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Mafia del Gargano: l’appello della cognata dei due agricoltori uccisi durante i funerali: “La mafia è connivenza, è girare la testa dall’altra parte. Non abbassate lo sguardo”

La donna, insegnante di Lettere, ha lanciato un accorato appello rivolto soprattutto ai giovani, futuro del Paese. “Questa realtà ci appartiene: non abbassate lo sguardo. Luigi e Aurelio ne sono stati travolti e con loro tutti noi”

“La mafia è connivenza: è girare la testa dall’altra parte. Voi non abbassate lo sguardo”. Risuona forte l’appello nella chiesa Santissima Annunziata di San Marco in Lamis, in provincia di Foggia, durante i funerali di Aurelio e Luigi Luciani, i due fratelli contadini uccisi probabilmente perché “colpevoli” di aver assistito all’agguato contro il presunto boss Mario Luciano Romito. A pronunciarlo è la cognata delle vittime che dall’altare ha lanciato un accorato appello rivolto soprattutto ai giovani, “sogno e speranza” del futuro. “Da insegnate ho sempre spiegato la mafia – le parole della donna, professoressa di lettere – Ho cercato di farvi capire ma abbiamo sempre studiato una realtà che sembrava non appartenerci. No ragazzi miei, questa realtà ci appartiene”.

“La mafia è qui, serpeggia nei nostri ambienti: cruda, cieca e silenziosa – continua l’insegnate – La mafia è connivenza. La mafia è girare la testa dall’altra parte. Voi non abbassate lo sguardo. La mafia è un atteggiamento subdolo. La mafia non ha la pietas degli antichi eroi che rendevano onore ai propri avversari. La mafia insegue. La mafia crivella di colpi. La mafia uccide chi aveva l’unica colpa di essere in quel momento al lavoro. E Luigi e Aurelio ne sono stati travolti e con loro tutti noi”. Le parole forti seguono l’appello del ministro Marco Minniti che ieri aveva chiesto una “rivolta morale” per sconfiggere la mafia foggiana.

Una situazione, quella sul Gargano, in cui non è semplice mettere ordine, dove le mafie sono rafforzate dall’omertà anche della popolazione, stigmatizzata in una recente relazione della Dia. Un connubio micidiale quello tra mafia e omertà che, come scrive la Direzione nazionale antimafia nell’ultima relazione, ha portato a un “capillare controllo del territorio” da parte di un’organizzazione criminale “moderna e flessibile”, proiettata verso il “modello di mafia degli affari”, ma che trae “la sua forza dalla capacità di coniugare la sua proiezione più avanzata con i tradizionali modelli culturali del territorio, primo tra tutti l’omertà”.

Ed è proprio contro “quel girare la testa dall’altra parte” che si è schierato ieri il ministro dell’interno al termine del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica a Foggia, invitando gli stessi cittadini alla rivolta morale. “La lotta contro le mafie è una grande battaglia di civiltà – ha spiegato Minniti – E naturalmente su questo fronte è molto importante coinvolgere l’opinione pubblica, avere cioè un partecipazione attiva della gente ed è per questo che io oggi ho voluto ascoltare i sindaci e i loro consigli. E a loro ho chiesto di essere parte attiva, perché serve una sorta di rivolta morale nelle popolazioni di questa Provincia”.

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Puglia. La mafia dimenticata. (di Carlo Lucarelli)

Già è la parola ad essere fuorviante. Faida. Per carità, tecnicamente è giusta, anzi, è stata usata anche per le mattanze calabresi degli Anni 80 e 90, però anche allora dava un’impressione sbagliata.

 

Faida. Una serie di vendette familiari che si tramandano nel tempo e che riguardano una comunità ristretta, famiglie appunto, gruppi di amici, al massimo clan. Viene da pensare istintivamente ad un paio di cose, anzi, tre. Ad una causa scatenante, così persa nella profondità del tempo e magari futile come un furto di galline o l’occhiata sbagliata ad una ragazza, che nessuno se ne ricorda più. Viene da pensare ad una situazione degradata e lontana, da frontiera selvaggia, violenta e senza legge, dove ci si fa giustizia da soli con la pistola al cinturone. E viene da pensare che in fondo si ammazzano tra loro, per cui vabbè.

