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Sicilia

Parla Rita Borsellino

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La collega Ilaria Giupponi ha intervistato Rita Borsellino:

Nelle mani di chi andrà la Sicilia, adesso?

«Eh, non lo so… (sospira, poi silenzio). Abbiamo provato tante volte a sperare – non dico a credere perchè io non ho mai creduto in tutti quei proclami – però non mi aspettavo che si arrivasse davvero fino a questo punto»

Rita, se glielo chiedessero, tornerebbe a proporsi come guida?

«Ma manco per idea, guarda!». Una risposta che non lascia adito a dubbi, se non fosse altro che per la spontaneità: «Ho fatto il mio servizio per come ho potuto, soprattutto in Europa, ho cercato di fare quello che potevo e qualche risultato l’abbiamo anche raggiunto, ma il prezzo è troppo alto. Il prezzo», ripete, «è troppo alto».

Per leggere l’intervista integrale basta prendersi il nuovo numero di Left qui

Crocetta: l’intercettazione che non esiste e nessuno che smentisce

Scrive bene Luca Sofri qui:

crocetta-espressoMartedì un articolo di Fanpage che al momento non è stato smentito e contraddetto da nessuno, proponendosi come molto informato sulla genesi dello “scoop” dell’Espresso e vicino a fonti intime di quella storia, ha detto una cosa che improvvisamente – non del tutto improvvisamente: l’avevamo cominciata a mettere in conto qui – pone un’altra questione, che non riguarda né Crocetta né la Sicilia né il PD: riguarda come funziona lo Stato italiano, e tutti quanti.
Quella ricostruzione dice infatti che “apparati dei carabinieri” avrebbero autonomamente e illecitamente compiuto quella – solo quella? – intercettazione, a prescindere da un’autorizzazione di un magistrato. È una cosa di una gravità spaventosa.

Secondo quanto riferiscono fonti vicine ai Carabinieri quelle intercettazioni sarebbero state realizzate da apparati che si sono mossi prima dell’autorizzazione da parte del giudice. In altri termini si tratterebbe di un’intercettazione acquisita in maniera irregolare e, pertanto, mai annessa agli atti.

Ovvero, è passata una settimana in cui sull’esistenza di quell’intercettazione non solo non ci sono state risposte chiare e restano due versioni apparentemente opposte (L’Espresso e la Procura di Palermo), ma nessuno su giornali e media sembra più interessato a cercare delle risposte: leggete gli articoli e i commenti e troverete ovunque espressioni variabili di dubbio o incertezza sull’autenticità della storia dell’Espresso, ma neanche uno che – come ha fatto Fanpage – sembri interessato a capire e spiegare la verità, lavoro presunto dei giornalisti.
E in questo contesto arriva la ricostruzione di Fanpage, con una sua logica interna e non contraddetta da niente e nessuno (per esempio non dall’Espresso così intimamente tirato in ballo), e quella ricostruzione passa nelle redazioni e nel dibattito come un soffio di vento, non percepito. Nessuno la definisce falsa come meriterebbe se lo fosse, nessuno la assume come vera facendola diventare il caso che meriterebbe se lo fosse, nessuno va a verificarla e approfondirla. Nessuno ne chiede al procuratore Lo Voi. Nessuno chiede a Fanpage di confermare queste informazioni.

Nelle quali si dice che ci sono persone nei carabinieri che registrano illecitamente delle telefonate di uomini politici, e poi fanno arrivare il contenuto di quelle telefonate ai giornali, ottenendone lo screditamento e forse la fine politica. E nessuno se ne allarma, si direbbe: sono tutti impegnati a dare e fare interviste sul futuro politico di Crocetta o sui suoi struggimenti personali.

