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Referendum, Nespolo (Anpi) a TPI: “Tagliare i parlamentari per risparmiare? No, si riducano gli stipendi”

Carla Federica Nespolo, 77 anni, ex parlamentare del Pci e del Pds, è la prima donna a presiedere l’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia). Con lei discutiamo del referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari, in calendario il 20 e 21 settembre. L’Anpi si è schierata per il No.
Nespolo, come risponde al movimento anti-casta, secondo cui il No è la posizione dell’arroccamento?
Più che di “movimento anti-casta” io parlerei esplicitamente e francamente di pensiero populista. Al fondo del quale, inutile girarci attorno, c’è il rifiuto della democrazia come partecipazione e diritto del popolo a scegliersi i propri rappresentanti. Se per “uomini rinchiusi nei palazzi” i fautori del Sì intendono anche i 183 costituzionalisti italiani che si sono dichiarati per il No, dimostrano di non aver capito nulla di quello che, nel colpevole silenzio di tanti, oggi è in gioco.

Cosa c’è in gioco?
Si tratta, sostanzialmente, di un attacco alla democrazia rappresentativa. Non dimentichiamoci che uno dei primi atti del Governo, dopo il 25 Aprile 1945, fu quello di dare a tutti (uomini e donne) il diritto di voto. E dopo 75 anni si vorrebbe tornare indietro e privare persino alcune Regioni del diritto di essere pienamente rappresentate in Parlamento? Inaccettabile. Altro che “casta”: la “casta” è proprio dei “notabili” di partito che, non a caso, sembrano tutti uniti  – ma con molti problemi interni – a votare Sì.

I motivi principali per cui l’Anpi ha deciso di esprimersi per il No: quali sono i valori da difendere?
La difesa della democrazia per cui, 75 anni fa, un’intera generazione si è sacrificata, ha combattuto e vinto. E oggi troppi se ne dimenticano. Mi lasci citare un terribile verso di Giorgio Caproni: “I morti per la Libertà, chi l’avrebbe mai detto, i morti. Per la Libertà, Sono tutti sepolti”. Ecco. L’Anpi è in campo per questo. Perché la democrazia, che tanto sacrificio e tante lotte è costata, non venga oscurata e vilipesa da chi la considera un ostacolo alla propria ascesa politica.

Si insiste molto sul risparmio dei costi, come già avvenuto nell’ultimo referendum costituzionale. Non teme che questo argomento possa essere una spinta difficile da arginare?
Quella dei costi è una sciocchezza che non merita neppure una risposta. Vogliono davvero ridurre i costi del Parlamento? I parlamentari si riducano lo stipendio. Punto e basta. Ma non possiamo nasconderci che questo tema ne nasconde un altro. E cioè la poca stima che l’opinione pubblica ha verso un certo ceto politico. In questo senso condivido la frase del comandante De Falco: “Non voglio essere rappresentato meno, voglio essere rappresentato meglio”.

Il Pd sembra non volersi esprimere o esprimersi molto blandamente a proposito di questo referendum. Che consiglio darebbe al partito di governo?
Non è compito dell’Anpi dare un consiglio ad alcun partito. E tanto meno al Pd. Certo la contraddizione tra aver votato per tre volte contro e ora votare a favore è lampante. Insomma, non sempre sacrificare sull’altare della governabilità la propria coerenza è un buon calcolo. Comunque ho grande rispetto per il travaglio che sta attraversando il Pd. Ma non è un tema che ci vede protagonisti.

In questi giorni circola molto un’intervista in cui Nilde Iotti dichiara che il numero dei parlamentari italiani è eccessivo e dal fronte del Sì sono in molti a ripetere che la riduzione del numero dei parlamentari sia una battaglia storica della sinistra. Come risponde?
Alla citazione di Luigi Di Maio rispetto alla posizione di Nilde Iotti ha già risposto esaurientemente Livia Turco, presidente della Fondazione Iotti. Quello che la presidente Iotti proponeva era un intero nuovo impianto istituzionale, a cominciare da una nuova legge elettorale. Separare la rappresentanza dalla sua funzione è quanto di più volgarmente tattico si possa fare. Mai la presidente Iotti lo avrebbe affermato.

