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Salute

Covid, per due mesi conferenze stampa quotidiane sulle regole da seguire. Ora che il distanziamento sociale è scomparso va tutto bene?

La scienza, si sa, è piena di dubbi per sua natura. Un governo, si sa, deve affidarsi alla scienza per prendere decisioni e per imporre regole chiare che siano rispettate da tutti. Insieme alle regole è nei doveri del potere anche il controllo e l’eventuale notifica della trasgressione. Su questo, almeno su questo, dovremmo essere tutti d’accordo.

Abbiamo passato gli ultimi mesi a essere bombardati di regole, regole nuove che hanno modificato profondamente i nostri comportamenti e soprattutto che hanno avuto un enorme impatto economico e sociale per molte famiglie, per molte attività e per molte imprese. Le conferenze stampa della Protezione Civile e del Presidente del Consiglio Conte per molti hanno significato una diversa quotidianità (anche lavorativa) a partire dal minuto dopo, allineandosi alle decisione con ingenti costi economici, sociali e perfino di programmazione del futuro. Ci si è messi tutti in fila, gran parte degli italiani hanno diligentemente cambiato i propri comportamenti e hanno ascoltato con fiducia le parole degli scienziati e delle organizzazioni sanitarie. Anche le statistiche dicono che nel periodo del lockdown e nella prima fase successiva sono stati pochissimi i multati, una percentuale minima di un Paese che si è messo in riga.

Perfetto, arriviamo a noi. Ci dicono che la mascherina è obbligatoria negli ambienti chiusi e che il distanziamento sociale (che poi è un distanziamento fisico pronunciato con le parole sbagliate) sia fondamentale per la salute pubblica. Non ci vuole molto per accorgersi che le regole con il tempo si sono sfilacciate, deteriorate e che vengono contravvenute praticamente in ogni occasione: su molte spiagge sembra l’estate del 2019, l’aperitivo è identico per modi e distanze a quello pre-pandemia, i treni dei pendolari sono affollati e costretti. Niente di male, per carità, se qualcuno avesse fatto una bella conferenza stampa per dirci che va bene così, se qualcuno ci spiegasse perché l’esercito che inseguiva i runner ora si è volatilizzato. E invece niente. Sembra, da fuori, l’atteggiamento di chi ha voluto che il Covid venisse sistematicamente dimenticato, come se il rilassamento generale fosse quasi stato programmato. Io non sono uno scienziato ma mi chiedo: non sarebbe il caso ora di fare una bella conferenza stampa per chiarirci il punto? Per dirci: liberi tutti oppure no, non va bene? Davvero è tutto a posto così?

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L’articolo proviene da TPI.it qui

Dicono che la riforma aiuterà i malati. E intanto dalla legge di bilancio spariscono i soldi per i bambini dell’Ilva.

(di Virginia Piccolillo per il Corriere della Sera, qui)

Spariti dalla manovra i fondi per curare i bambini dell’Ilva. Erano solo 50 milioni i soldi promessi dal governo per finanziare medici, infermieri, analisi cliniche e attrezzature sanitarie a Taranto destinate ad affrontare l’emergenza dovuta alle emissioni venefiche dell’acciaieria più grande d’Europa alimentata a carbone. Dagli ultimi dati epidemiologici la mortalità è in aumento. E un bambino su quattro dei quartieri Tamburi e Paolo VI, a ridosso dello stabilimento, viene ricoverati per patologie respiratorie. C’era la promessa del governo. Ma, improvvisamente, alle 4 del mattino di giovedì l’emendamento è’ scomparso. Furioso il presidente della commissione bilancio Francesco Boccia: «Senza alcuna spiegazione, per quella spesa che avevamo concordato di mettere tra le priorità non c’era più il via libera di Palazzo Chigi. Ne chiederò conto è non farò sconti a nessuno».