Ed è per questo che Lo Voi afferma il vero quando dice che quell’intercettazione non esiste. Perché in Procura, a Palermo, quell’intercettazione non è mai arrivata (e nemmeno a Caltanissetta). O meglio, non esiste agli atti ma qualcuno ne ha custodito copia fino al 16 luglio scorso, giorno in cui “facce che non si vedevano a Palermo dai tempi di Andreotti” sono intervenute per assicurarsi che quel nastro – ottenuto chissà come – non fosse più disponibile.

Il risultato è che noialtri che non ci informiamo solo sui giornali più famosi o dai telegiornali oggi abbiamo una risposta sola alla domanda “esiste o no quell’intercettazione?”. È la risposta data da Fanpage e immaginata qui. Che sia la risposta giusta non lo sappiamo: ma che sia sbagliata non lo ha sostenuto nessuno, finora.
E se è giusta è abbastanza terrificante.

Non ci sta facendo una bella figura nessuno

Tra i commenti che vanno letti segnalo questo post di Luca Sofri:

bugiemedia1Le possibilità sono due, direi.
Una è che la registrazione che i giornalisti dell’Espresso hanno ascoltato sia una patacca: che non c’entri con nessuna inchiesta e nessuna autorità pubblica e sia stata artefatta da qualcuno per qualche ragione. Forse anche qualcuno vicino agli ambienti investigativi, ma questo non basterebbe a rendere realistica tanta certezza da parte dell’Espresso. Qui non ci si meraviglia da un pezzo di eventuali maldestrie giornalistiche italiane, ma spacciare per vera una cosa di questa dimensione senza avere garanzie molto solide della sua veridicità sarebbe stata una follia impensabile.

L’altra possibilità che conserva come vere entrambe le versioni è che la registrazione non sia contenuta negli atti – e sia esclusa dal procuratore – per qualche robusta ragione. L’Espresso allude a quella di “tutelare il segreto di inchieste relative a cariche istituzionali”, che però in questo caso non sembra così forte da spiegare le decise e rischiose smentite della Procura. Può darsi quindi che la registrazione sia stata compiuta in qualche forma illecita o non autorizzata che impedisca agli autori di ufficializzarla? Che qualche ente investigativo abbia registrato il governatore Crocetta e il suo medico in assenza di autorizzazioni di un magistrato, salvo ottenerle successivamente magari proprio a fronte del materiale intercettato? Se così fosse, si spiegherebbe che non possa essere rivelata l’esistenza di un’intercettazione condotta autonomamente dagli intercettatori prima della sua legittimazione, ma nei fatti compiuta. E resterebbe il successivo dubbio sul fatto che la Procura ne sia a conoscenza o sia stata tenuta all’oscuro della sua stessa esistenza; nonché quello su cosa L’Espresso sappia delle origini illecite del suo “scoop” e delle intenzioni di cui si sarebbe fatto strumento.

È uno scenario abbastanza terrificante, ma purtroppo non così stupefacente alla luce di quel che conosciamo delle vicende della politica siciliana e dei suoi ricatti, di quel che conosciamo degli abusi strumentali delle intercettazioni giudiziarie, di quel che conosciamo di traffici e manovre di pezzi di organi statali.

Altre possibilità – ammettendo che nessuno stia mentendo – non ne vedo (Crocetta ne ha ipotizzata una che è stata già di nuovo smentita dalla Procura). Ma l’unico modo con cui possiamo essere informati credibilmente di una cosa così platealmente concreta e fattuale è che uno dei due enti coinvolti, L’Espresso e la Procura, forniscano degli elementi in più su quello che sanno. Al momento sono fragili e contraddette entrambe le loro due versioni, e non ci sta facendo una buona figura nessuno.

Il resto è qui.

