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sanità

Gli stra-ordinari pazienti di Gallera

Il magico mondo della Sanità privata visto con gli occhi dell’assessore al Welfare con delega alla Sanità della regione più devastata dalla pandemia

«Gli ospedali sono stati sommersi da pazienti Covid e il privato ha aperto le sale di terapie intensive e le loro stanze lussuose a pazienti ordinari che venivano trasferiti dal pubblico. Il nostro compito è mantenere questo equilibrio». Sono le parole dell’assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio Gallera, uno che ogni volta che parla riesce a mostrarsi perfettamente per quello che è e per quello che pensa. In fondo è una fortuna avere politici così: non c’è nemmeno bisogno di grattare la superficie per trovarci già tutto bell’e pronto.

Nella frase c’è tutto, basta avere voglia di analizzare con calma.

Ci sono i lussuosi ospedali privati. Gente che riesce con soldi pubblici a puntare all’esclusività come caratteristica. Ora alzi la mano chi si sente rassicurato dall’abitare in una regione in cui la sua eventuale malattia ha la possibilità di svolgersi nel lusso, come se gli ospedali siano resort da giudicare per i servizi annessi e connessi in un Paese (e in una regione) in cui ci si mette mesi a accedere a esami specialistiche con lunghissime liste d’attesa. Eccola la sanità lombarda, il modello di cui tutti ci parlano da decenni: ospedali lussuosi pagati con soldi pubblici che tolgono denaro e energie agli ospedali pubblici che annaspano. Glorificare un ospedale perché lussuoso è un po’ come magnificare un salame perché è veloce oppure lodare un architetto perché cucina ottimi tortellini. Una cosa così.

Poi ci sono i pazienti ordinari. E siccome l’italiano non è un’opinione quella frase ci dice che ci sono anche pazienti straordinari, inevitabilmente. Non si sfugge. Che esistano pazienti di serie a e di serie b in una regione che ha trasformato la cura in un business è cosa risaputa. Non si tratta solo di chi può permettersi la sanità (così come la scuola) privata alla faccia di chi deve affidarsi al servizio pubblico che ogni tanto non c’è: si tratta di avere l’accidente giusto, in sostanza avere la fortuna che la propria malattia possa interessare a livello di fatturato e quindi si diventa improvvisamente ottimi clienti. Perché è tutto un enorme supermercato dei malati, pagato con i soldi di tutti, in cui guadagnano in pochi.

Complimenti per la sincerità, Gallera.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Ieri gli infermieri erano “eroi”. Ora chiedono stipendi decenti e vengono presi a manganellate

Ve li ricordate gli infermieri in prima linea tutti belli, tutti giovani, tutti forti? Ve la ricordate, non è passato molto tempo, la romanticizzazione del lavoro negli ospedali nel momento di punta del virus, quando circolavano le fotografie di personale distrutto dalle mascherine, segnato dal dolore, provato dalla stanchezza e svuotato alla fine di turni che duravano perfino un giorno intero? Si diceva che forse sarebbe stato il caso di trarne una lezione, di essere meno poetici e di considerare la straordinarietà dell’impegno come lezione per il futuro, per riconoscere di più e meglio il lavoro di una sanità che un po’ dappertutto è stata sempre punita dalle scelte della politica, abbandonata a calcoli di bottega più che a preoccupazioni sanitarie.

In Francia da giorni gli operatori sanitari protestano per le strade chiedendo una migliore retribuzioni e maggiori investimenti nella sanità pubblica, per strada ci sono le stesse facce che venivano celebrate e incoraggiate, per strada c’era anche Farida, un’infermiera che è stata fotografata, questa volta senza celebrazioni facili come didascalia, ma circondata da poliziotti antisommossa che la trascinano con la faccia sporca e insanguinata come se fosse una pericolosa criminale. “Questa donna è mia madre – ha poi twittato la figlia – ha 50 anni, è infermiera, per tre mesi ha lavorato fra le 12 e le 14 ore al giorno. Ha avuto il Covid. Manifestava perché rivalutino il suo salario, perché riconoscano il suo lavoro. E’ asmatica. Aveva il camice. E’ alta 1,55 metri”·

