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L’inettitudine, del resto, agita la paura

(da il manifesto, 29 novembre 2016)

Siamo alle ultime cartucce della lunghissima campagna elettorale referendaria. Considerati i suoi scarsi argomenti di merito, lo schieramento del Sì fa affidamento su un terrorismo psicologico sulla paura del dopo, in particolare per le sorti economiche del paese. La strategia renziana, ispirata dai suoi consulenti americani – per la verità fin qui assai poco efficaci – punta a fare leva sulle tasche di quei cittadini che non le hanno del tutto vuote. Il suo target è quella che Renzi ha definito la «maggioranza silenziosa».

Del resto che il referendum si vinca a destra è sempre stata una sua convinzione. E non solo sua, visto la generosa mano d’aiuto che riceve da vari endorsement – last but non the least, quello dell’Ocse – e da molteplici e ben mirate campagne giornalistiche internazionali.

Il Financial Times è tornato a gamba tesa sull’argomento, profetizzando il fallimento di ben otto banche in caso di sconfitta del Sì. The Daily Telegraph insiste sul ridicolo argomento di un pericolo dell’uscita dell’Italia dall’euro. Sulla stessa linea si posiziona The Sunday Times Business. FigarEconomie racconta dell’inquietudine dei mercati finanziari, comparando la Brexit alla possibile vittoria del No. Nei pastoni economici nostrani si aggiunge anche il temuto fallimento dell’imminente vertice di Vienna sui tagli alla produzione petrolifera. Non c’entra ma fa gioco.

In realtà nulla di tutto ciò ha un qualche fondamento reale.

Certamente i mercati finanziari non resteranno immobili come statue di sale a fronte degli esiti del voto italiano. Ma non è certo quest’ultimo a determinare grandi sommovimenti. Lo aveva già detto la stessa Standard&Poor’s, lo ribadiscono gli analisti di Goldman Sachs affermando che, come sanno tutti gli operatori del settore, il «rischio» referendum è già stato introiettato, cioè «prezzato», per evitare scossoni nei prossimi giorni. È altrove che bisogna guardare per comprendere cosa accade veramente nei mercati finanziari.

La vittoria di Donald Trump, ad esempio, ha scatenato uno dei più grandi trasferimenti tra attività finanziarie della storia, con lo spostamento di circa 500 miliardi didollari in 48 ore dalle obbligazioni verso il comparto azionario mandando i paradiso Wall Street.

E buona parte di quei capitali sono stati disinvestiti dall’Europa – a cominciare dai paesi meno promettenti come il nostro – per raggiungere le sponde d’oltreatlantico.

L’ala protettrice del prolungamento del quantitative easing di Draghi avrà il suo da fare.

Lo stesso Wolfgang Munchau riaggiusta il tiro rispetto a qualche giorno fa e invita i governanti europei (lo sguardo è rivolto ai prossimi appuntamenti elettorali in Austria, in Francia, in Olanda e in Germania) a risolvere i problemi di un sistema finanziario fuori controllo, anziché «insultare gli elettori».

Il Financial Times fa il nome delle otto banche italiane a rischio, e ovviamente si tratta di quelle già notoriamente in grave difficoltà. Rispetto alle quali tanto gli organismi di vigilanza, quanto il governo hanno più che pesanti responsabilità. Sintomatica la vicenda del Monte dei Paschi di Siena, ove emerge l’avventurismo spregiudicato di Renzi. Il suo mancato salvataggio potrebbe, questo sì, provocare contagi nell’intero sistema europeo. Ma per paura di reazioni da parte dei risparmiatori sul modello di quelle viste in occasione dell’intervento su Banca Etruria e le altre tre sorelle di sventura, il Presidente del Consiglio ha preferito la soluzione privata. Consigliato – rivelano fonti bene informate – da Vittorio Grilli, ex ministro di Monti e ora dirigente europeo di JP Morgan, sulla base di assicurazioni ricevute in prima persona da Jamie Dimon, Ceo del colosso bancario Usa, nonché possibile segretario al Tesoro con Trump. Da lì è nata la macchinosa operazione in tandem fra JP Morgan e Mediobanca.

Eppure Soros glielo aveva detto: per vincere il referendum devi prima risolvere il problema bancario, ma Renzi ha capito il contrario. E ora sono dolori. Ma la colpa non è del No.

Lui, che aveva impostato tutta la sua vicenda politica e umana sulla speranza, ridotto a brandire il panico e l’angoscia.

(niente da aggiungere a ciò che scrive qui Alessandro Gilioli:)

«Il governo tecnico non lo posso scongiurare io, lo dovete scongiurare voi con il Sì. Il rischio c’è, è evidente».

Così, a una settimana dal voto, il premier ci ha riportati alla casella di partenza. All’après moi le déluge.