Le promesse e il giallo della norma sparita

Aveva suscitato entusiasmo il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, annunciando a Bari il 12 novembre, l’intenzione del governo di «aiutare Taranto» per concedere la deroga al blocco delle assunzioni e della spesa sanitaria. L’accordo con il governo era stato sancito dal presidente della commissione bilancio, Francesco Boccia, con il viceministro del l’economia Morandi e il sottosegretario Beretta. «Eravamo d’accordo che tra le spese più importanti, oltre al centro meteo di Bologna o alla coppa del mondo di sci, ci fosse questa. L’impegno era stato sbandierato, soprattutto dal sottosegretario Claudio De Vincenti, e poi dal ministro Lorenzin. Non c’è’ tarantino che non lo sapesse», tuona il pugliese Boccia. E racconta lo sconcerto del momento in cui ha scoperto che quell’emendamento non c’era più. Immediata la richiesta di chiarimenti alla task force del Mef, nella stanza accanto. «Avevo preparato io stesso l’emendamento. Non mi è stato detto perché non era stato inserito. L’unica risposta che ho avuto è che non era stato autorizzato da Palazzo Chigi». E, alludendo alla posizione critica del governatore della Puglia, Michele Emiliano, nei confronti della battaglia referendaria di Matteo Renzi, conclude: «Temo che qualcuno abbia confuso le vicende politiche con gli interessi di una comunità. Non si fa».

Il Pd in rivolta in Puglia

«È sconcertante la bocciatura dell’emendamento per affrontare le criticità dell’apparato sanitario di Taranto», dice Marco Lacarra, segretario regionale del Pd pugliese, ricordando che «si erano espressi a favore le comunità locali, consiglio regionale nella sua interezza, tutti i parlamentari della Puglia, il sottosegretario Vito De Filippo e soprattutto il ministro Lorenzin». Appena diffusa la notizia del no’ a quei fondi, necessari per evitare le penose trasferte sanitarie dei malati, il segretario del pd di Taranto, Costanzo Carrieri, ha dichiarato: «Sospendo le iniziative a sostegno del «Sì» al referendum. Riflettano hanno ancora tempo per cambiare idea nel passaggio al Senato».

L’iniziativa per l’Ilva pulita

Contro «l’inquinamento di Stato dell’Ilva» si è sempre battuto il governatore Michele Emiliano. Oggi a Roma alla Camera di Commercio ha convocato i massimi esperti internazionali di decarbonizzazione in un workshop per definire una road map per convertire lo stabilimento da carbone a gas, abbattendo così i principali fattori inquinanti. Un progetto presentato la settimana scorsa a Marrakech, nel corso della conferenza sul clima Cop21, che ha suscitato interesse e apprezzamento.

A dare dignità alla sua morte c’erano la sua famiglia, un maglioncino e lo scotch

Non so se vi è capitato di leggere la struggente lettera di Patrizio Cairoli alla ministra Lorenzin in cui racconta delle condizioni in cui è morto suo padre. Conviene prestarci molta attenzione perché la salute è cura e dignità. Ed è un tema politicissimo:

«Signora ministra, sono passati circa tre mesi dal giorno in cui mio padre ha scoperto di avere un cancro a quello della sua morte; metà del tempo lo ha trascorso ad aspettare l’inizio della radioterapia, l’altro ad attendere miglioramenti che non sono mai arrivati. Nonostante la malattia, ci avevano prospettato anni di vita da trascorrere in modo dignitoso.

È stato sottoposto a radioterapia palliativa, ma di palliativo non aveva che il nome: mio padre aveva sempre più dolori alle ossa; alla fine, non riusciva più a camminare e anche le azioni più semplici, come alzarsi dal letto o scendere dalla macchina, erano diventate un calvario, nella totale indifferenza di medici che, oltre ad alzare le spalle e a chiedere di avere pazienza, non sapevano dire o fare altro, se non aumentare la dose di tachipirina. Ci avevano detto che, dopo qualche giorno, avremmo visto i benefici della terapia; poi, di fronte ai dolori sempre più forti avvertiti da mio padre, era diventato necessario aspettare ‘anche 3-4-5 mesi’. Nessuno ci ha aiutati a comprendere, nessuno ci ha detto quello che avremmo dovuto fare: rivolgerci a una struttura per malati terminali e garantire, con la terapia del dolore, una morte dignitosa a mio padre. Quando l’ho fatto, era ormai troppo tardi: il giorno dopo mio padre è finito in ospedale, al pronto soccorso del San Camillo (che non è l’ospedale dove era seguito), dove finalmente gli è stata somministrata la morfina.