Dietro un semplice episodio c’è molto: c’è la violenza della polizia (accade in Francia come accade negli Usa e come accade un po’ dappertutto perché il problema è molto più contagioso di quello che sembra), c’è il declino veloce di chi torna utile ai governi nella veste di eroe ma che poi deve fare il bravo e tornare buono al suo posto senza alzare troppo la voce e c’è la pandemia che ha scoperto bisogni che qualcuno finge ancora di non vedere. L’eroe moderno a disposizione del potere funziona così: pronto per mettersi in posa per essere l’angelo custode a disposizione della narrazione battagliera e poi il muto consapevole di chi non si permette di alzare la voce. Non è che i nostri eroi sono stati utili solo come statuine di un presepe che doveva sconfiggere il virus e poi andava messo in soffitta fino alla prossima celebrazione? Perché così sarebbe tutto terribilmente poco etico, poco serio, poco credibile.

Leggi anche: 1. Divorare ciliegie mentre si parla di bambini morti: non c’è da ridere, c’è da avere paura / 2. A Londra un antirazzista ha salvato un razzista dal linciaggio. Ecco com’è vivere senza nemici / 3. La Storia non è una statua inamovibile uguale a se stessa: ecco perché si può mettere in discussione 

L’articolo proviene da TPI.it qui

In Lombardia i contagi si impennano di nuovo. Ma nessuno ne parla, tantomeno Fontana e Gallera

Che strano animale è questa narrazione tossica del Covid che si adagia sulle diverse fasi, cambia registro ogni volta che bisogna spingere ad aprire tutto prima e chiudere tutto poi. Ora provate a chiudere gli occhi e tornate con la mente al periodo della quarantena nazionale, quando tutti rimasero al guinzaglio del terrore rinchiusi in casa mentre ogni giorno si svolgeva la messa laica della Protezione Civile che snocciolava dati, infetti, decessi e guariti. Immaginate lì, in uno a caso di quei giorni, una Lombardia con un nuovo picco dei contagi che contiene il 66,4% dei nuovi contagiati totali su tutto il territorio nazionale, immaginate di sapere (perché è così) che solo oggi stanno facendo tamponi a persone che si sono ammalate talmente tanto tempo fa che sono già guarite (o morte) e che hanno dovuto affidarsi al proprio buonsenso per non infettare gli altri e per rimanere chiusi in casa senza essere registrati, tracciati e seguiti da nessuna Ats.

Immaginate un sindaco di una città importante come Bergamo, come Giorgio Gori, che scriva quello che ha scritto ieri quando ha dichiarato senza mezzi termini: “Leggo che in Lombardia ieri ci sono stati 32 decessi per Covid. Non si sa però dove, in quale provincia, perché la Regione non comunica più i dati divisi. Da quando abbiamo segnalato che i decessi reali erano molti dpiù di quelli ‘ufficiali’, hanno secretato i dati per provincia” e che “neppure i dati sui guariti vengono più comunicati, e sì che sarebbero importanti per capire che oggi le persone ammalate sono poche” e che “non vengono comunicati neanche i dati dei positivi Covid divisi per singolo comune”.

Tutto questo mentre diverse Procure indagano sulla mancata istituzione della zona rossa tra Alzano e Nembro e sulle troppe morti all’interno delle RSA lombarde. Immaginate quei numeri se fossero serviti per giustificare una chiusura totale e osservateli oggi come vengono bisbigliati per non disturbare l’apertura e l’operosità che non si può fermare: i numeri possono diventare opinioni quando serve. E notate, tanto che ci siete, il silenzio dei virologi, l’attenzione caduta delle trasmissioni televisive e la mancanza dei grandi pareri di opinionisti di ogni sorta. Il virus è finito, hanno deciso così, e per finirlo basta smettere di raccontarlo e fare passare tutto come una semplice naturale lunga coda. I morti di questi giorni sono morti accidentali, i contagiati sono laterali. Stiamo a posto così. Che strano animale è questa narrazione tossica del Covid che riesce sempre a essere perfetta per il duo Fontana e Gallera.

L’inchiesta di TPI sulla mancata chiusura della Val Seriana per punti:

L’articolo proviene da TPI.it qui

Stanno vendendo in nostri dati clinici a IBM?

