Vai al contenuto

qualche

Abolire i Decreti Sicurezza, piuttosto che inginocchiarsi?

La vicenda di come la politica italiana stia declinando qui da noi ciò che accade negli Usa è altamente indicativa di una messa in scena che sembra avere preso il sopravvento sulle responsabilità di governo. Alcuni membri del Parlamento, di quelli che al governo ci sono, hanno deciso di inginocchiarsi come segno di solidarietà per la morte di George Floyd e per i diritti di tutti gli oppressi di qualsiasi etnia. Il gesto ha un’importante valenza simbolica, soprattutto alla luce della narrazione tossica che certa destra sta facendo della rivoluzione culturale in atto negli Usa che qualcuno vorrebbe banalizzare in qualche vetrina spaccata perdendo il focus e il senso del tutto.

Bene i simboli, benissimo. Però da un governo che si dice solidale con chi sta lottando contro la discriminazione ci si aspetterebbero anche degli atti politici, mica simbolici. I decreti sicurezza di salviniana memoria, ad esempio, sono una perfetta fotografia: criticati da ogni dove quando furono applicati durante il governo Conte I divennero la bandiera del centrosinistra su ciò che non si doveva fareAll’insediamento del Conte II ci dissero che l’abolizione di quei decreti sarebbe stata una priorità. La priorità è praticamente scomparsa. E pensandoci bene è scomparso anche tutto il dibattito sullo ius soli e sullo ius culturae che nessuno da quelle parti ha nemmeno il coraggio di pronunciare.

Così noi dovremmo accontentarci di una classe politica che fa esattamente quello che possiamo fare noi semplici cittadini scendendo in piazza come se non avessero loro le leve per modificare le cose. È tutto solo manifestazione d’intenti come se fossimo in eterna campagna elettorale e non ci sia un governo regolarmente insediato. Se invece il problema sta nell’alleanza con il Movimento 5 Stelle che è contrario all’abolizione dei decreti e a un serio percorso di integrazione e di diritti allora sarebbe il caso di dirlo e di dirlo forte per chiarire il punto agli elettori disorientati.

Non si governa con i simboli. Non basta più. I dirigenti non manifestano, agiscono.

Buon mercoledì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La storia di Adnan, il ‘George Floyd italiano’ ucciso a coltellate in silenzio

Adnan Siddique è stato ucciso la sera del 3 giugno nel suo appartamento, in via San Cataldo a Caltanissetta. Viveva in Pakistan, a Lahore, una cittadina di 11mila abitanti con suo padre, sua madre e i suoi 9 fratelli. Adnan era la punta di diamante su cui la sua famiglia aveva investito tutto, tutto quel poco che ha, perché trovasse fortuna. Aveva 32 anni e in Italia lavorava come manutentore di macchine tessili. Era molto conosciuto in città, tutte le mattine passava al bar Lumiere per un caffè e i gestori del locale lo raccontano come un ragazzo pieno di sogni e di preoccupazioni. Quali preoccupazioni? Avere cercato giustizia per un gruppo di connazionali che lavoravano nelle campagne da sfruttati come capita in tutta Italia, da nord e sud. Adnan si era messo in testa di liberare i suoi amici dallo sfruttamento e aveva addirittura accompagnato uno di loro a sporgere denuncia. Troppo, per qualcuno che evidentemente continua a credere che la schiavitù sia qualcosa di cui scrivere e parlare solo quando si svolge lontano da noi. Era stato minacciato più volte e non era tranquillo. Aveva anche denunciato le minacce ma evidentemente non è bastato.

Adnan è stato ucciso con cinque coltellate: due alle gambe, una alla schiena, una alla spalla e una al costato. Quella al costato, secondo la perizia sul cadavere, gli è stata fatale. Sono bastate poche ore anche per trovare l’arma, un coltello di circa 30 centimetri. Ci sono anche quattro pakistani fermati per l’omicidio, un quinto è accusato di favoreggiamento. «Una volta è stato pure in ospedale – racconta la famiglia Di Giugno, titolare del bar frequentato da Adnan – lo avevano picchiato». Jaral Shehryar, pakistano di 32 anni, titolare di una bancarella di frutta e verdura, racconta: «Era bravissimo, gentile, quelli che lo hanno ucciso no. Si ubriacavano spesso. Qualche volta andavano a lavorare nelle campagne ma poi passavano il tempo ad ubriacarsi e fare baldoria». Anche suo cugino Ahmed Raheel, che vive in Pakistan e con cui Adnan Siddique si era confidato, sembra avere le idee chiare: «Aveva difeso una persona e lo minacciavano per questo motivo – riferisce all’Ansa – Voleva tornare in Pakistan per la prima volta dopo tanti anni per una breve vacanza ma non lo rivedremo mai più. Adesso non sappiamo neanche come fare tornare la salma in Pakistan. Noi siamo gente povera, chiediamo solo che venga fatta giustizia».