 

In provincia di Foggia, in questi giorni, per la cosiddetta «faida del Gargano» sono state ammazzate quattro persone. Sono le ultime di una lunga lista che solo dall’inizio dell’anno conta ben diciassette morti, più due scomparsi per quella che chiamiamo letterariamente lupara bianca e che di solito significa comunque essere ammazzato. In Puglia, in quella regione ricca, bella e organizzata, che con il Far West ha in comune soltanto l’essere chiamata «la California del Sud». E non si ammazzano neanche tra di loro e basta, dal momento che nell’ultima strage, oltre a due uomini ritenuti parte di un clan criminale ci sono due contadini che passavano semplicemente di là e hanno visto quello che non dovevano vedere, e che così si aggiungono ai più quaranta nomi di pugliesi letti ogni anno tra più di novecento nel Giorno della Memoria e del Ricordo delle vittime innocenti per mafia. Perché per quanto tecnicamente sia giustissimo chiamarle faide, di questo comunque si tratta.

Guerre di mafia. Eppure, non è che quello che sta accadendo in parte della Puglia, e mica solo dalla fine dell’anno, abbia suscitato tanto scalpore. O almeno, non abbastanza, perché chi le cose le vive direttamente se ne è accorto da un pezzo e di denunce e iniziative anche istituzionali ce ne sono state, ma a me sembra, appunto, non abbastanza. In una regione ricca e piena di interessi, quando la criminalità organizzata spara e ammazza dovremmo immediatamente pensare ad obbiettivi che fanno paura e invece pare che a livello nazionale, dall’opinione pubblica ma anche da parte delle istituzioni, la situazione venga percepita come la normale fisiologia di una mafia minore, già sconfitta a suo tempo.

Mafia minore. È così che è sempre stata considerata la mafia pugliese, la cosiddetta Sacra Corona Unita, nonostante le decine di morti ammazzati, le bombe, le stragi da film di gangster come quella del Circolo Bacardi di Foggia nell’86, la testa mozzata di Nicola Laviano fotografata e mostrata in giro, i miliardi – prima di lire e poi di euro – derivati dai traffici e dal controllo di attività illecite ma anche lecite, almeno apparentemente. Una mafia giovane, nata artificialmente in carcere e colonizzata dalle cosiddette mafie maggiori, Cosa Nostra, Camorra, ’Ndrangheta. Mafia minore, insomma. E forse sta anche qui la mancanza di attenzione attuale ad un fenomeno che avrebbe dovuto farci paura da un pezzo, ancora prima che arrivassero – solo tra gli ultimi – due fratelli che passavano di lì per caso con il loro furgoncino, e uno dei due, che corre disperato inseguito dai killer per i campi, come il giudice Rosario Livatino ad Agrigento. Perché alle mafie, dal punto di vista mediatico ma anche politico, succede quello che accade ai delitti di cronaca. Ce ne sono alcuni più «fortunati» – tra virgolette – che per il tipo di vittima o di assassino, per il luogo o il momento in cui sono avvenuti, colpiscono l’immaginazione, si guadagnano un nome – Cogne, via Poma, la strage di Erba – ed entrano a far parte di una narrazione mediatica che va oltre le inchieste e le motivazioni delle sentenze.

Cosa Nostra è un vero e proprio marchio internazionale e basta pronunciarlo per pensare ad una serie di cose che vanno dalla Trattiva alle stragi al sigaro cubano di Luciano Liggio e al Sacco di Palermo, passando per «Il Padrino», gli orrendi ristoranti spagnoli che utilizzavano il nome della Mafia e al piccolo Santino Di Matteo sciolto nell’acido. Un mondo, col quale abbiamo una familiarità che fa subito scattare un immaginario, con tutte le informazioni, le sensazioni e le emozioni che si porta dietro.