Come ha intenzione l’Anpi di occuparsi di questa campagna referendaria? Con quali mezzi? Come arrivare a più gente possibile, tra l’altro in un periodo difficile come questo in piena pandemia?
L’Anpi sta facendo il suo dovere. Le nostre sezioni territoriali stanno illustrando in ogni parte d’Italia le nostre ragioni e il 10 settembre alla Sala della Protomoteca in Campidoglio, a Roma, faremo il punto con importanti giuristi sulle ragioni del nostro No. Prevediamo anche un intervento di un rappresentante delle Sardine. Inoltre, siamo e saremo attivi anche sui social network. Invitiamo tutti ad andare a votare No. E mi lasci chiudere con una nota di ottimismo.
Prego.
Ce l’abbiamo fatta nel 2016. Ce la faremo anche nel 2020.

Leggi anche:  1. Taglio parlamentari, il costituzionalista Ceccanti a TPI: “Chi votò Sì alla riforma Renzi dovrebbe rifarlo oggi. Ma preferisce attaccare il M5s” / 2. La politologa Urbinati a TPI: “Taglio dei parlamentari? Così il M5S favorisce la casta” / 3. Taglio dei parlamentari: ecco cosa prevede la riforma e come funziona il referendum

L’articolo proviene da TPI.it qui

Il problema non sono i furbetti dei 600 euro, ma i leader che li hanno portati in Parlamento

Guardare il dito e la luna. È una storia che comincia come una barzelletta: ci sono tre leghisti, c’è un Cinque Stelle e uno di Italia Viva, la caccia ai nomi sarà lo sport della giornata e forse anche dei prossimi giorni. Che in mezzo ai richiedenti ci siano anche presidenti di regioni (che certo non hanno stipendi inferiori ai parlamentari) sembra essere sfuggito ai più. L’importante sono i parlamentari, gli obiettivi sono i parlamentari, tutti addosso ai parlamentari. Sia chiaro: che i cinque siano l’antitesi di quella disciplina e di quell’onore che sono richiesti dalla Costituzione a chi si ritrova a governare la cosa pubblica è fuori da ogni dubbio.

Chiedere 600 euro nella comodissima posizione dell’essere parlamentare è un gesto infimo, siamo d’accordo ma una riflessione ragionata e ampia dovrebbe spingerci a porci domande e allargare la discussione. Una norma, ad esempio, che prevede un contributo a pioggia, senza limiti di reddito, a tutti è politicamente sbagliata e praticamente inutile ai fini dell’uguaglianza sociale: i parlamentari hanno sfruttato una falla nella legge (e fanno schifo anche per questo) che ha permesso a molti benestanti di usufruire di un bonus di cui non avevano bisogno. Diciamolo: dare 600 euro a tutti è stata una pessima idea, forse dettata dall’emergenza, ma una pessima idea. Il buon legislatore scrive le leggi (e i decreti) perché siano funzionali ai più bisognosi e perché sbarrino la strada ai furbi. In questo caso non è successo, diciamolo chiaramente.

Poi dell’epoca Covid sarebbe da raccontare anche quella parte di imprenditori che hanno usufruito della cassa integrazione senza avere nessuna riduzione di fatturato, sarebbe da parlare dei cassintegrati che hanno continuato a lavorare normalmente per qualche imprenditori che si ritene particolarmente furbo, sarebbe da parlare di chi in nome dell’emergenza si è addirittura arricchito usufruendo comunque degli aiuti di Stato. Facendo due conti siamo di fronte a un dissanguamento di denaro pubblico enormemente più grave di quel gruzzolo di 600 euro. Sarebbe bello che l’INPS ci parlasse anche di questo, no?

E infine un punto strettamente politico: quanto comodo fa all’antipolitica (quell’antipolitica che ci ha trascinati in questo gretto populismo) che dei parlamentari vengano sventolati come prova della fallacia di una legge che invece ha favorito una platea ben più vasta? Quanto gioca tutto questo per il prossimo referendum (populista) che ancora una volta punta sulla quantità e non sulla qualità? E soprattutto: ma chi ha scelto quei parlamentari, quelli che dovrebbero formare la classe dirigente di questo Paese, non ha nulla da dirci? Perché quei nomi li sappiamo già: Matteo Salvini, Gianroberto Casaleggio e Matteo Renzi. Loro non hanno nulla da dirci?