Il presidente dell’Arci di Caltanissetta Giuseppe Montemagno chiede che «si faccia piena luce sui motivi alla base dell’omicidio di Adnan Siddique e sulla diffusione dello sfruttamento dei braccianti agricoli nelle campagne tra le provincie di Caltanissetta ed Agrigento. Oltre ai responsabili materiali – chiede il presidente dell’Arci – dell’atroce delitto chiediamo agli inquirenti di accertare quali siano le proporzioni del fenomeno del caporalato nel territorio nisseno ed individuare eventuali altri responsabili». Perché la storia di Adnan, al di là di quello che accerterà l’autorità giudiziaria sta tutta nelle pieghe di un caporalato che sembra non avere paura di nessuno, che continua a cavalcare impunito interi settori dell’agroalimentare e che tratta gli stranieri in braccia. Tutti sono solo le loro braccia: le braccia per raccogliere la frutta e la verdura e le braccia da armare per punire un connazionale che ha deciso di alzare troppo la testa.

E in questi tempi in cui da lontano osserviamo gli Usa che si ribellano al razzismo forse sarebbe il caso di cominciare a osservare anche le profilazioni che avvengono qui da noi, dove l’essere pakistano ti relega al campo o sul cantiere senza il diritto di avere diritti, dove una storia di violenza che si trascina da tempo finisce per essere sottostimata dalle Forze dell’ordine e da certa stampa, dove un omicidio non merita nemmeno troppo di finire in pagina perché anche se parla un’altra lingua in fondo parla di noi. Parla tremendamente di quello che siamo.

L’articolo La storia di Adnan, il ‘George Floyd italiano’ ucciso a coltellate in silenzio proviene da Il Riformista.

Fonte

Il gran rifiuto

Il ministro per il Sud Peppe Provenzano ritira la sua partecipazione a un convegno sul futuro del Paese in cui i relatori sono tutti maschi. A volte non esserci è un segnale che parla molto di più di qualsiasi presenza

“Me ne accorgo solo ora, è l’immagine non di uno squilibrio, ma di una rimozione di genere. Mi scuso con organizzatori e partecipanti, ma la parità di genere va praticata anche così: chiedo di togliere il mio nome alla lunga lista. Spero in un prossimo confronto. Non dimezzato, però”.

Sono le parole con cui Giuseppe Provenzano, ministro per il Sud e la coesione territoriale. ha declinato l’invito a un tavolo virtuale in cui avrebbe dovuto confrontarsi con sindaci e docenti universitari e esperti sul futuro del Paese. Uno dei tanti convegni in cui gli invitati sono tutti maschi e in cui vengono superate a spallucce le critiche di chi fa notare che spesso si attua una totale rimozione di genere dagli eventi come se fosse una cosa normale e scontata.

Il gesto del ministro Provenzano però ci insegna anche qualcos’altro, prezioso di questi tempi: per contestare pratiche che non accettiamo e per reclamare diritti che rimangono troppo nascosti si può anche decidere di rifiutarsi di partecipare. A volte non esserci è un segnale che parla molto di più di qualsiasi presenza: l’assenza va dosata con intelligenza e con cura e contiene molti sensi.

Decidere ad esempio di non appartenere a un parterre che dell’appartenenza di genere fa il suo marchio di fabbrica è un gran rifiuto, composto e significativo, che ha molto da insegnarci. Spinge l’occhio a notare come il tuttimaschi sia una costante anche in ambienti dove esistono talenti e professionalità femminili. E le polemiche fatte sottovoce ogni tanto sono un’ottima lezione.

Buon martedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Appalto a sua insaputa

Una nuova fiammante storia arriva dalla Lombardia del duo Fontana & Gallera e questa volta si impiglia tra le pieghe dei parenti del presidente, più precisamente nelle pieghe di bilancio della Dama spa che appartiene – tramite Divadue srl – per il 10% a Roberta Dini (moglie di Attilio Fontana) e per il resto delle quote – tramite una fiduciaria svizzera – a suo fratello Andrea Dini.