Prima di Gomorra e di Roberto Saviano, per esempio, c’era a Casal di Principe una mafia sconosciuta e totalmente oscurata da una star del crimine come Cutolo, che nessuno avrebbe potuto nominare neanche uno dei suoi boss. Oggi Sandokan Schiavone, per esempio, lo conosciamo tutti, e la pericolosità pervasiva e massiccia dei Casalesi, anche questo vero e proprio marchio di fabbrica, ci fa abbastanza paura.

Ora, non è che bastino gli scrittori a cambiare il mondo, la mafia pugliese è anche stata raccontata da film come «Galantuomini» di Edoardo Winspeare o da romanzi come il bellissimo «L’estate fredda» di Gianrico Carofiglio, solo per citarne alcuni, ci sono stati processi e inchieste – tra cui quelle dello stesso presidente della Regione, Michele Emiliano – che veramente l’hanno quasi sconfitta, ci sono stati articoli e saggi, eppure quello che sta accadendo adesso in Puglia a me sembra non abbia ancora la visibilità e la concreta inquietudine che merita. Sono io che mi sbaglio? Per mia personale e banale disinformazione, per esempio?

Insomma, cosa sta succedendo nella bella, ricca e organizzata Puglia – aggettivi che uso con affetto e convinzione- una fisiologica attività criminale? Morti che fanno male come tutti i morti ammazzati, ma che restano nell’ambito di una «faida»? O una inquietante, pericolosa e ancora non compresa guerra di mafia?

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Sacra Corona Unita: quelle strane scarcerazioni

Ne scrive Andrea Tundo per Il Fatto Quotidiano ed è una situazione che sfiora il paradosso. Ed è il caso di tenere gli occhi ben aperti. Ben aperti. Ecco qui:

«Altri sei rispediti in libertà dal tribunale del Riesame. Ed è probabile una nuova ondata di scarcerazioni il 5 gennaio. Non solo, perché nei prossimi giorni potrebbe lasciare il carcere anche Carlo Solazzo, presunto killer del figlio di un collaboratore di giustizia. A conti fatti, quasi la metà (se non detenuta per altri reati) è già tornata a casa, ma il rischio è che succeda a tutti i 58 uomini arrestati lo scorso 12 dicembre con le accuse, a vario titolo, di associazione mafiosa, omicidio, danneggiamento, traffico di armi e droga. L’operazione Omega, come l’ha ribattezzata la procura antimafia di Lecce, ha smantellato una presunta cellula della Sacra Corona Unita attiva nel Brindisino. Ma le esigenze cautelari, sostiene il Riesame, non stanno in piedi. E sulla vicenda ha messo gli occhi il ministero della Giustizia, anche alla luce di una lettera che i pm hanno inviato al gip affinché rimettesse mano all’ordinanza.»

Sacra Corona Unita, operazione Omega: i fatti, le facce e i nomi

I Carabinieri di Brindisi hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere chiesta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce nei confronti di 58 indagati ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, concorso in omicidio, con l’aggravante del metodo mafioso, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, porto e detenzione illegali di arma da fuoco, nonché spaccio di sostanze stupefacenti. Gli arrestati risiedono nel territorio dell’intera provincia e in quello della limitrofa Lecce. L’inchiesta è stata chiamata Omega, 14 le ordinanze notificate in carcere a indagati ritenuti affiliati a due gruppi: da un lato quello di San Donaci, dall’altro quello di Cellino San Marco.

Nel corso delle indagini sono state intercettate frasi collegate al rituale di affiliazione alla Sacra corona unita. Al centro dell’operazione c’é l’omicidio del 29enne Antonio Presta a San Donaci, figlio dell’ex collaboratore di giustizia Gianfranco Presta. Il giovane fu ammazzato a colpi di pistola e fucile la sera del 5 settembre del 2012, mentre era nei pressi di un circolo ricreativo.