L’articolo proviene da TPI.it qui

Il leghismo spiegato semplice semplice. Partendo dai referendum per l’autonomia


“Sarà anche solo un referendum consultivo ma è sempre meglio di niente”, dicevano. Così come “è meglio di niente” il crocifisso nelle scuole, sognare la sparizione della microcriminalità colpendo una razza, vagheggiare di risolvere il problema dell’immigrazione a colpi di tweet e di qualche barca respinta, farsi sedurre da un’idea di sicurezza basata sulla microcriminalità (anche questa divisa per razze). L’elettore di Salvini è così: anche se non serve a niente, meglio di niente, dice. E non serve a niente. E non è mai meglio di niente. È niente.
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Fuori dalle balle (della Lega)

Sono tanti i motivi per cui credo che votare al referendum leghista di Veneto e Lombardia sia un pessimo modo di legittimare una farsa. Tra gli altri, come scrive bene Stefano Catone qui, vale la pena smascherare qualche punto:

 

Se vince il Sì, «Regione Lombardia avvierà il percorso istituzionale per ottenere maggiore autonomia, vale a dire più competenze e più risorse, nell’ambito del cosiddetto RESIDUO FISCALE, ovvero la differenza tra le tasse pagate allo Stato e quanto lo Stato restituisce sul territorio».

Balle. La materia fiscale non è tra le competenze oggetto del referendum e non può neppure essere oggetto di referendum. Balle al quadrato.

Col voto elettronico si ha «la garanzia della segretezza e della sicurezza del voto».

Altra balla. Il voto elettronico offre scarse garanzie, che si riducono ai minimi termini se pensiamo che la società che gestirà le operazioni è la più screditata del mondo.

Siccome oltre venti materie non sono abbastanza e siccome – soprattutto – bisogna metterci un pizzico di immigrati, «La Lombardia intende altresì esercitare un’energica azione politica al fine di ottenere un’ancora più ampia competenza da declinare sul proprio territorio in materia di sicurezza, immigrazione ed ordine pubblico».

Falso. Sono competenze esclusive dello Stato. Da segnalare che Formigoni (ci tocca citare Formigoni, pensa te…), nel 2007, individuò dodici materie da portare al tavolo delle contrattazioni.

Dopo averci spiegato che cos’è il «RESIDUO FISCALE» (lo scrivono sempre in maiuscolo), dicono che «A seguito dell’esito positivo del referendum la Regione si propone di trattenere almeno la metà del RESIDUO FISCALE (vale a dire 27 miliardi) per finanziare le nuove competenze oggetto di trattativa con il Governo».

Il «RESIDUO FISCALE» non c’entra nulla, l’abbiamo già spiegato. Altra balla al quadrato.

Come si dice a queste latitudini «föra di ball», cara Regione Lombardia. Il referendum è uno strumento che deve stare saldamente nelle mani del popolo, perché questo possa rivendicare la propria sovranità, temporaneamente delegata. Se diventa uno strumento nelle mani del potere, allora il fine diventa plebiscitario, snaturando la natura stessa dell’istituto e svilendo l’importanza del voto.

Non partecipiamo alla farsa, lasciamoli alle loro balle.

 

(il post di Catone è tutto qui)

E intanto Maroni compra i tablet per il referendum dal fornitore più screditato del mondo

Il mio pezzo scritto per Possibile:

Roberto Maroni, presidente del sultanato di Lombardia, spende 23 milioni di euro per il prossimo referendum-truffa sull’autonomia lombarda acquistando 24mila tablet. «È il voto elettronico, bellezza!», dice tutto compiaciuto in conferenza stampa mentre sciorina l’avanzamento tecnologico di una regione che per prima decide di abbandonare le matite. Del resto in Lombardia ciò che conta, da tempo, è la narrazione del futuro e fa niente che poi, alla fine, il tutto si riduca alla propaganda che (Lega in testa) continua a propinare da decenni.