Non vanno d’accordo antimafia e imprese

Un gran pezzo di Riccardo Orioles:

220px-Riccardo_Orioles“Fior di viola, splendente,
vivi nei canti, Atene,
tu che hai difeso l’Ellade, tu ardita,
tu città degli dei…”

Ma insomma, come faccio a distin­guere l’antimafia fasulla da quella di cui fidarsi? Facilissimo: quella povera è quella vera. L’antimafia, difatti, è gra­tis. Perciò non puoi farci soldi o carrie­ra. Puoi rischiare la pelle, questo sì, puoi farti emarginare dap­pertutto, puoi – ovviamente – restare senza lavo­ro, puoi anche fare la fame se occorre. Tutte queste belle cose puoi fare, e altre ancora. Ma soldi e carriera no.

Ci spiace, ma non l’abbiamo messa noi questa regola. A noi piacerebbe di più ricevere – in un paese civile – soldi, onori, car­riere felici e tranquille, e magari qualche buona parola.

Ci piace­rebbe anche di più poter pro­mettere tutte queste belle cose ai ra­gazzi che, un anno dopo l’altro, arrivano freschi e decisi: “Vo­glio dare una mano all’anti­mafia”. Ma, in un paese civile.

In questo, la prima cosa che insegnamo è: “Ragazzi, l’antimafia si paga”. Eppure, non restia­mo mai soli.

Al servizio dei grandi imprenditori

La mafia, in Sicilia, nasce storica­mente al servizio dei grandi imprendi­tori del comparto agricolo e successiva­mente in­dustriale. Già nel 1920, a Paler­mo, giu­stiziò per loro conto il sindacalista Fiom Giovan­ni Or­cel; negli anni ’40-’60, per conto dei lati­fondisti, venne assassina­to un centi­naio di dirigenti contadini.

“Impren­ditore”, in Sicilia, non è una gran bella pa­rola, e co­munque con l’anti­mafia ha sem­pre avuto poco a che fare. Così, de­sta poca sorpresa la “scoperta” che le pro­clamazioni di questo o quell’ esponente dell’imprenditoria “anti­mafia” andavano in realtà prese cum gra­no salis.

In realtà, la vera sorpresa è data dalla facilità con cui tutta una serie di perso­naggi del genere ha potuto essere presa sul serio dall’antimafia“perbene”, quella almeno di provenienza non popolare.

I motivi son tanti. Primo, l’approssima­zione politica di gran parte della nuo­va anti­mafia, dove la ripetizione di buoni princi­pi sostituisce spesso la lucidità delle analisi e la radicalità delle azioni. Secon­do, è molto più facile pren­dere a interlo­cutori (finché non sma­scherati) i vari Montante e Haeg che non gli Umber­to Santino, i Pino Maniaci o i Siciliani. I primi han­no denari da mettere nei vari “rinnovamen­ti”, e i se­condi no; i primi non minacciano in alcun modo l’assetto sociale “perbene”, e i se­condi sì. Ma così va il mondo; e noi per­doniamo volentieri agli amici perbene quella che non è certo ma­lafede ma solo disattenzio­ne e pigrizia.

Noi, all’antimafia dei simboli, preferia­mo quella palpabile e concreta. Che fare dei beni confiscati? Affidarli ai Montante o magari (come gl’immigrati) ai Castiglione? Questo, or­mai è pacifico, non si può fare più. Metterli all’asta, come dice il capo della com­missione “anti­mafia” siciliana, Musume­ci? Allora tanto varrebbe ridarli diretta­mente ai mafiosi.

Invece bisogna farne beni sociali, distri­buirli con equità, farne economia sana. Que­sto è ciò che so­stiene Libera da metà anni ’90, e noi da dieci anni prima. E fra il buon ele­fante e le formichine, sarà ben difficile per le be­stie feroci – gattopardi e iene – ri­mettere le zampe sulla preda.

Que­sta è la nostra antimafia. Antimafia utile a tutti, anti­mafia vera. Certo: alla tv e sui giornali non la troverete, trove­rete quella urla­ta. I vari Buttafuoco e Mer­lo (sempre amici dei Berlusconi e dei Cian­cio, e ora improvvisamente grandi antima­fiosi) hanno molta più udienza, las­sù, dei no­stri poveri Giacalone, Ester Ca­stano e Ca­pezzuto. Ma ha davvero impor­tanza? I punti si contano alla fine, diceva­no i mae­stri di tres­sette, e a Sedriano e a Trapani la borghe­sia mafiosa, grazie ai nostri croni­sti, i suoi bravi colpi li ha pur presi.