(Un articolo importante, perché sarà uno dei temi politici del futuro, e sarebbe il caso di occuparsene subito)

La sanità è uno dei settori maggiormente rivoluzionati dallo sfruttamento dei big data e del machine learning: aziende come Google ed IBM sono in grado, ad esempio, di riconoscere cellule tumorali grazie ai loro algoritmi di intelligenza artificiale, aiutando quindi i medici nelle loro attività di cura e prevenzione.

Il 31 marzo 2016, durante una visita dell’allora primo ministro Matteo Renzi alla nuova sede del centro Watson Health di IBM a Cambridge, MA, è stato firmato un accordo per creare un centro di eccellenza europeo Watson Health a Milano. Come si può leggere dal post ufficiale di IBM, “il Centro è parte di una collaborazione a lungo termine fra IBM ed il governo italiano. IBM intende investire fino a 150 milioni di dollari nei prossimi anni e raccogliere insieme esperti di data science, ingegneri, ricercatori e designer per sviluppare la prossima generazione di applicazioni e soluzioni per la salute, basate sui dati.”

Inoltre, prosegue il comunicato ufficiale, sarà offerta la possibilità di “lavorare in collaborazione con altre organizzazioni europee per creare una nuova tipologia di soluzioni che sfruttano il cloud, all’intersezione fra l’informatica cognitiva, le scienze biologiche e l’assistenza sanitaria.”

firma accordo dati sanitari IBM
La firma dell’accordo tra IBM e Governo Italiano per il Watson Health Center di MIlano. Fonte: IBM.

Ci troviamo di fronte alla formula magica del XXI secolo: soluzionismo tecnologico in soccorso dell’umanità. Purtroppo, però, ogni dettaglio di questo accordo è coperto da una fitta coltre di nebbia.

Lo scorso 15 febbraio, il Fatto Quotidiano ha rivelato che l’accordo prevede la fornitura ad IBM dei dati sanitari di tutti gli italiani, a partire da quelli che vivono in Lombardia. I documenti confidenziali che ne descrivono i termini — ottenuti dal giornalista Gianni Barbacetto — indicano anche la natura dei dati clinici: “si ritiene cruciale avere accesso a dati dei pazienti, ai dati farmacologici, ai dati del registro dei tumori, ai dati genomici, dati delle cure, dati regionali o Agenas, dati Aifa sui farmaci, sugli studi clinici attivi, dati di iscrizione e demografici, diagnosi mediche storiche, rimborsi e costi di utilizzo, condizioni e procedure mediche, prescrizioni ambulatoriali, trattamenti farmacologici con relativi costi, visite di pronto soccorso, schede di dimissioni ospedaliere (sdo), informazioni sugli appuntamenti, orari e presenze, e altri dati sanitari,” scrive Barbacetto nell’articolo de il Fatto Quotidiano.

Recentemente, lo stesso giornalista è entrato in possesso di un documento della Regione Lombardia che sancisce l’avvio del progetto entro la fine di luglio, nel quale si conferma la possibilità per IBM di avere accesso ai dati di circa 3 milioni di cittadini lombardi affetti da patologie croniche.

Le modalità di utilizzo di questi dati però non sono ancora state comunicate nemmeno al Garante per la protezione dei dati personali: i dati clinici sono altamente riservati e contengono sempre informazioni sensibili sullo stato psico-fisico di un soggetto e pertanto devono essere protetti con debite procedure di anonimizzazione per garantire la preservazione della privacy dei pazienti.

Sembra quindi che la scelta del governo — e della regione Lombardia — non abbia tenuto in considerazione tali ripercussioni sulla privacy dei cittadini e, nel frattempo, la richiesta di chiarimenti alle istituzioni non stia conducendo a risposte esaustive.

(continua qui)

La dignità dell’errore. E delle scuse

Filippo Chiarello aveva 38 anni, due bambini piccoli e un intervento da fare alla colecisti in laparoscopia. Nell’ospedale Santa Sofia di Palermo ci è entrato con l’idea di doverne uscire in pochi giorni, pronto ad affrontare una di quelle operazioni che di questi tempi sono routine. E invece è morto. E fino a qui sembrerebbe l’ennesima storia di malasanità pronta a finire sui giornali (locali, perché la sanità è sempre argomento molto poco pop) e ad aprire una sequela giudiziaria tra cartelle cliniche, scarichi di responsabilità e assicurazioni trincerate in difesa.