Il 16 aprile Regione Lombardia tramite l’agenzia regionale pubblica degli acquisti Aria spa acquista dalla moglie e dal cognato di Fontana camici per un valore di 513mila euro. I bravi giornalisti di Report (la puntata andrà in onda stasera) chiedono spiegazioni al cognato di Fontana: quello prima risponde che «non è un appalto, è una donazione. Chieda pure ad Aria, ci sono tutti i documenti» e poi si corregge aggiungendo che «effettivamente, i miei, quando io non ero in azienda durante il Covid, chi se ne è occupato ha male interpretato, ma poi me ne sono accorto e ho subito rettificato tutto perché avevo detto ai miei che doveva essere una donazione».

Dal canto suo il presidente Fontana, ha annunciato, tramite un comunicato, una querela nei confronti del Fatto quotidiano che ha anticipato il contenuto dell’inchiesta di Report, e ha diffidato la trasmissione di RaiTre «dal trasmettere un servizio che non chiarisca in maniera inequivocabile come si sono svolti i fatti». Nella nota Fontana ha ribadito la sua «totale estraneità alla vicenda» e ha precisato di aver «già spiegato per iscritto» agli inviati di Report di non sapere «nulla della procedura attivata da Aria spa» e di non essere «mai intervenuto in alcun modo». Ed ecco la replica di Ranucci (Report): «Non vedo proprio perché non dovremmo andare in onda. In fondo raccontiamo un bel gesto. Senza di noi e senza il Fatto Quotidiano nessuno avrebbe infatti saputo che l’azienda del cognato del presidente della Lombardia ha donato ai suoi cittadini materiale sanitario. E dal momento che Fontana dice di essere all’oscuro possiamo dire che tutto sia avvenuto a sua insaputa, sia in Regione che in casa. Insomma credo debba ringraziarci. Se non ce ne fossimo occupati noi avrebbe continuato a non sapere nulla».

In effetti a fine maggio risultano stornati i soldi con una nota d’accredito ma risulta piuttosto significativa la risposta di un appalto a sua insaputa che aggiunge un nuovo capitolo all’insaputismo dei nostri politici – alcuni dei quali negli anni hanno ricevuto appartamenti, favori, scambi e ogni volta ci hanno spiegato che non possono controllare tutto.

L’insaputismo del resto è lo stesso male che attanaglia quelli che continuano a concedere le piazze ai fascisti stupendosi poi che si comportino da fascisti oppure quelli che soffiano sulla violenza e poi si stupiscono della violenza oppure quelli che a sua insaputa hanno messo i malati in mezzo agli anziani delle Rsa.

Bisognerebbe scrivere una nuova legge morale: se qualcuno a sua insaputa è stato gravemente inopportuno allora è troppo superficiale per ricoprire un incarico pubblico. Solo così, forse, si potrebbe sconfiggere il virus dell’insaputismo che infesta la storia politica d’Italia.

Buon lunedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Vitalizi in Calabria. E si arrabbiano pure

I consiglieri regionali della Calabria fanno marcia indietro sul privilegio per loro stessi introdotto all’unanimità pochi giorni fa. Ma non chiedono scusa, anzi

I consiglieri regionali della Calabria fanno marcia indietro sul privilegio per loro stessi introdotto all’unanimità pochi giorni fa. Ma non chiedono scusa, anzi

In piena crisi pandemia il Consiglio regionale calabrese ha definito una fondamentale priorità: la modifica dell’articolo 7 comma 4 della legge regionale numero 13 del 2019 con cui si abolivano i vitalizi per i consiglieri regionali. Con la modifica, un consigliere regionale che decade per qualsiasi motivo, anche con un solo giorno di legislatura, si guadagnerebbe un trattamento di fine mandato. In sostanza si ottiene un trattamento pensionistico anche senza avere maturato contributi e solo per avere ricoperto una carica. Non lo vogliono chiamare vitalizio ma è un vitalizio, de facto, una vincita al lotto, una garanzia per la vecchiaia.

Interessante anche come sia stata votata la legge: Giuseppe Graziano dell’Udc (sì, da queste parti esiste ed è viva l’Udc) alla richiesta del presidente Domenico Tallini di spiegare la norma prima di metterla ai voti, ha risposto: «Si illustra da sé». Voto all’unanimità. Due minuti in tutto.