Qui, la situazione si è aggravata velocemente. Mio padre è morto dopo 56 ore, passate interamente in pronto soccorso. Lo ripeto: cinquantasei ore in pronto soccorso, da malato terminale, nella sala dei codici bianchi e verdi, ovvero i casi meno gravi. Accanto aveva anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti che, di notte, cercavano solo un posto dove stare. Il peggio, poi, si verificava nell’orario delle visite: sala sovraffollata di parenti che portavano pizza e panini ai malati e che non perdevano l’occasione per gettare lo sguardo su mio padre. Abbiamo protestato, chiesto una stanza in reparto o in terapia intensiva, un posto più riparato. Ma non abbiamo ottenuto nulla. Allora sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l’altro.

Invece abbiamo dovuto insistere per ottenere un paravento, non di più, perché gli altri “servono per garantire la privacy durante le visite”; una persona che sta morendo, invece, non ne ha diritto: ci hanno detto che eravamo persino fortunati. Così, ci siamo dovuti ingegnare: abbiamo preso un maglioncino e, con lo scotch, lo abbiamo tenuto sospeso tra il muro e il paravento; il resto della visuale lo abbiamo coperto con i nostri corpi, formando una barriera.

Sarebbe dovuto morire a casa, soffrendo il meno possibile. E’ deceduto in un pronto soccorso, dove a dare dignità alla sua morte c’erano la sua famiglia, un maglioncino e lo scotch. È successo a Roma, Capitale d’Italia.»

L’umanizzazione della cura

‘Restare umani” non è uno slogan. L’hanno usato con superficialità, forse, rinchiuso nella prigione delle frasi “da maglietta” ed è stata strumentalizzata da inetti destrorsi per rinchiudere Vittorio Arrigoni nel recinto dei “comunisti” da non rimpiangere. Eppure dentro il “restare umani” c’è una visione politica che sarebbe la chiave per ripensare molti dei settori di questo Paese che si incaglia sulle somme, le sottrazioni e i compiacimenti da mantenere.

Le parole di Paolo Veronesi (con cui mi trovo spesso in disaccordo su alcune visioni) sono le parole di buon senso che forse non dovrebbero nemmeno stupire ma suonano come rivoluzionarie in un momento come questo:

I “medici-clown” svolgono un lavoro meraviglioso, ma non dovrebbero essere i soli ad occuparsi del malato come persona: tutto l’ospedale, nel suo insieme, dovrebbe rispettare il principio dell’umanizzazione della cura, e non solo nei reparti pediatrici.

Questo significa, per esempio, che già nella sua progettazione la struttura deve essere concepita come “la casa del malato”, in cui ogni aspetto, dagli arredi all’organizzazione,restituisca a chi è ricoverato comfort, serenità e sicurezza: l’opposto di quel senso di estraneità che spesso si prova entrando in un ospedale tradizionale. Ma non solo: l’organizzazione stessa deve adottare orari e comportamenti rispettosi dei normali ritmi di vita del paziente, ad esempio facilitando le visite di familiari e amici, riconsiderando gli orari dei pasti – inspiegabilmente molto anticipati rispetto alla consuetudine – e rispettando la privacy del malato mettendo a sua disposizione camere singole.

Un ospedale così concepito, permette ai pazienti di sentirsi quanto più possibile a loro agio, proprio come in una casa dove si va a vivere in particolari circostanze, dolorose certamente, ma a causa delle quali la nostra vita non deve cambiare, nei limiti del possibile, ritmo e abitudini. Per dare vita a questo luogo di accoglienza e di attenzione, devono essere abolite tutte le regole che rendono l’ospedale punitivo e lontano dalle abitudini di vita delle persone sane, in nome di un’unica regola: considerare il paziente, prima che un malato, una persona da rispettare nella sua globalità.