La vera antimafia è “politica”

Quest’antimafia è politica: in un sistema dove i poteri mafiosi sono tanto inseriti nell’economia, è ovvio che la vera lotta alla mafia sia condizione primissima per cambiare qualcosa. Avete già sentito ‘sta tiritera, se siete vecchi lettori dei Siciliani.

Non si può dire che abbia avuto molto successo: la destra, ovviamente, ha avuto ben altro da fare. Il centrosinistra, col suo partito-nazione, in queste settimane sta re­clutando generali e soldati di tutto il vec­chio Sistema non esattamente antimafio­so. E la sinistra “pura”, gli alternativi? Non sembra che il potere mafioso (e in Si­cilia abbiamo avuto due presidenti di fila o condannati o inquisiti) sia esattamente in cima ai suoi pensieri. Con belle e lode­voli eccezioni, certamente: ma certo non proprio al centro della strategia.

Perciò per noialtri monotoni all’improv­viso, è stata una bella sorpresa vedere che qualcun altro cominciava a percepire que­ste cose. Che lo scontro, in Italia, non è più tanto politico quanto sociale. Che è la società civile, non i partiti e partitini, a dovere portar­lo avanti.

Parliamo, come avrete capito, di Libera, di Emergency, della Fiom, della “coalizio­ne sociale” a cui, con gran diffidenza, vor­remmo affidare una speranzella, dar fidu­cia in qualcosa.

La diffidenza nasce (oltre che dalle ca­tastrofiche esperienze con altri sindacali­sti: vedi Cofferati) dal fatto che per “so­cietà civile” s’intendono ancora solo le grosse e un po’ verticistiche organizzazio­ni. La speranza, dal fatto che tutta ‘sta ba­racca nasce fra gli operai. La (moderata) fiducia dalla modestia e dai limiti fissati dai promotori. “Fare altri partiti? – dicono – Dio ce ne scansi. Vogliamo una rete so­ciale, mettere in comunicazione. Noi sia­mo la società, quella vera. Non c’interessa il Palazzo. Noi siamo semplicemente il Quarto Stato”.

E’ un bel progresso rispetto alle inge­gnerie precedenti (arcobaleni, azione civi­li, fors’anche altreurope) che si presenta­vano con bellissimi progetti chiavi-in-mano, cer­cando disperatamente di farli gestire in­sieme da tutte le vecchie sette precedenti (carbonari, giacobini, seguaci degli statuti di Spagna e narodniki) le quali, per loro natura, difficilmente pote­vano invece accordarsi su qualcosa. “Invece ri­partiamo dalle origini, dai soggetti so­ciali”. Questo, secondo noi, comincia a essere buonsenso.

Il governo reale? Marchionne

Anche dall’altra parte ragionano nudo e crudo, senza tante illusioni. Hanno fatto governi (tre, uno dopo l’altro, tecnici, più tecnici ancora e infine “riformatori”) che – a parte la fuffa mediatica – non hanno go­vernato granché. Hanno coperto, in so­stanza, l’emergere del governo reale, quel­lo direttamente “sociale” – ma della parte alta della società, dei Marchionne. E sono stati attentissimi, agendo sul corpo socia­le, a smantellare via via proprio i ceti so­ciali che potevano fargli opposizione.