Ma non è questo il punto: il sistema per il voto elettronico è stato sviluppato da una società olandese, la SmartMatic, che ha vinto la ricca gara d’appalto e che in Regione viene presentata come fiore all’occhiello. E allora vediamo bene chi è questa punta di diamante. SmartMatic è, per chiunque si occupi di politica internazionale, il simbolo di un’opacità (aziendale e di prodotto) di cui solo Maroni sembra non essersi accorto. Stiamo parlando della stessa azienda che nel 2006 è finita nella “lista nera” degli USA per il fiasco elettorale di Chicago (quando votarono addirittura “i morti”, come nella migliore tradizione cartacea) e il suo fondatore, Antonio Mugica, è accusato da tempo di essere stato “vicino” a Chavez e ai suoi eredi e di avere intenzionalmente manipolato le regole elettorali in Venezuela (qui un articolo). Forse vale la pena ricordare anche che l’unica volta che Mugica ha concesso un controllo terzo dell’affidabilità dei suoi sistemi di voto (era il 23 novembre del 2005, in Venezuela, in presenza degli osservatori elettorali dell’Unione Europea e dell’OAS) è stato dimostrato come la segretezza del voto “fosse gravemente compromessa”.

E, se non bastasse, vale la pena leggere cosa scrive Alek Boyd, giornalista e attivista per i diritti politici, che in suo articolo racconta come “l’unica volta che SmartMatic ha partecipato a un processo elettorale negli USA (rivelatosi un clamoroso fiasco, Chicago 2006 nda) si è rifiutato di offrire qualsiasi collaborazione al governo USA” e che SmartMatic ha vinto dal 2004 appalti per oltre 300 milioni di dollari soprattutto “da parte dei governi irresponsabili di Paesi sottosviluppati dove i principi democratici, come elezioni libere e eque o la trasparenza, sono stati completamente disattesi”.

Ecco tutto. Buon voto, quindi.

 

Il PD lombardo che vota con Maroni “per non lasciargli tutti gli onori”. E farà rivincere Maroni.

Non lo so. A me questa cosa davvero manda fuori di testa. Ne ha scritto Luigi Franco per Il Fatto Quotidiano:

Nemmeno il tempo di mettere alle spalle la batosta alle amministrative, che per il Pd in Lombardia se ne preparava già un altra. Quella al referendum per l’autonomia della Regione lanciato dal governatore Roberto Maroni e fissato per il 22 ottobre, in contemporanea con il Veneto. Batosta quasi certa, se si fosse puntato sul no o si fosse chiesto di non andare a votare per boicottare la consultazione. E allora ai sindaci di centrosinistra dei capoluoghi lombardi – tutti meno Pavia – non resta che schierarsi apertamente per il sì. Anzi, fondare addirittura un comitato per il sì. Una linea capeggiata dal primo cittadino di Bergamo Giorgio Gori e da quello di Milano Giuseppe Sala. Non che loro si siano contraddetti più di tanto, visto che in passato avevano fatto intendere che erano contrari al referendum (“uno spreco di soldi”), ma che se proprio si fosse dovuti andare a votare, avrebbero votato per avere più autonomia da Roma. Solo che ora la mossa dei sindaci non può che sconfessare quella che fino a ieri è stata la linea del Pd, sia in consiglio regionale che a livello nazionale. Con il segretario e consigliere lombardo Alessandro Alfieri e il ministro Maurizio Martina che hanno sempre sostenuto una cosa: fare il referendum significa buttare via milioni di euro, visto che gli stessi risultati si possono ottenere negoziando maggiori autonomie con il governo.

E invece ora il niet al referendum targato Lega è saltato. “L’autonomia e i beneficiper la crescita e il lavoro per tutti non possono essere strumentalizzati da una parte politica che ha isolato fino ad ora la Lombardia – hanno dichiarano in una nota congiunta i sindaci di Milano, Bergamo, Brescia, Varese, Lecco, Mantova, Cremona e Sondrio – Per questo diciamo un sì convinto e ci organizzeremo perché il referendum sia una vittoria di tutti i lombardi e non una bandierina di una parte”. E non è un caso che la nota sia arrivata dall’ufficio stampa di Gori. Perché il primo cittadino di Bergamo ha appena confermato la propria disponibilità a candidarsi per le prossime Regionali, in programma a primavera 2018 se non prima. E non ha proprio voglia di lasciare al possibile sfidante Maroni tutto il palcoscenico di una campagna referendaria, tanto più che la compagnia si avvia a probabile successo. E così, dopo i deludenti risultati dei ballottaggi, meglio lanciare subito agli elettori un messaggio chiaro sul referendum. Elettori, che tra l’altro, vanno informati bene, sostengono i sindaci di centrosinistra: “Sul tema del referendum – spiega Gori – i contenuti della propaganda leghista (volta a far credere che serva per trattenere qui decine di miliardi di euro) sono del tutto mistificatori e pertanto non condivisibili. Il Comitato per il sì, lanciato ieri dai sindaci lombardi, aperto alla partecipazione di tutti gli amministratori, è invece centrato sui ‘veri contenuti‘ del referendum (trasferimento di competenze dallo Stato alla Regione, per una maggiore autonomia della Lombardia)”.