Erano già diversi giorni che la cosa montava: la riduzione totale del referendum costituzionale alle conseguenze per i prossimi sei mesi, per il prossimo anno e mezzo ad essere generosi. Tutti i buoni propositi – “confrontiamoci sui contenuti”, su quello che di migliorativo o peggiorativo può portare la riforma costituzionale alla forma della Repubblica – sono andati gradualmente in vacca.

Ma così siamo perfino un po’ peggio della casella di partenza, a 11 mesi fa, quando Renzi diceva semplicemente che in caso di sconfitta avrebbe «fatto altro nella vita».

Perché adesso l’alternativa brandita al Sì è direttamente la Troika. Altro che “personalizzazione”: è più propriamente ricatto. Come se, oltre Renzi, non ci fosse la politica – nessuna possibilità di politica – ma solo la tecnocrazia. Il capo del governo in carica si vende come ultimo baluardo contro la tecnocrazia e il montismo: ciò che gli italiani più hanno – fondatamente – detestato. Ciò che nessuno vuole. Après moi le déluge, appunto.

È possibile che sia una mossa disperata, come dicono alcuni.

È possibile però anche che così invece lo vinca, questo referendum: per paura. Incutendo paura. La paura di acque inesplorate, la paura dello spread, la paura della Troika.

Sì, lo dico tranquillamente: ne conosco diversi, tra conoscenti e parenti, tra cui questa cosa ha effetti. Anche un vicino di casa, ieri, funzionario dello Stato, persona perbene: «D’accordo, la riforma fa schifo, ma se vince il No poi chi governa?». Troppa paura del domani mattina, il mio vicino perbene e funzionario dello Stato.

Insomma, se Renzi dovesse vincere, tra una settimana, avrà vinto così: con l’arma del terrore.

Con il ricatto della Troika e della tecnocrazia.

Lui, che aveva impostato tutta la sua vicenda politica e umana sulla speranza, ridotto a brandire il panico e l’angoscia. Cha parabola strana, e a cosa costringe la politica quando è soprattutto potere.

(continua qui)

Perché votare No ce lo spiega (involontariamente) Beppe Sala

(un magistrale Stefano Catone, compagno di Possibile, ne scrive qui:)

Beppe Sala, in un’intervista video rilasciata un paio di giorni fa, spiega in un minuto e mezzo perché bisogna votare No al referendum costituzionale, e lo fa partendo dalla composizione del nuovo (si spera di No) Senato.

Il nuovo (si spera di No) Senato, infatti, sarà composto, oltre che da 74 consiglieri regionali eletti dai Consigli regionali, anche da 21 sindaci, uno per Regione e uno per la provincia autonoma di Trento e uno per quella di Bolzano (ma non dovevamo eliminarle, le province?). Anche i sindaci saranno eletti dai consiglieri regionali.

La prima domanda è: perché i consigli regionali devono eleggere a senatore un sindaco? Perché non sono i comuni a scegliersi il sindaco che li rappresenterà? La risposta non la sappiamo, ma possiamo intuire le distorsioni causate da un simile metodo di scelta: a) anche il sindaco rientrerà nel mercanteggiamento partitico tra gruppi consiliari e b) il sindaco non avrà un mandato rappresentativo dei comuni.

Lo spiega benissimo Beppe Sala, appunto, il quale dice che farebbe volentieri parte del nuovo Senato perché «sarebbe un altro modo per portare il contributo di Milano, […] la troverei una cosa giusta per poter rappresentare a Roma le nostre istanze». Caro Beppe, cari sindaci che comporrete il nuovo (si spera di No) Senato: stando alla lettura della riforma non si capisce cosa rappresenterete a Roma, ma siamo sicuri che avrete un occhio di particolare riguardo per la vostra città. E allora mi chiedo, da varesino: per quale motivo dovrei sentirmi rappresentato a Roma dal sindaco di Milano? Non è che il sindaco di Milano avrà interesse a far ricadere esternamente al proprio territorio, magari dalle mie parti, cose non esattamente gradevoli? Pensiamo solamente al rapporto che esiste tra l’aeroporto milanese di Linate e l’aeroporto milanese, ma su territorio varesino, di Malpensa, e quello (un po’ meno milanese), ma su territorio bergamasco, di Orio al Serio: quali interessi difenderà il sindaco di Milano?

Sala prosegue dichiarando che il sindaco di Milano potrebbe passare «massimo un giorno a settimana a Roma» e che quindi «dice di Sì, ma dopo aver capito cosa vuol dire l’impegno, però penso che un giorno a settimana si possa fare, di più diventa un po’ difficile». Lo spieghiamo un po’ noi, a Beppe Sala, cosa farà il nuovo (si spera di No) Senato. Il Senato mantiene piena funzione legislativa «per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, […]per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, […] per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni». E’ sufficiente? No, perché il Senato dovrebbe anche stabilire «le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea».