Prima è toccato agli operai, privati di sindacati e statuti, sospinti (tatcheriana­mente) nelle curve sud e abilmente divisi, con opportune campagne mediatiche e le­ghiste, dai loro omologhi neri, che dopo anni d’Italia non sono che operai come tutti gli altri. Adesso stanno attaccando l’altra colonna della vecchia Repubblica, la scuola. Il preside-comandante, i prof soldati semplici ai suoi comandi, non sono solo un rigurgito degli Anni Trenta. Sono un progetto abilissimo e preciso, di­struggere ogni luogo sociale e lasciarci ciascuno solo davanti alla sua tv o al suo monitor. Se i Landini e i don Ciotti lo capiranno, potranno contare su molte forze ora sparse e divise.

Il laboratorio-Sicilia

In Sicilia, nel paese-laboratorio in pro­vincia di Messina, la sindaca “antimafio­sa” di due anni fa, la Maria Teresa Colli­ca, è stata buttata giù dalle forze congiun­te dei vecchi padroni di destra e nel “nuo­vo” Pd (escluso, a suo onore, un diri­gente che s’è ribellato). A Messina, lo stesso gioco si va preparando per Accorinti.

Nè lui né la Collica, in questi due anni, sono stati all’altezza del ruolo: simbo­lismi moltissimi, tutti belli e civili e degni di gran lode. Ma politique d’abord, mobilita­zione dei bisogni della gente, fiacca e poca. Nè i “compagni” li hanno granché educati, né sostenuti: ap­plausi ma non cri­tiche all’ini­zio, maledi­zioni ma non mano tesa alla fine – cioè adesso.

* * *

Il Sud, il Mediterraneo, il mondo pove­ro intanto vanno avanti. La Grecia (altro che calimeri) affronta la trattativa coi ge­nerali tedeschi, i Brest-Livotsk, e la sta af­frontando bene. Fra gl’islamici splende, per la prima volta nei secoli, la libertà del­le donne, delle ragazze-partigia­ne di Ko­bane, in prima linea col fucile. Fermano i nazifascisti di Isis, abbandonate dall’Occi­dente ipocrita, ma vittoriose.

 

REATO DI MIMOSA

Le “Mamme No Muos” l’otto marzo l’han­no festeggiato con un corteo a Niscemi, alla base Us Navy del Muos, recentemen­te dichiarata il­legale dal­le compe­tenti au­torità italiane. Alla fine del corteo hanno deposto delle mi­mose sul cancello d’ingresso della base. Ora sono indagate per reati vari, con l’accusa di aver tagliato un pezzetto della rete di recinzione della (illega­le) base stra­niera.

 

Promemoria

Dieci obiettivi dell’antimafia sociale

● Abolire il segreto bancario;

● Confiscare tutti i beni mafiosi o frut­to di corruzione o grande evasione fi­scale;

● Assegnarli a cooperative di giovani lavoratori; aiuti per chi le sostiene;

● Anagrafe effettiva dei beni confiscati;

● San­zionare le delocalizzazioni, l’abuso di pre­cariato e il mancato ri­spetto dello Statu­to dei Lavoratori o di accordi di lavoro.

● Separazione di capitale finanziario e in­dustriale; tetto alle partecipazioni nell’edito­ria; To­bin tax;

● Gestione pubblica dei servizi pubbli­ci es­senziali (scuola, università, difesa, ac­qua, energia, strutture tecnologiche, credi­to in­ternazionale);

● Progetto nazionale di messa in sicurez­za del territorio, come volano eco­nomico so­prattutto al Sud; divieto di altre cementifi­cazioni; divieto di industrie inquinanti; ri­strutturazione di quel­le esistenti e bonifica del territorio a spese di chi ha inquinato;

● Controllo del territorio nelle zone ad alta in­tensità mafiosa.

● Applicazione dell’articolo 41 della Costi­tuzione.

Costituzione della Repubblica Italiana

Art. 41 – “L’iniziativa economica privata è li­bera. Non può svolgersi in contrasto con l’utili­tà socia­le o in modo da recar­e dan­no alla si­curezza, alla li­bertà, alla di­gnità uma­na. La legge determi­na i pro­grammi e i con­trolli opportuni perché l’atti­vità econo­mica pubblica e priva­ta possa essere indi­rizzata e coordinata a fini so­ciali”.