Qualcuno fa notare che in quella legge c’è qualcosa che non va. I politici calabresi come prima cosa, accade spesso quando fai notare a un politico di avere fatto una cretinata, negano: sulla Gazzetta del Sud il presidente del Consiglio Domenico Tallini spiega che «i vitalizi in Calabria sono stati aboliti da tempo. Non vedo dov’è lo scandalo: a fronte di 38mila euro di contributi versati in una legislatura, si maturerebbe un’indennità di fine mandato, a 65 anni, da 600 euro netti al mese» dimenticandosi che si sta parlando di quelli che decadranno dal mandato. I consiglieri del Pd parlano di tempesta in un bicchiere d’acqua.

Poi? Poi fanno marcia indietro, ovviamente. Quindi evidentemente avevano ragione quelli che criticavano la scelta, uno si aspetta che chiedano scusa e invece niente. «Solo ai calabresi dobbiamo delle scuse per l’errore commesso» dice Tallini di Forza Italia. Secondo lui quelli che hanno criticato sono «ex candidati a presidente della Regione, paladini dell’antipolitica, nostalgici della prima Repubblica, antimeridionalisti a pagamento» e «giornalisti che si cimentano in fantasiosi racconti e gialli su manine che fanno proposte e poi scompaiono». Gli altri dicono di avere votato una proposta che era diversa da quella che gli era stata illustrata: hanno votato a loro insaputa, insomma. Il consigliere del Pd Nicola Irto è più o meno sulla stessa linea: «Qui resta un fatto, tra populismo e verità io scelgo sempre la verità e la trasparenza. Comprendo la reazione di molti calabresi. Non giustifico gli attacchi e il clima di odio».

Intanto il privilegio viene abrogato. E loro si lamentano pure.

Buon venerdì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La giustizia sociale non è un tic

Il trucco è sempre lo stesso: qualcuno chiede giustizia sociale (soprattutto chi di ingiustizia sociale ci muore e si marcisce) e quegli altri rispondono che è un tic. Una volta sono gli antifascisti, una volta sono i giovani mai contenti, una volta sono le femministe nevrotiche, una volta sono i neri che vorrebbero essere bianchi, una volta sono gli stranieri che vogliono solo diritti, una volta sono i comunisti che vogliono dignità salariale, una volta sono i poveri che pretendono di essere ricchi, una volta sono i lavoratori che pretendono una giusta paga, una volta sono gli omosessuali che vorrebbero essere come gli altri, una volta sono i laici che pretendono troppo di essere laici, una volta sono i garanti che pretendono garanzie anche per gli assassini. È tutto così: chiedi un diritto e vieni etichettato come fronda, vieni messo nello scaffale di qualche associazione di idee e di persone e la richiesta di giustizia sociale viene trattata come il solito refrain da tralasciare com’è sempre stato tralasciato.

Il trucco è sempre lo stesso: normalizzare la mancanza di diritti come una situazione a cui non si può porre rimedio e come una conseguenza naturale di un modello che è l’unico possibile. Così mentre accade che negli Usa gli stranieri siano stanchi di un razzismo che oggi si è trasformato in profanazione socio economica qui da noi i subappaltatori dei rider di UberEats hanno l’impunità di dirci che i loro lavoratori  «sono africani perché gli italiani vogliono 2 mila euro al mese. Basta retorica del ‘poverini». Retorica dei poverini, eccolo il tic. E lo stesso vale per quelli che raccolgono la frutta nei campi.

La giustizia sociale non è un tic, no. E non è qualcosa che può essere coperta ogni volta invocando una guerra o una ribellione pericolosa. Quando negli Usa hanno ucciso George Floyd i bianchi vedendo le immagini hanno sospirato “oh, no” mentre i neri hanno pensato “è successo ancora”. Se avete la sensazione che su alcuni diritti “si continui a parlare sempre delle solite cose” è perché le solite cose non si sono mai risolte e sono ancora lì, a gridare vendetta.

Reclamate il diritto di essere perseveranti, giorno dopo giorno, goccia dopo goccia. Qualcuno vi additerà come noiosi e invece siete solo fedeli a voi stessi.

Buon giovedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Bibbia in mano, mascherina abbassata: quei simboli branditi per coprire il vuoto politico

È un neo-simbolismo furioso e coprente, solo che copre il vuoto, copre il niente che c’è sotto e tutta una serie di commentatori finiscono per analizzare il cerotto dimenticandosi che sotto c’è il nulla. È un neo-simbolismo che attraversa la politica internazionale e si appiattisce sulla comunicazione veloce che è solo un vomito di spot (e no, non è colpa dei social, lancerebbero le loro tiritere anche solo nei dieci secondi montati in qualche tg nazionale, allo stesso modo) e che ha bisogno di rendersi riconoscibile. Qualcuno dice “indossate le mascherine” e loro non indossano le mascherine, qualcuno protesta dall’altra parte del mondo per un razzismo cancellato solo sulla carta e Trump risponde con i poliziotti a cavallo e la Bibbia in mano, qualcuno lamenta le morti nere in mare (che chissà perché valgono meno dei morti sotto le ginocchia) e qualcuno risponde sferragliando il rosario, alcuni dettano una regola e altri violano le regole rivendicando la violazione come eroico dissentimento.