Tutto qui? No, perché comunque «ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti [una minoranza che volesse fare ostruzione quanto ricorrerà a questa possibilità? Tantissimo.], può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva». Il Senato dovrà poi necessariamente esaminare le leggi che fanno valere la clausola di supremazia (secondo la quale il governo si sostituisce alle regioni su materie di competenza di queste) entro dieci giorni dalla trasmissione, e le leggi inerenti al Bilancio entro quindici giorni dalla trasmissione.

Il Senato inoltre può «richiedere alla Camera dei deputati di procedere all’esame di un disegno di legge» e «disporre inchieste su materie di pubblico interesse concernenti le autonomie territoriali». Il Senato partecipa all’elezione del Presidente della Repubblica e dei giudici della Corte Costituzionale (procedimenti che si esauriscono in un giorno alla settimana, come no…).

Sala non capisce se si possa fare bene il Senatore e il sindaco di Milano. Glielo diciamo noi: no, a meno che – grazie alla clausola di supremazia – non si decida di portare l’alta velocità direttamente a Palazzo Marino.

E cosa farebbe Sala se l’impegno richiesto fosse superiore a un giorno a settimana? «No, no, no… Io sono il sindaco di Milano e quindi in primis devo fare il sindaco di Milano… Se fosse una cosa… Allora a quel punto lì non potrei farlo… Ovviamente non ho nessun dubbio: privilegio Milano sopra ogni altra cosa».

Ecco, appunto.

Ultima nota di colore. Da più parti ci dicono che grazie alla riforma agganceremo gli emolumenti dei consiglieri regionali a quelli dei sindaci, e infatti si dice che questi saranno riportati «nel limite dell’importo di quelli attribuiti ai sindaci dei Comuni capoluogo di Regione». Peccato che l’indennità di carica di un Consigliere regionale lombardo sia pari a 75.924 euro lordi annui (cui si aggiungono circa 50mila euro di rimborsi ed eventuali indennità legate alle funzioni), e quella del sindaco di Milano a circa 9mila euro lordi al mese, che moltiplicato per 12 fa 108mila euro.

Nel merito. Slogan contro realtà: le conclusioni del Centro Studi Livatino

Scrive Il Centro Studi Livatino:

«Venendo incontro alle richieste di più d’uno per comunicare in modo agile le ragioni del No al referendum del 4 dicembre, abbiamo predisposto il pdf allegato che: a) senza ulteriori elaborazioni, può essere stampato e distribuito come un volantino: non lo abbiamo stampato noi, perché avrebbe richiesto tempo e risorse finanziarie che non abbiamo. E’ però a disposizione gratuita di chiunque desideri adoperarlo per tirarne il numero di copie di cui ha necessità; b) si presta ad essere diffuso per mail, facebook, sui blog…; c) può costituire comodo ausilio da affiancare ai numerosi interventi pubblici che si stanno moltiplicando in questi giorni.
Mentre i sostenitori del Sì hanno dalla loro larga parte dei media nazionali, hanno elaborato un quesito truffaldino, utilizzano ogni mezzo di propaganda pur di raggiungere il risultato (la vicenda delle schede e dei depliant inviati agli italiani all’estero è la più significativa), noi possiamo contare sulle ragioni elaborate negli ultimi mesi con studio e sacrificio, e sulla generosità che intensificheremo fino al momento del voto per raggiungere ogni persona poco informata, incerta, dubbiosa. Teniamo conto che il numero degli indecisi – se votare e che cosa votare – supera il 50% degli italiani: il che, al di là dei sondaggi, lascia aperto ancora qualsiasi risultato. E’ ovvio che si può e si deve andare in profondità: ma per questo aiutano gli studi e le pubblicazioni che confluiscono in questo sito .
Ti invitiamo quindi a dare e a far dare la diffusione massima al pdf allegato: come confermano gli esiti di tornate elettorali anche recenti, nulla è perduto quando un popolo acquista piena consapevolezza del momento storico che attraversa e della responsabilità che è chiamato a esercitare.»

Eccolo qui:

pieghevole-referendum

(potete scaricarlo qui)

La “stabilità” trattata così (in favore del sì) è un truffa. Ecco perché.

Prima era tutto un ripetere di “governabilità”. Dappertutto. Una riforma costituzionale per rendere questo Paese più governabile, ci dicevano, dimenticando che un governante (che avrebbe il compito di rendere un Paese governato) non fa una bella figura nel chiedere l’allentamento delle regole per riuscire a governare meglio. Glielo abbiamo ripetuto per mesi che la solfa della governabilità non avrebbe funzionato, così ora sono passati alla “stabilità”.

“Questo Paese ha bisogno di stabilità”, “chi vota no mette a rischio la stabilità del Paese”, “la nuova riforma serve a garantire stabilità”, “gli investimenti non arrivano perché non c’è stabilità” e via con la nuova cantilena sparsa a pioggia dai fedeli servitori. Così alla fine la stabilità diventa un feticcio, un dovere di cui noi dobbiamo occuparci e di cui noi dobbiamo assumerci la responsabilità. Insomma: questo Paese è instabile per colpa nostra e ora basterebbe un sì.