(fonte)

Il circo dell’antimafia: tutti su Helg e nessuno su Santi Palazzolo

Da sinistra: Santi Palazzolo e Roberto Helg. Il Il denunciante e l'estorsore.
Da sinistra: Santi Palazzolo e Roberto Helg. Il denunciante e l’estorsore.

di Salvo Vitale – 4 marzo 2015
La denuncia di Helg e il suo conseguente arresto ha alzato il velo su quella zona grigia che sta tra chi ricopre cariche pubbliche, cioè è uno dei padroni del vapore, chi usa il suo potere per aumentare la sua ricchezza, oltre che il suo prestigio, e, in questo caso, chi usa l’antimafia come vetrina e copertura per accreditare un’immagine di legalità che invece nasconde un profilo da volgare delinquente.
Roberto Helg attualmente è presidente della Camera di Commercio di Palermo, oltre che vicepresidente della Gesap, la società che gestisce l’aeroporto Falcone-Borsellino. Si tratta di uno degli esponenti più importanti dell’imprenditoria siciliana, appartenente all’area del centro destra e molto attivo nella difesa della categoria dei commercianti. E’ rimasto al vertice della Confcommercio di Palermo da 18 anni e, di quella siciliana da 9, gestendo un noto negozi di regali in fallimento da qualche tempo: Helg ha cercato di riprovare a rilanciare l’attività associandosi con la Carrefour per l’apertura di un centro commerciale il cui progetto non è stato approvato dal Comune di Palermo. Ufficialmente ha rappresentato il viso nuovo di quella Sicilia che vuole scrollarsi dall’ipoteca mafiosa, che si è impegnato nella lotta contro il racket, aprendo uno sportello per gli imprenditori vessati da usura o dal pizzo. In tal senso si è schierato con Montante, anche lui industriale antimafia ultimamente indagato per contatti con i boss di Caltanissetta e gli ha espresso solidarietà.