E se partissimo dall’umanizzazione non sarebbe facile poi che etica, solidarietà e giustizia venissero ovviamente al seguito?

La farmacia dei poveri

La chiamano così, L’India, con i suoi diciassette miliardi di euro di fatturato annuo della propria industria farmaceutica. Le luci su questo connubio poco conosciuto tra produttività, salute e India (appunto) si sono accese in questi ultimi giorni dopo la sentenza storica con cui la Corte Suprema di New Delhi ha respinto un ricorso presentato dal colosso svizzero Novartis relativo al brevetto di un medicinale anti cancro attualmente “copiato” dalle aziende farmaceutiche indiane  (Glivec) e venduto a un prezzo di gran lunga inferiore a quello dell’originale. Secondo i giudici, il farmaco Glivec non è una «invenzione», ma una riformulazione di un preparato contenente la stessa molecola. Si tratterebbe insomma di quello che gli addetti ai lavori chiamano “evergreening”, una pratica usata da “big pharma” per rinverdire un vecchio prodotto e rimetterlo sul mercato con un nuovo brevetto. L’atteso verdetto del massimo organo giudiziario permetterà ai gruppi farmaceutici indiani come Cipla e Rambaxy di continuare a produrre la versione generica del medicinale usato per trattare una rara forma di leucemia.

Secondo molti attivisti per i diritti umani la causa della Novartis vorrebbe privare molte persone di farmaci che non sarebbero altrimenti accessibili a molti, dall’altra parte le grandi industrie farmaceutiche rivendicano la protezione dei brevetti e degli investimenti nella ricerca. La verità in dispute come questa si frastaglia tra l’imprenditoria, il mercato e il valore solidale della vita. Sono gli intrecci che si annodano quando si parla di sanità dove l’imprenditore rivendica di potere essere impresa nel settore delle vite come per i pomodori, gli arredamenti o le automobili senza limiti di etica e solidarietà. Come se il mio meccanico con il mio motorino abbia un dovere morale identico al pediatra con la malattia di un mio figlio. E’ la transuamnza incontrollata e incontrollabile del Marchionnismo in tutti i campi: salute inclusa. E mentre i tribunali provano a parare il colpo alla fine la comunità internazionale finge di non capire che la propria latitanza sulla disposizione di nuove regole continua ad avere un costo sociale altissimo e relega una questione morale ai professionisti del marketing e del bilancio.

E questo succede in India, vero, ma in fondo l’India è molto più vicina di quanto pensiamo se ricordassimo un minuto soltanto le vicende della Clinica Santa Rita in Lombardia o gli innumerevoli casi di aziende ospedaliere gestite da mercatari che farebbero impallidire Ippocrate e i suoi.

E sarebbe bello che l’Italia partisse da qui per ricostruirsi una credibilità internazionale che non stia a farneticare solo di saggi, spread e alchimie di governo. Sarebbe bello davvero essere gli innovatori di un’etica farmaceutica comunitaria.

Consiglio non richiesto: una legge per l’autismo

intolleranza-al-glutine-e-autismo1 bambino su 88 è autistico. Ce se ne accorge sempre con un po’ di fatica, noi genitori siamo fatti così: per amore dei figli ogni tanto allontaniamo anche i dubbi. Eppure una diagnosi precoce è fondamentale per riuscire ad intervenire ad un’età in cui i processi di sviluppo possano essere ancora modificati. Uno screening nei giusti tempi (e in tempi ragionevoli per analizzare il dubbio) è fondamentale. Lo Stato Italiano (e Regione Lombardia) ha regolamentato gli screening oncologici ma ha dimenticato gli screening precoce per la diagnosi dell’autismo.