Eppure la questione è lapalissiana: la stabilità politica di un Paese non viene messa in discussione dalla volontà popolare ma deve essere garantita dai suoi leader di governo. Mi spiego meglio: la catastrofe nel caso della vittoria del no al prossimo referendum è tutta farina di Renzi e gli Stati esteri non fanno che registrarne l’allarmismo. Basterebbe che l’attuale Presidente del Consiglio abbandonasse un secondo soltanto il proprio ego e garantisse responsabilmente di dare corso alla decisione che uscirà dalle urne senza provocare scossoni e garantendo gli impegni presi e facilitando qualsiasi evoluzione politica. E il Presidente del Consiglio è Renzi.

Oppure basterebbe che il segretario del partito che detiene una folta maggioranza in Parlamento (perché siamo una Repubblica parlamentare, ricordate?) assicuri un atteggiamento responsabile del suo partito sulle decisioni che eventualmente spetterebbero al Capo dello Stato. Ah, il segretario di quel partito è sempre Matteo Renzi.

Il resto è propaganda e allarmismo. Populismo, direbbero loro.

(Pubblicato per i Quaderni di Possibile qui)

Nel merito. Salvatore Settis: «una riforma che elimina gli elettori»

(l’intervento di Salvatore Settis a un convegno sull’erosione delle democrazie promosso al Parlamento Europeo da Barbara Spinelli. Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2016)
Il combinato disposto fra nuova legge elettorale (Italicum) e riforma costituzionale mostra la chiara intenzione di far leva sull’astensionismo per controllare i risultati elettorali, restringendo de facto la possibilità dei cittadini di influire sulla politica. La nuova legge [che è già in vigore – n.d.r] incorre nelle stesse due ragioni di incostituzionalità del defunto Porcellum. Prevede un premio di maggioranza per la lista che superi il 40% dei voti, e ammettiamo pure che sia ragionevole. Ma se nessuna lista raggiunge questa soglia, si prevede il ballottaggio fra le due liste più votate, delle quali chi vince (sia pure per un solo voto) conquista 340 seggi (pari al 54%). Se, poniamo, le prime due liste hanno, rispettivamente, il 21 e il 20%, e al ballottaggio prevale una delle due, a essa toccheranno tutti e 340 i seggi di maggioranza. Inoltre i deputati nominati dai partiti e non scelti dagli elettori potrebbero essere fino a 387 (il 61%). Continuerà dunque l’emorragia degli elettori, sempre meno motivati a votare visto che scelgono sempre meno. Ma questa crescente disaffezione dei cittadini è ormai instrumentum regni: anziché puntare su un recupero alla democrazia rappresentativa dei cittadini che in essa hanno perso ogni fiducia, si tende a far leva sull’astensionismo per meglio pilotare i risultati elettorali.

Nella stessa direzione vanno alcuni aspetti della proposta di riforma costituzionale. Essa è assai complessa, riguardando ben 47 articoli sui 139 della Costituzione (un terzo), e perciò la sua stessa estensione (3000 parole) è di per sé una scelta poco democratica, perché rende difficilissimo al cittadino studiarne ogni aspetto, e praticamente impossibile pronunciarsi consapevolmente con un ‘sì’ o un ‘no ’ (…). Esso assume in tal modo un carattere fiduciario e plebiscitario, che espropria i cittadini della propria individuale ragion critica, e chiede loro di pronunciarsi a favore sulla base degli slogan martellati dal governo.

Una volta assicurata alla Camera dei deputati una maggioranza forte al partito di governo (con la legge elettorale), il Senato viene neutralizzato abolendone l’elettività e trasformandolo in un’assemblea di sindaci e consiglieri regionali che ne saranno membri part-time. Poco importa che gli Statuti di alcune Regioni vietino espressamente ai loro consiglieri regionali di ricoprire qualsiasi altro incarico pubblico; (…) che il nuovo Senato sia a composizione variabile (i suoi membri scadono uno per uno, via via che decadono dal loro incarico regionale o comunale); che l’intricatissimo art. 70, combinato con altri (art. 55) preveda una moltitudine di interazioni Camera-Senato che, a parere di 11 ex presidenti della Corte costituzionale, porteranno a una paralisi del processo legislativo.

Le complicazioni procedurali (presentate come “semplificazioni”), la moltiplicazione dei percorsi di approvazione delle leggi,i potenziali conflitti di competenza avranno per effetto di rendere arduo e lento il funzionamento del Parlamento, con ciò favorendo di fatto la supremazia del governo e il suo potere.