Una domanda nasce spontanea: siamo davanti a forme raffinate di strategia mafiosa, che si servono di un’apparente facciata di legalità, magari con la denuncia di qualche tentativo di estorsione, o, come si vorrebbe far credere, a singoli casi, a incidenti di percorso che non mettono in discussione la linea scelta dagli industriali siciliani di dire no alle richieste estorsive? Il caso di Helg, colto con le mani nella marmellata, sembra orientare verso la prima ipotesi. Il pensiero va anche ai fratelli Catanzaro, uno dei quali è vicepresidente della Confindustria siciliana, l’altro gestisce una delle più grandi discariche della Sicilia, prima appartenente al comune di Siculiana, poi finita nelle sue mani, con l’assoluzione della magistratura. Anche se non è un teorema, in Sicilia, così come in Campania, non ci si può occupare della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti, senza fare i conti con Cosa Nostra. E allora? Allora due più due fa quattro, ma non si può dimostrare.
Ma torniamo ad Helg, che è componente di una decina di consigli di amministrazione di varie associazioni commerciali, ricopre numerose cariche direttive e pertanto che incassa già laute parcelle, ma che adesso, poverino, dice di avere agito per necessità perché ha la casa pignorata. In verità una necessità per rimediare alla quale ci vuole una mazzetta da 100 mila euro, la metà della quale dilazionata in rate mensili, suscita una spontanea voglia di prendere a calci in culo questo soggetto, di metterlo in cella e di gettare la chiave. Invece è stato trattato con tutte le premure possibili, prima perché malato e poi perché anziano. Una specie di Berlusconi nostrano che non andrà mai in carcere.
Il caso pone diverse considerazioni e interrogativi e che ci si augura possano suscitare l’attenzione delle forze dell’ordine: si tratta di un caso isolato, oppure, com’è più logico, conoscendo come funziona in Sicilia, tutti quelli che all’aeroporto hanno in concessione uno spazio commerciale pagano il pizzo? A chi? Solo ad Helg? Non sarebbe opportuno aprire un’indagine sulla Gesap e sulla intera gestione dei servizi aeroportuali, dalle assunzioni, ai lavori di pulizia e manutenzione, alle modalità di concessione degli spazi ed altro?
Tutti ieri hanno parlato di Helg, come il corrotto, il corruttore, l’estorsore. Nessuno lo ha definito mafioso, ma sarebbe opportuno discuterne: da secoli sappiamo che la mafia non è solo quella che spara.
Tuttavia oggi bisognerebbe parlare, riempire i giornali a lettere cubitali, non di un anonimo “titolare di un esercizio di ristorazione o di una pasticceria”, come si è scritto, ma di Santi Palazzolo, l’imprenditore di Cinisi che ha deciso di non pagare, si è rivolto alla polizia e si è prestato a predisporre la trappola a colui che voleva estorcergli il frutto del suo onesto lavoro. Si tratta del nipote di Don Santi, erede di un’attività che ha quasi un secolo di vita.
A Radio Aut, scherzando, lo chiamavamo don Profitterolo, per la sua abilità nel saper preparare i migliori profiterols della Sicilia. Il suo bar, sito tra la piazza e l’inizio del corso, era frequentato dalla Cinisi bene, cioè da professionisti, galantuomini e anche mafiosi che, soprattutto la domenica mattina andavano a comprare la guantiera di dolci per la famiglia o per l’ospite. Una volta Peppino Impastato si nascose in una casa di fronte per scattare di nascosto alcune foto a Tano Badalamenti e agli amici che lo circondavano. Lui, don Santi, aveva un sorriso e una gentilezza per tutti, spesso preparava una sorpresa sul bancone o dentro la vetrina, una torta esotica, un dolce originale, un gelato dal gusto strano, accanto agli immancabili cannoli. Poi tutto venne trasferito sulla strada provinciale, al limite con il semaforo che da accesso al paese. L’attività è continuata con la gestione dal nonno, al figlio, detto l’Avvocato e oggi al nipote, che porta il nome del nonno ed ha cercato di dare al locale una veste più moderna con i giornali del mattino e con attività culturali varie: è stata finanziata anche qualche pubblicazione sulla storia del paese e del bar e sono stati aperti altri punti vendita, uno dei quali quello dell’aeroporto di Punta Raisi e uno negli Stati Uniti.
Che tutto questo sia avvenuto a Cinisi, nel paese di Don Tano Badalamenti, ma anche di Peppino Impastato, significa che il muro una volta indistruttibile della cultura mafiosa comincia a manifestare qualche crepa e che comincia a diffondersi la cultura secondo cui ognuno ha il diritto di godere in pieno dei frutti del proprio lavoro, senza che i parassiti possano profittarne.
Il negozio dell’aeroporto rappresenta l’ultimo momento, per chi parte e vuole portare un sapore della Sicilia, una cassata, un cannolo, un frutto di “martorana”, un dolce tipico. Adesso, dopo la denuncia dell’estorsione fatta da Roberto Helg, per il rinnovo del contratto per l’area del negozio, quel dolce assume un sapore più significativo, il sapore della legalità.

(fonte)

Il Circo antimafia: il pirandelliano Roberto Helg

Un altro uomo istituzionale dell’antimafia che conta (quella che considera i giovani “ragazzini” e crede di possedere il “verbo” oltre che l’unica modalità di analisi possibile) finisce sotto accusa:

roberto-helg-675Interventi pubblici al premio Libero Grassi, polemiche sui modi per combattere il “pizzo” imposto da Cosa Nostra ai commercianti, eventi per discutere del rating di legalità di Confindustria Sicilia. Fino a poche ore fa erano queste le attività in cui spiccava spesso la presenza di Roberto Helg, presidente della Camera di Commercio di Palermo, arrestato ieri pomeriggio dai carabinieri del nucleo investigativo di Palermo.