Tra le terapie più note per curare i bambini autistici spicca, per riconoscimenti scientifici e per efficacia, l’A.B.A. (Applied Behavior Analysis). L’Aba è basata su un approccio comportamentale. Negli Usa questo metodo si utilizza in modo intensivo da oltre un decennio, mentre in Italia se ne parla diffusamente solo negli ultimi anni.

Nonostante sia consigliata dalla Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (Sinpia) e nell’ottobre 2011 lo stesso Istituto Superiore di Sanità abbia pubblicato linee guida ufficiali che che ne indicano l’efficacia, la maggioranza dei centri di neuropsichiatria non offre questa terapia.

I genitori che hanno le disponibilità economiche riescono ad accedere privatamente  questi percorsi mentre i cittadini “normali” (ancora meno quelli che abbiano poche possibilità di informarsi) non hanno possibilità di accedervi.

La Lombardia che vogliamo è all’avanguardia nel trattare i pazienti tutti allo stesso modo senza differenze di orientamenti sessuali, possibilità economiche, fede religiosa e professione.

Un bella legge per aprire la legislatura. In Parlamento e in Lombardia.

Lombardia, salute e il cuore dei cittadini

regione_lombardia_ansa-jpg-crop_displayChiedo al dott. Marco Zanobini, cardiochirurgo presso il Centro Cardiologico Monzino di Milano, se è vero che in Lombardia ci sono più cardiochirurgie che in tutta la Francia: “Se consideriamo che in Lombardia vi sono 20 centri di cardiochirurgia mentre  nella regione francese dell’Ile de France ve ne sono 14,  con una popolazione residente superiore del 15%, possiamo senz’altro dire che in Lombardia ve ne sono troppi. Il dato attuale tiene conto di una programmazione sanitaria effettuata negli anni addietro non troppo illuminata: si decise allora, vista la richiesta immediata di prestazioni cardiochirurgiche che causava lunghe liste di attesa anche superiori ad un anno, di autorizzare l’apertura di un elevato numero di centri, soprattutto privati”. […]

“Si dovrebbe garantire l’accesso di tutta la popolazione ad un elevato standard di cura e al tempo stesso lo si dovrebbe consentire in tempi ragionevoli; mentre la riduzione dei posti letto che si sta portando avanti costituisce un ostacolo. Inoltre si dovrebbe garantire l’appropriatezza delle cure erogate con una continua interazione e collaborazione tra Istituzioni ed operatori del settore, al fine di trovare dei chiari punti di intesa su cui sviluppare una implementazione ed un miglioramento del servizio offerto; a tal proposito ricordo ancora la necessità di un rigoroso controllo della qualità dei risultati clinici forniti soprattutto in un momento come quello attuale in cui si impone la necessità di un serio e razionale controllo della spesa pubblica”.

Domenico De Felice in un’intervista cardiaca che centra il “cuore” della meritocrazia e della programmazione sanitaria fallimentare nonostante la retorica dell’eccellenza.