Non è stato dunque abolito il Senato, ma i suoi elettori (cioè i cittadini).Lo stesso è accaduto a livello territoriale con la cosiddetta abolizione delle Province, che di fatto sopravvivono come circoscrizioni amministrative, quanto meno con la figura del Prefetto, funzionario del governo che continua ad avere in ogni capoluogo di provincia funzioni importanti, anzi accresciute dalla legge Madia (al punto di potersi anche sostituire al parere tecnico dei Soprintendenti in materie delicate come gli illeciti paesaggistici). Anche in questo caso, non è la provincia che è stata abolita, bensì i cittadini della provincia. (…).

Con questi e altri artifizi, la nuova proposta di riforma costituzionale accresce i poteri del governo allontanando gli elettori dalla politica, diminuendo le istanze in cui i cittadini sono chiamati a esprimersi, riducendo l’autorevolezza del capo dello Stato. Temi, questi, che non risultano in alcun modo dalla scheda approntata per il quesito referendario, che riproduce il titolo, abile perché manipolatorio, della legge di riforma.

Per questo il referendum del 4 dicembre sarà un test importante e rivelatore. Ci mostrerà se sta prevalendo in Italia un’idea di politica come meccanismo chiuso e privilegiato che garantisca la governabilità limitando lo spazio della democrazia;ovvero un’idea di democrazia partecipata, dove moltiplicare e non ridurre le istanze di partecipazione attiva dei cittadini, di espressione del voto, di scelta dei candidati, incrementando e non demolendo la forma-partito con la sua democrazia interna, diffondendo informazioni corrette e non manipolate, puntando sulla coscienza critica dei cittadini e non sulla loro obbedienza.

Povera Rai, cameriera del sì

Roberto Fico (Presidente del Comitato di Vigilanza Rai) dà un po’ di numeri:

«Sono stati appena pubblicati dall’Agcom i dati della settimana 14-20 novembre. Sono vergognosi.
Nei tg Rai il Sì ha goduto di 1 ora e 8 minuti in più rispetto al No (54,6% contro 42,7%). Ma questo non è nulla rispetto alla presenza del premier e del Governo: 47% del tempo di parola al Tg1, 36% al Tg2, 44% su Rainews. Tempo di notizia? 42% Tg1, 45% Tg2, 46% Rainews. Il grosso è tempo del premier, ovviamente. Ricordo ancora una volta che l’informazione dei membri del Governo in una campagna elettorale deve limitarsi, per legge, alle funzioni istituzionali, e non è ammessa la propaganda.»

In questo Paese il servilismo è immutabile: cambiano i fattori ma il risultato non cambia mai.

Ops, l’Economist vota no. E le cavallette e i diluvi, quindi?

img_0031L’Economist si schiera senza senza se e senza ma per il No al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre. La posizione viene espressa in un editoriale a corredo di un articolo sulla situazione politica italiana nel nuovo numero in uscita. “Questo giornale ritiene che gli italiani dovrebbero votare no” – scrive l’Economist spiegando che “la modifica alla costituzione promossa da Renzi non affronta il problema principale, cioè la riluttanza dell’Italia a fare le riforme. Inoltre, sottolinea il giornale, “le dimissioni di Renzi non sarebbero la catastrofe che molti in Europa temono” e gli italiani e l’errore principale è stato commesso dal premier che ha “creato la crisi collegando il futuro del governo al test sbagliato”. “Gli italiani – prosegue l’Economist – non avrebbero dovuto essere ricattati ” e il presidente del Consiglio “avrebbe fatto meglio a battersi per migliori riforme strutturali”.

La critica dell’Economist è puntuale e nel merito. “Ogni eventuale beneficio è comunque secondario rispetto ai rischi. In cima a questi – rileva il giornale – il pericolo che nel tentativo di fermare l’instabilità che ha dato all’Italia 65 governi dal 1945, si crei un uomo forte eletto al comando”. Il settimanale punta il dito in particolare con la riforma del Senato non più elettivo. “Molti de suoi membri sarebbero consiglieri regionali e sindaci” quando “regioni e comuni” sono gli “strati di governo più corrotti”, concedendo loro anche l’immunità. Questo – si spiega – renderebbe il Senato “un magnete per la peggiore classe politica”.

Il giornale evidenzia quindi i rischi concreti in caso di vittoria del No. “Le dimissioni di Renzi non sarebbero la catastrofe che molti in Europa temono. L’Italia potrebbe mettere insieme un governo tecnico, come già accaduto in passato. Se in ogni caso la vittoria del No al referendum dovesse innescare il disfacimento dell’euro, allora sarebbe il segnale che la moneta unica è così fragile che la sua distruzione sarebbe solo una questione di tempo”.

(Fonte)

Nel merito. Ecco come con la nuova riforma si elegge un Presidente della Repubblica di parte.