Dopo l’omicidio a San Donaci, nel corso di perquisizioni e attività dei carabinieri, sono stati trovati ingenti quantitativi di droga e tre mesi dopo un ordigno fu fatto esplodere davanti al portoncino di ingresso della casa in costruzione del maresciallo dei carabinieri. Tutti fatti, questi, che potrebbero essere collegati. I dettagli dell’operazione saranno resi noti nel corso della conferenza stampa che il Procuratore della Repubblica di Lecce, Cataldo Motta, terrà alle 10 di oggi, lunedì 12 dicembre, presso il comando provinciale carabinieri di Brindisi.

Cominciano a filtrare i primi nomi delle persone colpite dalle ordinanze di custodia cautelare: Daniela Presta e Giuseppe Chiriatti; Daniele D’Amato, Vincenzo Maiorano, Marco Ferulli, Nicola Taurino. Ferulli stava già scontando ai domiciliari una condanna per furto. Chiriatti e Taurino, entrambi di Cellino San Marco, sono finiti sotto procresso nell’ottobre scorso assieme ad altri elementi della malavita della zona, per reati connessi allo spaccio di marijuana.

Omicidio Presta– Sei anni di indagini per arrivare ad avere il nome di un uomo, un brindisino, ritenuto l’autore materiale dell’omicidio di Antonio Presta, avvenuto nei pressi del club le Massé di San Donaci: Carlo Solazzo, alias Cacafave, il cui nome sarebbe stato consegnato anche da alcuni pentiti della Scu, che di quel fatto di sangue hanno parlato nei verbali resi ai pm dell’Antimafia ricostruendo le dinamiche per la gestione dell’attività di spaccio di droga nella zona a Sud di Brindisi, fra San Donaci e Cellino San Marco.

Avrebbe agito per vendetta assieme a un’altra persona che, al momento, resta senza nome. Stando a quanto è evidenziato nel provvedimento di arresto, “Antonio Presta, unitamente alla sorella Daniela e  con l’avallo del convivente di quest’ultima, Pietro Solazzo, in quel periodo detenuto, stavano assumendo un ruolo di primo piano  tentando di scalzare Carlo Solazzo, fratello di Pietro”, quest’ultimo considerato a “capo di una compagine criminale dedita allo spaccio a Cellino”. Il 15 agosto 2012 “Antonio Presta assieme a Daniela, incendiarono un’abitazione di Carlo Solazzo, approfittando dell’assenza della famiglia. In un contesto simile è maturata la volontà di uccidere.

Le indagini hanno portato a galla due gruppi inseriti in contesti di stampo mafioso, riconducibili a Pietro Soleti di San Donaci e ai fratelli Carlo e Pietro Solazzo di Cellino, alias cacafave. La situazione ha iniziato a cambiare in seguito alla scarcerazione di Pietro Solazzo, nel febbraio 2013, con screzi tra fratelli, messi a tacere per non far saltare gli equilibri. Stessa strategia è stata adottata guardando all’altro gruppo, quello dei sandonacesi, sino ad arrivare al mutuo soccorso che avrebbe garantito a entrambi la sopravvivenza al riparo dalle azioni degli uomini delle forze dell’ordine, considerati nemici comuni.

Tra gli atti intimidatori ricostruiti in ordinanza, c’è quello ai danni dell’abitazione del comandante della stazione dei carabinieri di San Donaci, posto in essere da Benito Clemente e Antonio Saracino. Nel gruppo dei sandonacesi sarebbe stato attivo anche Floriano Chirivì. La droga sarebbe stata gestita attraverso il club Le Massè di San Donaci, dove avvenivano gli incontri e dove è avvenuto l’omicidio Presta.