Da Salvini con la mascherina abbassata a Bolsonaro che si assembra fino a Trump che invoca i proiettili, la politica di questi giorni è tutta una lava di gesti brevi e di metafore belliche che non rispondono a una che sia una delle questioni che sono sul tavolo. Trump risponde alla violenza invocando ancora più violenza e poi lamentandosi della violenza degli altri: rispondere a una questione complessa con uno spot di qualche parola è più da incapaci che irresponsabili. I Gilet Arancioni invocano un complotto mondiale ordito per mettere in scena una finta pandemia ma non si capisce chi ci stia guadagnato e che cosa: a domanda non rispondono, sono i soliti poteri forti. Bolsonaro in Brasile ci avvisa che tanto “moriremo tutti” prima o poi: mo’ me lo segno, grazie per l’illuminante rivelazione.

Dovunque si gratti non ci sono mai soluzioni, una che sia una. Esistono solo per contrapporsi senza nemmeno sentirsi in dovere di proporre un’alternativa. Chiedete a Trump, Salvini o Bolsonaro quale sia la via per vincere: l’eliminazione degli avversari. Solo quello, solo così, come dei ragazzini che giocano a battaglia navale sul tavolo della cucina. Vivono solo di riflesso dei loro nemici, se glieli togli balbetterebbero per ore di riforme che li mostrerebbe per quelli che sono: muri, condoni, preghiere mimate, sostegno ai più forti, calpestamento dei più deboli. Modelli economici impraticabili e culto di se stessi. Sono il niente mischiato con niente che usa i simboli per nascondere le proprie pudenda.

Leggi anche: 1. Per la Festa della Repubblica in piazza ci vanno i nemici della Repubblica (di Marco Revelli) / 2. Roma, gilet arancioni in piazza del Popolo senza protezioni. Pappalardo: “Abbracciatevi!”. Troupe di La7 aggredita in diretta 

L’articolo proviene da TPI.it qui

Preparatevi: Salvini e Meloni per il 2 giugno faranno qualcosa di grosso per farsi notare a tutti i costi

Preparatevi perché domani il duo Salvini-Meloni proverà a fare più schizzi possibile per farsi notare e per ricordarci che esistono ancora. Scomparsi dal radar dell’agenda politica, infilati nella guerra al’Europa che invece ha dimostrato di esistere nel sostegno economico all’Italia, rinchiusi nella guerra agli Stati che non vogliono italiani in vacanza dimenticandosi del loro rincorrere chiusure e frontiere e ora balbettanti di fronte a una Festa della Repubblica che vorrebbero usare per racimolare qualche minuto di attenzione. Forti Meloni e Salvini, festeggiano il 2 giugno senza sapere che non ci sarebbe stato nessun 2 giugno senza il 25 aprile. E per farsi notare un centimetro in più avevano deciso di farsi un bel video deponendo una corona d’alloro ai piedi del Milite Ignoto, sostituendosi al Presidente della Repubblica per fare una foto spalmare sui social.

Simpatica la Meloni che si dichiara inorridita per non avere ricevuto l’autorizzazione di fare la controfigura, la brutta copia, del Presidente Mattarella. Ora dovrà inventarsi in tempi brevi qualche altra sceneggiata. E forte anche Salvini che al 2 giugno non si è mai fatto vedere (l’anno scorso lo festeggiava in Polonia camuffandosi da provincialissimo uomo internazionale) e che ora si dimostra fieramente innamorato di quella stessa bandiera italiana su cui ha sputato per anni. Visti da lontano i due sono un indecente spettacolo di quello che diventa la politica quando ha bisogno di trasformarsi in recita pur di farsi notare: spettacoli che durano solo il tempo di qualche articolo su qualche giornale mentre si consuma una guerra fratricida. Eh sì, perché nel centrodestra italiano tira anche una brutta arietta mica male con gli uomini di Forza Italia europeisti che stonano con gli altri due, con Salvini terrorizzato da Giorgia Meloni lanciata nei sondaggi e pronta a oscurarlo e Fratelli d’Italia che si sforza di essere di destra senza farsi superare a destra dai partitini di destra ma che deve essere moderata per andarsi a prendere i voti dei moderati. Sullo sfondo, come sempre, i fascisti in piazza rinchiusi nelle loro piccole sigle da prefisso telefonico per risultati elettorali.