(Leonardo come molti altri sta facendo un ottimo lavoro e sul suo blog per smontare le bugie del sì e gliene va dato merito. Purtroppo tra le storture di questa campagna (ma forse di quasi tutte) c’è anche l’immane quantità di energie usate per rispondere alle bufale e quella sulla garanzia di un Presidente della Repubblica che non sia solo di una parte sembra essere una di quelle che funzionano di più. Allora leggete, ritagliate e conservate questo post:)

Ma insomma questa riforma è tutta da buttare? Diciamo che ci sono cose assurde e altre quasi accettabili, che uno sarebbe tentato di mandar giù. L’elezione del presidente della Repubblica, dai, in fin dei conti potrebbe anche funzionare… Poi però accendi la tv, vai su internet, e ascolti gli imbonitori del sì, la loro retorica da fustino dixan fuori tempo massimo: lo stesso dettaglio che a te sembrava quasi passabile, cercano di vendertelo come una mountain bike col cambio shimano. Siori e Siori ci vogliamo rovinare! L’articolo 83 della nuova Costituzione è un baluardo contro qualsiasi deriva autoritaria!

Nientemeno?

Con l’articolo 83 della nuova Costituzione sarà matematicamente impossibile eleggere un Presidente della Repubblica che non sia al di sopra delle parti.

No, scusa, ripeti.

Con l’articolo 83 sarà ma-te-ma-ti-ca-men-te impossibile eleggere…

Hai detto matematicamente?

Ma-te-ma-ti-ca-men-te.

E va bene, vediamo questa matematica.

L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi della assemblea. Dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea. Dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti (dall’articolo 83 della Costituzione riformata).
L’attuale presidente della Repubblica è stato eletto il 31 gennaio 2015 con 665 voti su 1009. Siccome era la quarta votazione, il quorum necessario era appena sceso da 673 (due terzi dell’assemblea) a 505 (la metà più uno). Quindi la coalizione di governo, coi suoi 610 grandi elettori, avrebbe potuto eleggerlo da sola. In futuro invece di una coalizione potremmo avere un partito solo (se si continua a puntare sul maxipremio di maggioranza). Aumenta quindi il rischio che i capi del governo, forti della maggioranza alla Camera, facciano nominare al Quirinale un inquilino su misura – in fondo anche stavolta la sensazione è che Mattarella lo abbia scelto Renzi, litigandoci con Berlusconi: figuriamoci nel giorno in cui un post-Renzi guidasse un monocolore. Di fronte a questo grosso rischio, che alcuni chiamano deriva autoritaria e io chiamo presidenzialismo, gli imbonitori del Sì scuotono la testa: ma come, non avete visto il nuovo fiammante articolo 83? Di qui in poi sarà matematicamente impossibile imporre un candidato senza concertarlo con la minoranza.

Ma-te-ma-ti-ca-men-te.

Sarà. Senz’altro le discussioni si ridurranno, com’è ovvio che succeda in un’assemblea che si riduce di un terzo: dai mille-e-qualcosa di adesso a 730 (cento senatori più 630 deputati). Mettersi d’accordo è più facile quando siamo in meno: è anche più difficile mimetizzarsi nella folla, come fecero i misteriosi 100 che impallinarono Prodi nel 2013. Dunque durante i primi tre scrutini la maggioranza necessaria sarà di 487 grandi elettori, contro i 673 di adesso. Al quarto, se bastasse la maggioranza più uno come adesso, diventerebbero 366 anziché gli attuali 505. Ma con la nuova regola dei tre quinti, baluardo matematico contro la deriva autoritaria, ne serviranno 438. Se qualcuno d’ora in poi vi chiede la definizione matematica di baluardo democratico, ebbene, pare che in un’assemblea di 730 elettori essa si assesti intorno a 438-366=72. Settantadue voti. Un decimo dell’assemblea stessa. (Tre quinti meno un mezzo fa appunto un decimo). Ha un senso?
Magari persino sì, un senso ce l’ha. Ma sapete cosa c’è di buffo? Mentre i nostri nuovi padri costituenti decidevano che il voto di un decimo dell’assemblea è una garanzia democratica, negli stessi palazzi, a volte persino nelle stesse stanze, si stava pensando seriamente di assegnare a chi otteneva almeno il 40% dei suffragi il 54% dei seggi: quella simpatica legge che chiamiamo “Italicum”, sulla quale Renzi decise di chiedere la fiducia al parlamento, e che è tuttora legge della repubblica (certo, hanno detto che la cambieranno. Ma prima bisogna mettere la crocetta sul Sì). Tra il 40% (252 seggi) e il 54% (340) c’è una differenza di 88 seggi. Ok, non ci eleggi un presidente della Repubblica, con 340 seggi. E chissà che situazione puoi trovare al senato. Ma intanto ricordiamo che l’Italicum voleva regalare 88 seggi al primo partito, per una questione di “governabilità”. L’italicum sparirà, e cosa prenderà il suo posto? Non si sa.