Ed è proprio su questo aspetto che ha battuto il segretario regionale Alfieri, dopo che il comunicato stampa dei sindaci ha fatto in pochi istanti carta straccia di mesi di dichiarazioni impostate su un’altra posizione: “E’ un bene che i sindaci dei capoluoghi lombardi riportino il focus del referendum sulle competenze e sul regionalismo differenziato – dice Alfieri – I lombardi avranno a disposizione un’altra voce che non parlerà loro di fantomatici miliardi di euro ma di come rendere la Lombardia più forte e competitiva con maggiori poteri. Allo stesso tempo, rimaniamo convinti che sia un grave errore non aver trattato da subito con il governo e aver invece voluto indire un referendum che costerà ai cittadini lombardi 46 milioni di euro”. Pd regionale, dunque, che deve rifare la tara sul referendum. Così come, a sentire il sindaco di Milano Beppe Sala, deve ritararsi anche sulla presenza nei territori: “Non so quanto si sia dato il giusto peso alle amministrative, non so se i dirigenti del Pd siano andati in giro abbastanza a supportare i candidati – si è lamentato a ballottaggi da poco conclusi -. Salvini è stato più presente in campagna elettorale”.

Quanto al referendum, tra i sindaci dei capoluoghi lombardi del Pd, l’unico a distinguersi è quello di Pavia, Massimo Depaoli: “Ritengo che alcune materie non vadano trasferite alle regioni. Per esempio le diversificazioni regionali su ambiente e istruzione producono problemi”. Per il resto gli altri sindaci hanno portato il Pd ad allinearsi alle altre forze politiche: sì a maggiore autonomia. “Che confusione in casa dem”, è l’ironia di Maroni su Facebook. “Il Pd cambia rotta dopo la batosta elettorale – dice il capogruppo di Forza Italia al Pirellone Claudio Pedrazzini -. Hanno annusato l’odore della sconfitta e cercano di correre ai ripari”. Per chiudere con Andrea Fiasconaro del M5S: “In Regione non vogliono il referendum, ma i suoi sindaci voteranno sì. Il Pd regionale ha mentito spudoratamente sulle aperture del governo Renzi-Gentiloni per dare più autonomia e risorse alla Lombardia”.

Grufolano sulla nonna di Renzi e intanto affossano la legge sulla tortura (e il “teorema Zuccaro” non esiste)

Forte questo governo Gentiloni. Ancora una volta, dopo quella brutta legge sulla legittima difesa (che si augurano di aggiustare in quel Senato che volevano abolire) ieri alla Camera sono riusciti a partorire una legge sulla tortura che appena nata ha già infranto parecchi record: non è stata votata dal suo primo firmatario Luigi Manconi (come se un ristoratore servisse nel suo ristorante un suo piatto avvisandovi che farà schifo), ha meritato critiche dalle associazioni umanitarie che si occupano di tortura e dai famigliari dei torturati e, per di più, è riuscita a fare arrabbiare anche le forze di polizia. Un capolavoro di inettitudine. Solo che questa volta è il Senato a confidare nella Camera perché “intervenga con le opportune migliorie”. In tempi di referendum i sostenitori della riforma costituzionale lo chiamavano “ping pong” e invece è banalmente dappocaggine.

Forte anche tutto il can can sul teorema Zuccaro: frotte di politici che si sono buttati a pesce che si doveva “fare chiarezza sulle ONG” dimenticandosi di essere pagati proprio per quello. Quando si sono ripresi hanno messo in piedi un’indagine conoscitiva affidata alla Commissione Difesa che finalmente ha prodotto un risultato: non ci sono inchieste in corso sulle ONG (ma va?) e c’è una sola inchiesta (“conoscitiva”) su alcune persone (non meglio specificate). In sostanza: non esistono al momento attuale elementi che possano farci dubitare di eventuali accordi illeciti tra ONG e scafisti. Balle, insomma. Balle grasse e stupide che hanno riempito la bocca di una manciata di politici pressapochisti che oggi invece rimangono muti.