Preparatevi perché la pandemia e la politica europea richiedono ai due commedianti di fare qualcosa di grosso, di dire qualcosa di forte per rubare qualche inquadratura: sarà il solito indecente spettacolo. Sarà l’ennesima festa nazionale usata per scopi di propaganda. Pronti a tutto e al contrario di tutto.

Qui gli altri articoli di Giulio Cavalli

L’articolo proviene da TPI.it qui

«Non riesco a respirare»

Eric Garner, George Floyd, Riccardo Magherini, Federico Aldrovandi… Sono morti che rimangono ai bordi delle strade, riemergono quando l’indignazione scoppia e poi vengono riseppellite di nuovo.

Il 17 luglio 2014, a Staten Island, l’agente Daniel Pantaleo afferrò per il collo fino a soffocare Eric Garner. «Non riesco a respirare», urlava disperato Garner. Morì senza respiro. George Floyd ha ripetuto «non riesco a respirare» negli otto minuti e 46 secondi in cui il poliziotto Derek Chauvin gli premeva il ginocchio sulla gola. I due si conoscevano, erano stati colleghi come buttafuori in un nightclub. Anche questa volta c’è un video che lascia pochi dubbi e che mostra i fatti. Poi c’è la macchina giudiziaria e quella, quando si tratta di forze dell’ordine, si inceppa in declinazioni mostruose: “Non ci sono elementi fisici che supportano una diagnosi di asfissia traumatica o di strangolamento”, dice il referto dell’autopsia, “gli effetti combinati dell’essere bloccato dalla polizia, delle sue patologie pregresse e di qualche potenziale sostanza intossicante nel suo corpo hanno probabilmente contribuito alla sua morte”. Alla fine sarà morto di droga. Sembra una storia già vista, eh?

I neri vengono ammazzati, preferibilmente se adolescenti: nel 2012 il 17enne Trayvon Martin in Florida, nel 2014 il 18enne Michael Brown a Ferguson, Missouri, finisce sempre così: i poliziotti assassini sono assolti, scoppiano le rivolte razziali, arriva la Guardia nazionale e comincia il coprifuoco. Secondo uno studio della National Academy of Sciences in Nord America la sesta causa di morte tra gli uomini di età tra i 25 e i 29 anni è un arresto di polizia per gli appartenenti a uno stesso nucleo etnico: rispetto ai bianchi, gli uomini afroamericani sono 2,5 volte più a rischio, le donne 1,4 volte. Per i nativi uomini, il rischio è di 1,2-1,7 volte maggiore, mentre per le donne tale fattore è compreso tra 1,1 e 2,1. Per gli uomini latini, infine, la probabilità cresce di 1,3-1,4 volte rispetto ai bianchi.

Ma non è tutto. Fatal Encounters è un sito fondato e diretto dal giornalista D. Brian Burghart che attraverso un’accurata rassegna stampa anche di testate minori e locali, ha raccolto in un database gli estremi di oltre 24.000 uccisioni effettuate dalla polizia dal 1° gennaio 2000 ad oggi: alla data del 6 gennaio 2019 venivano elencate 1810 vittime della polizia colpite tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2018. Questo significa che la polizia, prima ancora di un processo, ha ucciso 72 volte più persone di quante ne siano state messe a morte a seguito di una procedura giudiziaria.

Poi c’è il resto: un presidente incendiario che con il sorriso di Nerone osserva le proteste blindato nel suo ufficio spargendo parole di odio e di fuoco. Il mandante morale e morbido dello scontro ha gli occhietti iniettati di Trump.

Poi ci sono gli italiani che si dimenticano i nostri morti che non riuscivano a respirare: «mio figlio Federico è morto nello stesso modo di George Floyd. Schiacciato sotto le ginocchia e il peso di un poliziotto mentre chiedeva aiuto e diceva “non riesco a respirare”», ha scritto Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovrandi. Urlava la stessa frase Riccardo Magherini, morto la notte del 3 marzo 2014 quando venne fermato dai carabinieri.

Sono morti che rimangono ai bordi delle strade, riemergono quando l’indignazione scoppia e poi vengono riseppellite di nuovo.

Buon lunedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.