Le armi. Il gruppo aveva anche la disponibilità di armi, “reperite tramite un cittadino di origine slava, Gennaro Hajdari, alias Tony Montenegro, che le faceva giungere dall’Est Europa”. Quanto all’altro gruppo, quelli dei cellinesi, “si avvaleva dell’operato dei luogotenenti Marco Pecoraro e Saveria Elia, nonché di una capillare rete di spacciatori soprattutto di cocaina” venduta “nel paese, presso la sala giochi e altri esercizi pubblici” e nei paesi limitrofi, tra i quali Guagnano. La sostanza stupefacente arrivava da Oria, Brindisi, Lecce e soprattutto da Torchiarolo.

Le affiliazioni. Le indagini, inoltre, hanno permesso di accertare che se da un lato i gruppi sceglievano la “pax” , dall’altro restavano comunque ancorati ai rituali di affiliazione con formule da imparare a memoria, definite “condanna buona”. Buona perché era quella del gruppo, del sodalizio di stampo mafioso, diametralmente opposta a quella “cattiva”, la condanna delle sentenze.

I nomi di tutte le persone arrestate: Vincenzo Maiorano, 42 anni, Gionatan Manchisi, 35 anni, Pietro Mastrovito, 55 anni, Cosimo Mazzotta, 53 anni, Matteo Moriero, 23 anni, Umberto Nicoletti, 39 anni, Massimiliano Pagliara, 39 anni, Cosimo Perrone, 33 anni, Giuseppe Perrone detto “Barabba”, 44 anni,  Daniele Presta, 39 anni, Daniele Rizzo, 39 anni, Saverio Rizzo, 50 anni, Giuseppe Saponaro, 34 anni, Antonio Saracino, 40 anni, Valtere Scalinci, 41 anni, Carlo Solazzo, 40 anni, Pietro Solazzo, 37 anni, Pietro Soleti 52 anni, Nicola Taurino, 24 anni, Andrea Vacca, 41 anni, Annunciato Cristian Vedruccio, 28 nni, Cosimo Vitale, 47 anni, Salvatore Arseni, 42 anni, Claudio Bagordo, 44 anni, Vito Braccio, 35 anni, Cristian Cagnazzo, 30 anni, di Copertino.

Giuseppe Chiriatti, 37 anni, Oronzo Chiriatti, 29 anni, Floriano Chirivì, 35 anni, Benito Clemente, 37 anni, Vito Conversano, 45 anni, Antonio Corbascio, 43 anni, Onofrio Corbascio, 48 anni, Giuseppe Cortese, 27 anni, Gabriele Cucci, 26 anni, Giuseppe D’Errico, 34 anni, Daniele D’Amato detto “Cacanachi”, 38 anni, Giuseppe D’errico, 34 anni, Antonio Francesco De Luca detto “Ticitone”, 25 anni, Sergio dell’Anna, 39 anni,  Saverio Elia, 38 anni, Marco Ferrulli, 43 anni, Francesco Francavilla, 36 anni, Cosimo Fullone, 39 anni, Cristian Gennari, 29 anni, Francesco Giannotti, 29 anni, Giuseppe Giordano, 45 anni, Davide Goffredo, 35 anni, Luca Goffredo, 37 anni, Paolo Golia,33 anni, Gennaro Hajdari,33 anni, Gabriele Ingusci,36 anni,  Fausto Lamberti , 37 anni, Gabriele Leuzzi, 37 anni, Antonio Lutrino, 28 anni,  Gianluca Re, 28 anni, Raffaele Renna detto “Puffo”, 37 anni,

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Sacra Corona Unita (internazionale): 19 arresti tra Lecce, Germania e Svizzera

Blitz all’alba dei carabinieri contro la “sacra corona unita”: arrestate 19 persone appartenenti al clan De Tommasi-Notaro(quest`ultimo arrestato il primo dicembre scorso dopo un periodo di latitanza, perché colpito da altra misura cautelare in carcere per associazione mafiosa), operante nel nord della provincia.
I provvedimenti sono stati disposti dal Giudice per le Indagini preliminari del Tribunale di Lecce su richiesta della locale Direzione Distrettuale Antimafia e gi arresti sono stati eseguiti in provincia di Lecce, in Germania e Svizzera, dove due persone sono ricercate poiché colpite da mandato di arresto internazionale.