 

(continua su Left)

Pazza idea: evitare il referendum sul Jobs Act

Ne scrive Luca Sappino su Left qui:

La bomba l’ha sganciata Poletti, svelando ciò che Left aveva tristemente subodorato – tant’è che sul prossimo numero in edicola, Tiziana Barillà chiede direttamente a Maurizio Landini cosa farà se il Pd dovesse spingere per far finire la legislatura anticipatamente, con una tempistica utile a far slittare il referendum sul jobs act, quello sui voucher e gli altri quesiti “sociali” su cui la Cgil ha raccolto oltre tre milioni di firme. Perché questa, dice Poletti, è l’idea dei più. «Mi sembra», ha detto il ministro ai cronisti, «che l’atteggiamento prevalente sia quello di andare a votare presto. E se si dovesse andare ad elezioni anticipate diventa ovvio che per legge l’eventuale referendum sul jobs act sarebbe rinviato».

[…]

La legislatura, insomma, dovrebbe finire prima di aprile. O prima della data che si assegnerà alla consultazione. Questo perché la legge 352 del 1970 stabilisce che «ricevuta comunicazione della sentenza della Corte costituzionale, il Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei Ministri», indica con decreto il referendum, fissando la data di convocazione «in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno». E però, «nel caso di anticipato scioglimento delle Camere», continua la legge, ben chiara nella testa di Poletti, «il referendum già indetto si intende automaticamente sospeso», destinato a slittare ben un anno dopo, almeno, le elezioni. Renzi, così, non rischierebbe di veder demolita, dopo la riforma costituzionale, un’altra sua legge-manifesto.

(l’articolo completo è qui)

Non bastava un sì. E non basta un no. Si riparte.

(dopo un Tour ricostituente lunghissimo e straordinario, dopo una notte che s’è fatta giorno e dopo avere scritto il mio editoriale per Fanpage qui e il mio buongiorno stamattina per Left qui, ecco il pezzo per i Quaderni di Possibile, insostituibili compagni di viaggio. E grazie a tutti quelli che mi hanno ascoltato, domandato, letto e criticato.)

Altro che post-verità. Qui siamo alla post-politica, inondati dall’arroganza di chi nonostante abbia perso non riesce a disinstallarsi la propaganda e rimane arrogante più di prima: mentre Renzi esce di scena (ma è un intervallo, mica la fine) curiosamente nel Paese è rimasta accesa la folta accolita di scherani di chi ha dovuto svegliarsi senza il capo e senza le cavallette, senza voti sul filo di lana e senza crolli di borsa. Lui è uscito ma si è dimenticato di spegnere i suoi, evidentemente.

Non bastava un sì per cambiare l’Italia e non basta un no. Nonostante qualcuno ancora sembra non aver capito la differenza tra un fronte referendario e un fronte politico noi abbiamo passato mesi (e chilometri) a ripetere che il nostro “no” è pieno di sì, di progetti, di contenuti e di idee per un Paese Possibile. Abbiamo rimbalzato le risse entrando nel merito di ciò che non ci piaceva e abbiamo scritto e ripetuto come l’avremmo fatto; abbiamo raccontato quanto fosse indigeribile questa sinistra travestita da destra; abbiamo ascoltato e risposto.

Ora continuiamo. Così. Ripartiamo subito, dal no al noi, per passare dalla difesa della Costituzione alla crescita di una comunità che è viva e che si è cementata in mesi di campagna serratissima. Ripartiamo dall’impegno di seminare un progetto che, nonostante in molti si siano impegnati (e lo faranno ancora) a banalizzare, sta tutto nelle politiche dei nostri comitati, negli studi dei nostri scritti, nelle proposte dei nostri parlamentari e in tutto quello che c’è da fare e che faremo.

Facciamo politica, insomma. La nostra politica, che la Costituzione ha una voglia matta di applicarla piuttosto che revisionarla. E continuiamo a farlo seriamente. Il Tour Ricostituente ora si fa più ricco: c’è da costruire, oltre che difendere. Ed è la parte che preferiamo.