Però quest’estate a Orfini piaceva il modello greco (quello che nel frattempo è stato abbandonato anche in Grecia). Un maxipremio al primo partito, senza ballottaggio. Nel parlamento greco (300 seggi), il maxipremio era di 50: un sesto dell’assemblea. Non è servito né a evitare crisi di governo, né governi di coalizione, né referendum inutili. Ma pensiamo a una cosa del genere in Italia: un centinaio di seggi alla Camera da regalare al primo arrivato per la “governabilità”. Capite dove voglio andare a parare? Con una legge del genere, che forse è quella che è stata promessa a Cuperlo, non sarà poi così difficile per un partito trovare quei 438 voti necessari a eleggere come presidente della repubblica un caro vecchio amico non necessariamente super partes (anche Cuperlo – lo dico con simpatia, non sarebbe poi così male Cuperlo).

E comunque, se anche non riuscisse a trovarli, c’è sempre il settimo scrutinio. Da lì in poi il quorum dei tre quinti va ricalcolato sul numero di elettori che si presenta effettivamente a Montecitorio: se non entrano, il quorum diminuisce. Viene in pratica introdotto il silenzio-assenso. A cosa serve? A prima vista sembra una foglia di fico offerta alle minoranze per coprirsi coi loro elettori nel momento in cui cedono a un’offerta irrifiutabile. Mettiamo che abbiano tuonato davanti alle telecamere per giorni e giorni: “Noi Cuperlo mai!” Mettiamo che alla fine abbiano deciso, in cambio di qualcosa, di accettare pure Cuperlo. Non c’è bisogno di votarlo: basta uscire dall’aula e abbassare il quorum. Funzionerà? In altri tempi magari avrebbe funzionato, ma adesso come si fa? Uscire dall’aula ti espone ancora più che restare dentro. All’interno almeno il voto è segreto. Là fuori ci sono le telecamere, appunto, e se proverai a dire che tu non hai votato, che tu ti sei astenuto, ti rideranno in faccia. E un Cuperlo eletto in seguito al ritiro di un’intera delegazione di deputati o senatori non avrà molti motivi per considerarsi “presidente di tutti”. Oggi tutto è discusso, tutto è condiviso, tutto è drammatizzato. È curioso che questa nuova generazione di padri costituenti non se ne sia resa conto: sono quelli che hanno l’iphone, mica il telefono a gettone. Eppure.

Ci sono poi altre possibilità di abbassare artificialmente il quorum: abbiamo già visto che un sindaco-senatore può essere in qualsiasi momento destituito dal suo consiglio comunale. Il voto decisivo per eleggere Cuperlo potrebbe saltar fuori dal consiglio comunale di Vipiteno! Se la situazione è grave si potrebbe anche mandare all’aria un consiglio regionale. Vengono sempre in mente quei vecchi conclavi in cui la mortalità dei cardinali impennava.

Ricapitolando: i riformatori sostengono che nessun partito, anche qualora trionfasse alle elezioni, potrebbe nominarsi un presidente della repubblica senza il consenso di almeno parte della minoranza. Questo perché anche dal quarto scrutinio in poi non basterebbe metà dell’assemblea (366 seggi), ma servirebbero i tre quinti (438). In realtà è difficile capire cosa potrebbe succedere, finché non sappiamo che legge elettorale sarà approvata; e che in caso di legge elettorale alla greca, con maxipremio, quei 438 seggi potrebbero davvero essere a portata di mano del partito di maggioranza. Neanche la possibilità di abbassare il quorum ulteriormente, a partire dal settimo scrutinio, non calcolando gli elettori assenti, sembra una garanzia di pluralità: tutto il contrario. E quindi insomma neanche qui c’è nulla che mi spinga a votare Sì.

Zaccaria, ex Presidente Rai: «Troppo Renzi in tv. E la riforma è sbagliata»

(La mia intervista a Roberto Zaccaria per Fanpage)

Roberto Zaccaria è professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico nell’Università di Firenze, dove insegna Diritto costituzionale generale e Diritto dell’informazione. Già Presidente Rai dal 1998 al 2002 in questi mesi tiene numerose conferenze per ribadire la propria contrarietà alla riforma costituzionale.

Professore Zaccaria, il clima del dibattito referendario sembra scaldarsi…

Sto guardando un po’ i telegiornali, come danno le notizie. Ogni giorno c’è una cosa nuova: ieri c’era il sì degli artisti oggi c’è l’endorsement della stampa estera sulla riforma costituzionale. Tutti che temono che scatti la crisi ma il problema è Renzi: è lui a paventarla. L’impostazione deviata del dibattito nasce dall’impostazione di partenza. Anche il tg3, che una volta rappresentava una posizione alternativa rispetto alle posizioni governative, inserisce dopo la notizia del Papa che perdona l’aborto l’endorsement della stampa estera….

