituita dall’autorità del Presidente della Repubblica. Lei non può, signor Presidente. Mi sono permesso di indirizzarLe questa lettera aperta perché so che la lunga consuetudine e l’affettuoso rispetto che ho sempre nutrito per la Sua persona mi mettono al riparo da qualsiasi malevola interpretazione e la mia attuale lontananza dai luoghi della decisione politica non consentono di pensare ad una qualche strumentalità. È, la mia, soltanto, l’invocazione di un cittadino, anche se ho ragione di ritenere che essa non sia unica.

Mi creda, con tutta cordialità.

Fausto Bertinotti

Io voglio essere ripetitivo

Non è un errore di battitura. Proprio voglio essere ripetitivo e chiedermi perché non convergere ora su Rodotà, Prodi ha funzionato molto meno di come avrebbe potuto funzionare, portare Prodi al quinto scrutinio sarebbe incomprensibile e scadere in D’Alema o dalemini sarebbe la fine del centrosinistra. Si voti Rodotà, su, poi si dice “scusate abbiamo bighellonato  ora basta” e poi i dirigenti di questa farsa si facciano da parte. Su.