Sto diventando intollerante all'(in)sanità pubblica

Io non sopporto più quest’aria rarefatta che nasconde la torba di un Governo che vorrebbe inculcarci la propria strada come unica possibilità da percorrere.
Non sopporto più questo ripetere che non c’è alternativa per narcotizzare l’elaborazione del pensiero politico, la fantasia, la politica e la speranza. Non sopporto più questo perbenismo conformista che dovrebbe spingerci a tacere che un Premier in un Paese che spende quello che spende in armamenti, corporazioni, prostituzioni finanziarie, lecchinaggi clericali e soldi pubblici per pagare i vizi, in un Paese in questo stato (minuscolo), Mario Monti si permetta di discutere di servizio sanitario nazionale come un privilegio per cui dovremmo ringraziare a testa bassa e mani giunte.
Io non sopporto più di ascoltare la retorica del privato (nei settori che la Costituzione prevedeva e vedeva pubblici) che eccelle nei ruoli che sono dello Stato quando, anche in Lombardia, è stato piuttosto interprete dell’egoismo, del disprezzo sociale e della distorsione di una mission che non può essere consonante nell’etica e insieme nei bilanci.
Io non accetto (ed è un minaccioso consiglio anche per i candidati delle primarie lombarde) che ci si ingegni per trovare “ciò che di buono è stato fatto” nella melma che si può annusare facendo un salto al presidio dei lavoratori appena fuori dal San Raffaele, dalle famiglie sanguinanti dei pazienti del Santa Rita o dagli “esuberi” che pagano la protervia e la bassezza umana della Fondazione Maugeri.
Io non tollero che non si levi una voce collettiva dignitosamente furiosa contro Monti e alcuni suoi Ministri che esibiscono priorità scollegate dalla realtà e con ghigno professorale ci illustrano teorie medievali nella visione dei diritti.
Non mi interessa sedermi dalla parte del torto (perché come diceva Brecht i posti erano già tutti occupati dalla parte della ragione) per elemosinare una poltrona o una carezza dalle segreterie.
Perché alla fine anche la liberalizzazione della dignità della persona ci diranno che è l’unica soluzione possibile.

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A Palazzo Lombardia si manifesta di malasanità

[comunicato stampa]

Dichiarazione del consigliere Cavalli (SEL) in merito alla manifestazione di oggi – 21 novembre 2012 – indetta da FP CGIL e UIL FPL Regionali

“Sono vicino alle lavoratrici e ai lavoratori della sanità pubblica e privata che stamani manifestano davanti all’Assessorato alla Sanità della Regione Lombardia.

Il tanto decantato sistema sanitario lombardo, con le sue eccellenze si sta sgretolando davanti agli occhi di tutti. E così dimostra i limiti e le criticità che abbiamo denunciato in tutti questi 17 anni di mal governo formigoniano.

La libera scelta, la parità del pubblico con il privato che non è mai decollata, il privilegio delle strutture private salite alla ribalta della cronaca con gli scandali che vedono in carcere personaggi vicini al Governatore  – come Daccò – che vedono conseguentemente una sottrazione di risorse alla sanità pubblica sono purtroppo sotto gli occhi di tutti noi.

Abbiamo di fronte a noi una prospettiva certamente non rosea, ed ad aggravare la situazione arriva la notizia di un taglio di  300 milioni di euro alle risorse regionali, per effetto della manovra Monti.

Che conseguenze avrà?

Porterà inevitabilmente al  blocco del turn over per il personale delle aziende sanitarie e ospedaliere pubbliche; cessazione di tutti i contratti di lavoro a tempo determinato; dichiarazione di licenziamenti (San Raffaele), a esuberi e cassa integrazione (Aiop e Multimedica) per i lavoratori della sanità privata; blocco del rinnovo dei contratti pubblici e privati; taglio delle risorse destinate alla contrattazione integrativa e decentrata; condizioni di lavoro precarie; riduzione dei servizi con conseguente aumento delle liste di attesa.

Dico grazie ai 130.000 operatori, medici, infermieri, tecnici, amministrativi, ausiliari, pubblici e privati, che con la loro professionalità quotidianamente hanno risposto in prima fila ai bisogni di salute delle persone!”

Immagina una città di abitanti senza casa

Come un incubo kafkiano in cui la città diventa un enorme lazzaretto e la malattia è la povertà. Ci siamo abituati a leggere le cifre e ci siamo allenati a fare i conti con le statistiche con l’anaffettività dei matematici, ci concediamo di spaventarsi solo davanti a cifre iperboleche e abbiamo perso tutti i gradi intermedi di sdegno e pietà. Un bianco o nero, giusto sbagliato, vero o falso sui dolori che non ammette eccezioni come una sicumera che ha bisogno di essere inumana per esistere.