Vengono contestati i reati di associazione di tipo mafioso di cui all`art. 416 bis, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, detenzione e porto abusivo di armi anche clandestine, estorsioni e rapina.
Nel corso dell`intensa ed articolata attività investigativa sono stati accertati una serie di episodi intimidatori, anche a scopo omicidiario, tra membri dello stesso clan. Obiettivo, la conquista della leadership sul territorio, finalizzata al controllo del traffico di stupefacenti e delle altre attività illecite.

Le indagini hanno permesso di ricostruire una serie di eventi, in particolare numerose intimidazioni attuate attraverso l`esplosione di colpi d`arma da fuoco contro persone, auto e abitazioni degli affiliati, prologo di una faida interna per la supremazia del gruppo emergente.  In distinte operazioni, sono stati eseguiti numerosi sequestri di droga e di un arsenale di armi nella disponibilità del clan. Quest`ultimo sequestro, operato dai carabinieri all`insaputa dei detentori, ha accresciuto in questi la preoccupazione di una imminente escalation di violenza da parte della fazione rivale.
Nel corso della pianificazione delle azioni di fuoco in danno degli avversari, gli investigatori sono riusciti a disinnescare ogni minaccia eseguendo numerosi controlli con conseguenti arresti. Nel dettaglio: 9 persone sono state arrestate in flagranza di reato, nel corso delle indagini di cui 7 per stupefacenti e due per detenzione di armi.

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Preso Marco Sergio Notari (spiace per Albano)

E’ stato catturato dai carabinieri il presunto boss della Scu Marco Sergio Notaro, di 54 anni, di Squinzano (Lecce), raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Lecce su richiesta della Dda con l’accusa di associazione mafiosa. Lo scorso 11 novembre era riuscito a scappare all’arresto, in occasione di un’operazione antimafia nella quale sono state catturate decine di persone, fuggendo sui tetti di una masseria.

Chissà come ci sarà rimasto male Albano con le sue patetiche convinzioni.

Sacra Corona Unita

Sedici persone in manette. Alcune con l’accusa di appartenere alla Sacra corona unita.  Dalle prime luci dell’alba è in corso una vasta operazione antimafia condotta dagli uomini della Dia di Lecce che stanno eseguendo, nelle provincie di Brindisi, Bari e Pavia, 16 ordinanze di custodia cautelare. Tra gli arrestati figurano un boss e due noti affiliati alla Sacra Corona Unita, tre imprenditori di Mesagne ed un ex consigliere comunale della stessa città. Gli arrestati sono tutti indagati, a vario titolo, di associazione di stampo mafioso, usura, estorsione e riciclaggio (questi ultimi reati aggravati dalle modalità mafiose). Nel corso dell’operazione sono stati sequestrati beni per un milione di euro. Sono impiegati oltre cento uomini della Direzione Investigativa Antimafia di Lecce, Bari, Napoli, Catanzaro e Salerno.

Il "Vento del Nord" che raffredda i Bellocco

arrestogregoriobelloccoCi sono segnali importanti nascosti tra le pieghe dell’operazione “Vento del Nord” coordinata dal pm Elisabetta Melotti dell Dda di Bologna.