Invece qui le porte della sala operatoria si sono aperte davanti alla faccia addolorata di un medico che si è dichiarato colpevole di un errore: «Ho spalancato le porte della sala operatoria, ho allargato le braccia e ho detto che era colpa mia. Mi sono sentito morire dentro, sulle facce dei parenti ho visto la disperazione – racconta il medico che ha fatto l’intervento – e mi assumo la responsabilità ma ci tengo a far sapere che non ero distratto, ero concentrato. La verità è che può capitare e i rischi degli interventi in laparoscopia sono dietro l’angolo».

 

(continua su Left)

Vi ricordate il «niente tagli alla sanità»? Ecco.

(ne scrive Giovanni Rodriquez per Quotidiano Sanità)

Nella serata di ieri le Regioni a statuto ordinario hanno trovato un’intesa con il Governo sul riparto delle quote dei tagli ai bilanci regionali per far fronte al contributo alla finanza pubblica previsto dalla legge di bilancio 2017. Ma all’accordo si sono opposte però due le Regioni autonome (Sardegna e Friuli Venezia Giulia). Inoltre già lo scorso anno le regioni a statuto speciale avevano fatto ricorso contro i tagli della legge di stabilità 2016 (tutte tranne Trento e Bolzano) e questo apre al rischio di un taglio alle disponibilità della sanità in quanto la quota di compartecipazione di quelle Regioni non aderenti andrebbe a caricarsi sui bilanci delle Regioni a statuto ordinario che hanno già chiarito come, a questo punto, sarà impossibile non intaccare i budget della sanità.

Ma come stanno realmente le cose? I 422 milioni di euro di tagli al Fsn di cui si parlava ieri sera sono confermati? E come si è arrivati a questa cifra? Abbiamo cercato di capirlo con il coordinatore della commissione Affari finanziari della Conferenza delle Regioni, Massimo Garavaglia.

Assessore Garavaglia, ci aiuti a far chiarezza su quanto accaduto ieri. Intanto a quanto assomma la cifra del contributo alla finanza pubblica delle Regioni per il 2017?
Le manovre finanziarie approvate dal Parlamento nel 2014-2015 e 2016 fissano in 8.191,80 miliardi di euro la cifra dei tagli a carico dei nostri bilanci per il 2017, in parte già coperti lo scorso anno con tagli strutturali. Di questi 8 miliardi restano ancora da coprire circa 2,7 miliardi: questo è stato l’oggetto dell’Intesa di ieri sera, come cioè le Regioni Ordinarie pagano i 2,7 miliardi.

Ieri per tutta la giornata si è parlato del rischio di un taglio alla sanità di 422 milioni di euro derivanti dalla mancata intesa con le Regioni a statuto speciale. Ma come si arriva a questa cifra?
La cifra fa riferimento, non all’ultima legge di Bilancio, ma alla precedente legge di Stabilità che ‘colpiva’ anche le Regioni a statuto speciale. Bisogna fare però chiarezza su un punto: da una parte c’è l’annunciato ricorso alla Consulta portato avanti da Sardegna e Friuli Venezia Giulia contro l’ultima legge di Bilancio 2017, dall’altra c’è ricorso alla Consulta fatto e la contrarietà al contributo alla finanza pubblica previsto anche per le Regioni a statuto speciale dalla legge di Stabilità 2016, che ha portato Valle d’Aosta, Sicilia, Sardegna e Friuli Venezia Giulia a defilarsi. Da qui i 422 mln che restano in ballo perché le speciali non hanno voluto farsene carico e che, a questo punto, a causa di una clausola di salvaguardia introdotta dal Ministero dell’Economia, ricadono su tutte le Regioni a statuto ordinario. Le speciali non accettano i tagli del 2016 per 422 milioni e il taglio delle ordinarie sale di 422 milioni nel 2017.

Quindi le Regioni a statuto speciale hanno la facoltà di potersi tirare indietro su questo punto facendo ricadere quanto di loro competenza su tutte le altre?
Esattamente. E pensare che con il referendum costituzionale si voleva garantire a queste Regioni la loro ‘specialità’ in modo permanente. Sono orgoglioso di aver votato ‘contro’ quella riforma.