Perché vota no a questa riforma?

Il mio no è abbastanza semplice, per due motivi: prima di tutto perché questa riforma è nata in Parlamento e si è sviluppata come un’ipoteca inaccettabile del governo; questo è un elemento che la deforma dal punto di vista del metodo e porta già un giudizio negativo; poi nel merito la soluzione ai problemi che vengono indicati è sbagliata perché il superamento del bicameralismo è giusto in linea di principio ma viene superato in un modo contraddittorio che ne determina un peggioramento. Poi c’è il collegamento della riforma con la legge elettorale che mi fa dire in modo preciso che questo disegno diventa pericoloso perché innesta un meccanismo che deforma il sistema di governo favorendo l’esecutivo. E questo è contrario ai nostri principi costituzionali.

Dice Renzi che chi vota no è a favore della casta…

Una deformazione, appunto: ogni volta c’è bisogno di trovare uno slogan tra l’altro collegato a elementi inesistenti nel testo. In questa riforma non c’è nulla che riguardi la casta: c’è forse qualche accenno che riguarda il calmieramento delle retribuzioni dei politici ma a noi hanno insegnato che queste iniziative si possono tranquillamente fare con delle leggi ordinarie. E poi mi ha lasciato di stucco sentire Renzi definire ”accozzaglia” i sostenitori del no dicendo che questi non costituiscono un’alternativa: anche questa frase non ha nessuna connessione con il voto sulla riforma costituzionale poiché le riforme costituzionali non configurano alternative ma costituiscono le tracce e le fondamenta della casa comune.
L’alternativa si fa in occasione delle elezioni politiche: allora certamente se ci fosse in quel caso una coalizione che tiene insieme centro destra e centro sinistra sarebbe molto discutibile. Qui non c’entra nulla. Così come non c’entra la casta, non c’entra la stabilità, non c’entra la semplificazione. Sono tutti slogan venduti per cercare di catturare qualche elemento di consenso.

Si dice che a questo Paese serva governabilità…

Innanzitutto anche questo non c’entra nulla con la riforma Costituzionale: nella riforma c’è solo la fiducia che viene data da una sola camera piuttosto che da entrambe ma i governi nel nostro Paese non sono quasi mai (tranne i governi Prodi) caduti per problemi di fiducia. Il problema della governabilità sta nella capacità di creare coalizioni stabili, questo è un problema che si risolve con formule politiche e non con la Costituzione. A meno che non si passi a un governo presidenziale.

Dice Renzi che finalmente il Paese potrebbe avere un Senato della Autonomie…

Per una trentina d’anni i costituzionalisti avevano proposto di creare una Camera delle Regioni ma in quel caso si collegava con un sistema di autonomie molto marcate, molto forti e allora così avrebbe un senso. Nel momento in cui scegli di ridurre le autonomie e di ricentralizzare invece il Senato delle Autonomie è una contraddizione. Inoltre il progetto di Senato è molto fragile con una modalità di convocazione delle sedute troppo intermittente: un organismo di alta specializzazione fa a pugni con convocazioni così saltuarie e le stesse norme costituzionali pretendono tempi molto stretti. Si parla di cinque giorni, dieci giorni. Per fare questo ci vorrebbe un Senato insediato tutta la settimana.

Da persona della televisione come vedi la gestione del governo della comunicazione referendaria?

Penso ci sia un’invasione (intesa come presenza esorbitante) del governo non tanto negli spazi dedicati al referendum (che vengono più o meno gestiti con metodo aritmetico anche se con qualche tecnica subdola) ma soprattutto il governo è sempre presente al di là del fatto che ci siano reali notizie. In tutti i telegiornali la prima, seconda o al massimo la terza notizia è il governo che ci comunica qualcosa, tra l’altro sempre con lo stesso testimonial: non è che di legge di stabilità parla
Padoan o troviamo Poletti intervistato di lavoro; c’è solo e sempre il Presidente del Consiglio sia che si parli di referendum sia che si parli di altro. Questa misura (noi abbiamo presentato un ricorso all’AGCOM) è colma, basta leggere i dati. Si parla di un minimo del 40% di presenza a un massimo del 60%. Percentuali bulgare. Soprattutto sapendo quanto pesano le televisioni nel mondo dell’informazione.

Cosa dice di questi scenari apocalittici che vengono prospettati in caso della vittoria del no?

Io penso che l’intromissione di capi di Stato esteri siano inaccettabili. Noi non ci permetteremmo; i nostri capi di Stato non si sarebbero mai permessi. Che la stabilità sia un valore è scontato, perfino ovvio, ma gli USA non decidono anche loro tra democratici e repubblicani? E poi quando si tratta di scegliere la Carta Costituzionale il discorso sulla stabilità è del tutto improprio: è stato erroneamente tirato dentro proprio da chi conduce la campagna referendaria.