Innanzitutto la famiglia protagonista suo malgrado: i Bellocco appartengono a pieno titolo a quel modello di ‘ndrina che non si è accontentata del controllo della zona di Gioia Tauro e del podio  nel danaroso mercato del narcotraffico ma si è spinta, liquida e comunque vertebrata, in Basilicata, Toscana, Emilia Romagna, Liguria fino alla metallizzata e per niente vergine Lombardia. Dal nonno fondatore Umberto Bellocco (1937), che da Rosarno ha coltivato la potenza ingorda fino a delegare a Giuseppe Rogoli alla fondazione della Sacra Corona Unita nel 1983, passando poi a Gregorio Bellocco (arrestato il 16 febbraio 2005) fino a Giuseppe Bellocco (arrestato nel luglio del 2007). Una genetica preservazione del gene criminale che scavalca le generazioni con il sapore acre della mala educazione sancita dall’appartenenza fiera al capo bastone, come nella migliore tradizione di quel rospo multicefalo che nuota per l’Italia a forma di ‘ndrnagheta. Insomma i Bellocco rispondono in pieno alla letteratura della Santa, con i soldi scivolosi di muco che sanguinano dal malaffare e tutto quel mito sotterrato che funzionerebbe nelle commediole di bassa lega dei teatrini vicino al porto (basti pensare al disco “Pensieri di un latitante” in cui ritroviamo una canzone dedicata proprio al Gregorio probabilmente sfornata dall’ispirazione latitante del cugino Giuseppe.

Poi c’è la geografia: come Gregorio era riuscito ad esportare gli affari nella ridente Milano che nasconde la testa dentro un Campari, oggi il cinquantatreenne Carmelo Bellocco (con suo figlio Umberto, 18 anni, agli arresti domiciliari a Rosarno, l’altro figlio Domenico, 29enne, detto ‘Micù, con il nipote Domenico, 32enne detto ‘Micu u longù, con il fratello Rocco, 57enne di Rosarno, insieme alla moglie Maria Teresa D’Agostino, di 50 anni e ad un suo fedelissimo Gaetano Rocco Gallo originario di Rosarno di 56 anni) si è appoggiato a forma di macchia nella zona bolognese dove fingeva (male) di travestirsi da ortofrutticolo nella Veneta Frutta srl del fedele Gallo (che a dispetto del nome proprio non cantava) all’interno del mercato Caab di Bologna. Una saliva interregionale e mafiosa versata sul Nord. In un quadro cubista sarebbe la cittadina di Rosarno che esplode in pezzi che si infilano nel resto del mondo.

Poi ci sono gli usi e i costumi che, nonostante si sia ormai alla terza generazione, continuano a galleggiare più forti della decennale metropolizzazione della famiglia: la moglie di Bellocco, parlando con il figlio Umberto, dice: “Una volta che partiamo, partiamo tutti e ci inguaiamo tutti. O loro o noi. Vediamo chi vince la guerra”. Il motivo di questa primitività? Il 20 giugno scorso il capo di un gruppo criminale calabrese non strutturato come ‘ndrina aveva raggiunto Carmelo Bellocco che attualmente viveva a Granarolo, comune alle porte di Bologna, in affido ai servizi sociali dopo essere stato scarcerato dal carcere della Dozza. Lì Bellocco riceveva uomini di spicco della criminalità organizzata ma anche usurati che gli consegnavano il pizzo. Bellocco, era il capo della cosca dopo l’arresto del fratello Pino. In quell’incontro del 20 lo sconosciuto gli ha chiesto “giustizia” per un omicidio commesso nell’«89. Per tale ragione gli ha chiesto una vita in cambio di un’altra. L’affronto non era andato giù a Bellocco che per tale ragione aveva convocato una riunione della famiglia e dei fedelissimi a Granarolo per decidersi il da farsi. Innanzitutto bisognava capire se lo sconosciuto si era presentato a proprio nome o faceva parte di una famiglia dell«ndrangheta. Fatto ciò bisognava organizzarsi per la faida. Da qui la necessità di recuperare armi, auto blindate e giubbotti antiproiettile.

Infine c’è la sorpresa che rincara l’ottimismo: ha ragione il questore di Bologna Luigi Merolla quando dice “Forse è la prima volta che la presenza criminale non viene accertata da indagini nel paese d’orgine dell’organizzazione ma da attività di ricognizione del territorio, è un’operazione estremamente importante perchè rappresenta il segno di una maggiore attenzione degli organi di polizia e giudiziario a questo fenomeno. Abbiamo individuato l’organizzazione comprese le sue articolazioni.”

Il bicchiere è mezzo pieno, e i Bellocco non se ne sono ancora accorti.