Così succede che vengano pubblicati i risultati di una ricerca sui “senza dimora” in Italia e i numeri vengano snocciolati con piglio scientifico:

In tutto sono 47648 persone: una città come Mantova per i certificati di mancato “residente della Repubblica”. I dati sono tutti in un articolo di Vladimiro Polchi:

Molti gli italiani. Le persone senza dimora sono per lo più uomini (86,9%), hanno meno di 45 anni (57,9%), nei due terzi dei casi hanno al massimo la licenza media inferiore e il 72,9% dichiara di vivere da solo. Tanti gli italiani, anche se la maggioranza è costituita da stranieri (59,4%): le cittadinanze più diffuse sono la romena (l’11,5%), la marocchina (9,1%) e la tunisina (5,7%). In media, le persone senza dimora dichiarano di trovarsi in tale condizione da 2,5 anni; quasi i due terzi (il 63,9%), prima di diventare senza dimora, viveva nella propria casa, mentre gli altri si suddividono tra chi è passato per l’ospitalità di amici o parenti (15,8%) e chi ha vissuto in istituti, strutture di detenzione o case di cura (13,2%). Solo il 7,5% dichiara di non aver mai avuto una casa.

Dove vivono? Più della metà delle persone senza dimora (il 58,5%) vive nel Nord (il 38,8% nel Nord-ovest e il 19,7% nel Nord-est), poco più di un quinto (il 22,8%) al Centro e solo il 18,8% vive nel Mezzogiorno (8,7% nel Sud e 10,1% nelle isole). Milano e Roma accolgono ben il 71% dei senzatetto. Dopo Roma e Milano, tra i 12 comuni più grandi quello che accoglie più persone senza dimora è Palermo. 

C’è anche chi lavora. Il 28,3% delle persone senza dimora dichiara di lavorare: si tratta in gran parte di lavoro a termine, poco sicuro o saltuario. I lavori sono a bassa qualifica nel settore dei servizi (l’8,6% lavora come facchino, trasportatore, addetto alla raccolta dei rifiuti, giardiniere, lavavetri, lavapiatti), nel settore dell’edilizia (il 4% lavora come manovale o muratore), nel settore produttivo (il 3,4% come bracciante, falegname, fabbro, fornaio) o nel settore delle pulizie (il 3,8%). In media, quelli che hanno un lavoro guadagnano 347 euro mensili. E ancora: tra le persone senza dimora, ben il 61,9% ha perso un lavoro stabile, a seguito di un licenziamento o chiusura dell’azienda. 

Perché si finisce per strada? La perdita di un lavoro risulta tra gli eventi più rilevanti del percorso di emarginazione che conduce alla condizione di senza dimora, insieme alla separazione dal coniuge e alle cattive condizioni di salute. Ben il 61,9% dei senzatetto ha perso un lavoro stabile, il 59,5% si è separato dal coniuge e dai figli e il 16,2% dichiara di stare male.

Dentro i numeri c’è il lavoro così precario da non garantire l’accesso ad un luogo in cui stare, c’è la famiglia (sempre osannata) che si sfalda demolendo la cittadinanza di uno dei due, c’è il Nord che è più disabitato del sud nonostante la retorica delle proprie eccellenze, ci sono le cattive condizioni di salute che lo Stato certifica come non sostenibili: sono gli esodati dal diritto di cittadinanza, i nuovi invisibili.

Tutto questo mentre il rapporto ONU sulla fame nel mondo presentato oggi scrive a chiare lettere:

La crescita è necessaria e importante, ma non sempre sufficiente, o rapida. Da qui la necessità di sistemi di protezione sociale per assicurare che i più vulnerabili non siano lasciati da soli ma possano invece partecipare, contribuire e beneficiare della crescita.  Per i più deboli, coloro che spesso non possono trarre immediato beneficio dalle opportunità offerte dalla crescita economica, sono necessarie misure come il trasferimento di denaro, come i buoni pasto o assicurazioni sanitarie.  Le reti di protezione sociale possa far migliorare la nutrizione dei bambini – un investimento che ripagherà nel futuro con adulti più robusti, più in salute e con migliori livelli d’istruzione.  Con reti di protezione sociale a complemento della crescita economica, fame e malnutrizione possono essere eliminate.

Che poi è il cuore politico.