A questo punto quindi si può già parlare di un taglio secco al Fondo sanitario nazionale di 422 milioni?
Sì, il taglio è già cosa certa: il FSN per il 2017 è ridotto di 422 milioni dal momento che le speciali hanno formalizzato proprio in questi giorni la non volontà di partecipare ai tagli. Ma questa non è una novità, è da un anno che lo denunciamo.

E che ricadute potrà avere tutto questo sui cittadini? Procederete come nel 2015 con una nuova intesa con il Governo per individuare i risparmi da conseguire a fronte del minore finanziamento?
Il punto è che ancora una volta siamo alle solite. Qui si vorrebbe la botte piena e la moglie ubriaca. Con il finanziamento alla sanità lo Stato paga alle Regioni una serie di servizi che dovranno poi essere garantiti ai cittadini. Mi pare cosa del tutto evidente che ad un finanziamento minore possano corrispondere meno servizi. Il problema vero, ad esempio, potrebbe essere quello di garantire effettivamente l’erogazione dei nuovi Livelli essenziali di assistenza.

Lea sempre più a rischio, quindi. Considerando che a vostro avviso, come avete sempre detto, neanche gli 800 milioni stanziati dal Governo sono sufficienti a coprire le spese…
Esattamente, noi avevamo fatto una stima di circa 1,4 – 1,6 miliardi. Successivamente abbiamo accettato per senso di responsabilità un finanziamento di 800 milioni, ma ora sarà tutto ancora più difficile. Basta fare qualche calcolo: lo stanziamento per il Fondo sanitario è di 113 miliardi per il 2017, se a questi viene sottratto il miliardo che servirà a finanziare il Fondo per i farmaci innovativi scendiamo a 112 miliardi. A questo dobbiamo poi sottrarre i circa 400 milioni dei contratti e, adesso, i 422 milioni delle Regioni a statuto speciale. Scendiamo così a circa 111 miliardi. Praticamente quanto il Fsn del 2016. E tutto questo lasciando fuori i nuovi Lea. Insomma, la situazione non è certo semplice.

Prima si muore di vergogna e solo dopo di tumore

Non mi ha dato pace la lettera scritta da Patrizio Cairoli alla ministra Lorenzin in cui racconta del padre morto di tumore dopo cinquantasei ore passate al Pronto Soccorso dell’ospedale San Camillo a Roma.

“Mio padre è morto dopo 56 ore, passate interamente in pronto soccorso. – scrive Patrizio – Lo ripeto: cinquantasei ore in pronto soccorso, da malato terminale, nella sala dei codici bianchi e verdi, ovvero i casi meno gravi. Accanto aveva anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti che, di notte, cercavano solo un posto dove stare. Il peggio, poi, si verificava nell’orario delle visite: sala sovraffollata di parenti che portavano pizza e panini ai malati e che non perdevano l’occasione per gettare lo sguardo su mio padre. Abbiamo protestato, chiesto una stanza in reparto o in terapia intensiva, un posto più riparato. Ma non abbiamo ottenuto nulla. Allora sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l’altro”.

Ecco, io, cinquantasei ore da vedetta mentre un famigliare si consuma in un luogo di passaggio credo che sia un girone infernale che non si meriterebbe nessuno. E non c’entra la malattia, non conta la cura e la prevenzione e nemmeno la polemica politica: è la sensazione di un Paese che nemmeno negli ultimi istanti riesce a riscattarsi, anzi, se possibile, infierisce fino all’ultimo alito. È lo stesso sgomento che mi coglie quando incrocio gli occhi di anziani che si scusano per essere invecchiati troppo e troppo soli, quando ai disoccupati assale l’idea di essere sbagliati e falliti, quando un bambino chiede per favore di raccontargli com’è stare senza bombe.

Non è una notizia, questa, no. È una ferita. Una ferita che non guarisce nemmeno a leccarla con editoriali spinti o con umanità a chili per riparare il danno. È la nostra società profondamente ingiusta con i fragili. Semplicemente. Spaventosamente. È tutto qui.

(Il mio buongiorno per Left è qui)