Per l’imprenditore l’accusa è di estorsione: i militari hanno registrato le fasi di una richiesta di denaro nei confronti di un commerciante che voleva rinnovare il suo accordo con laGesap, l’ente che gestisce l’aeroporto di Palermo, e del quale Helg è vicepresidente. Una mazzetta da centomila euro, la metà in contanti, il resto in assegni, trovata sul tavolo dell’ufficio di Helg: un’accusa infamante per il presidente della Confcommercio palermitana. A leggere la ricostruzione degli inquirenti “la richiesta e la consegna di denaro ha fatto registrare il tipico metodo estorsivo”.

Prima Helg ha prospettato al commerciante le difficoltà dell’operazione di rinnovo dell’accordo con Gesap a meno che non avesse “oleato” i meccanismi, sganciando una somma di denaro. Più o meno come fanno i picciotti di Cosa Nostra, mandati a taglieggiarecommercianti e ad imporre il “pizzo” alle attività cittadine, in cambio dell’assicurazione all’incolumità: un fenomeno che Helg si era candidato a combattere già dai primi anni al vertice della Confcommercio palermitana. “Libero Grassi accusò Confindustria, di cui era associato, di indifferenza, perché fu lasciato solo: oggi le associazioni sono profondamente cambiate e c’è un sistema che ha fatto squadra e che funziona. Tutto ciò mi fa sperare che le prossime generazioni possano vedere una Sicilia diversa” diceva consegnando il premio intitolato all’imprenditore anti racket assassinato da Cosa Nostra.

La parola “legalità” è una di quelle citata a più riprese dal presidente di Confcommercio Palermo, che aveva sposato la battaglia lanciata dai leader di Confindustria Siciliana, fautori della riscossa degli imprenditori siciliani contro Cosa Nostra. “Diamo una possibilità di poter agire in velocità nel trovare le aziende sane, o quelle malate. Si tratta di un ulteriore e importante tassello nell’opera di contrasto all’illegalità, e nella difesa delle aziende sane della Sicilia” commentava Helg, siglando con l’Irsap un protocollo di legalità contro le infiltrazioni mafiose nelle aree industriali.

Nominato commendatore da Giorgio Napolitano, eterno presidente della Confcommercio palermitana (è in carica dal 2006), Helg si era insomma ritagliato un ruolo da paladino della legalità, in prima linea nella lotta a Cosa Nostra, e sempre pronto a sottolineare i risultati raggiunti. L’ultima volta era stato nel dicembre scorso, quando aveva bacchettato Giuseppe Todaro, responsabile legalità di Confindustria Palermo, che aveva lanciato l’allarme: “Nel centro del capoluogo ancora nove negozi su dieci pagano il pizzo”. “I risultati ottenuti a Palermo dimostrano che la mia posizione è vincente e mi vedo costretto a chiedere all’amico Giuseppe Todaro di smentire le sue parole. Da anni sostengo che la lotta al racketvada fatta tutti insieme e non una associazione contro un’altra: questa è una strategia di basso profilo e che non porta buoni frutti” era stata la piccata risposta di Helg, in una serie di repliche e contro repliche che avevano fatto scoppiare la polemica nei ranghi dell’antimafia.

La stessa antimafia che poche settimane fa ha visto finire sotto indagine per concorso esterno a Cosa Nostra uno dei suoi paladini, il presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante, leader della rivolta anti racket degli imprenditori dell’isola. Una rivolta alla quale si era accodato anche Helg. E se per il presidente degli Industriali il quadro accusatorio è affidato solo alle parole di alcuni pentiti, ad incastrare Helg ci sono le registrazioni della richiesta di denaro, più alcune parziali ammissioni fatte ai magistrati nel primo interrogatorio. Il quadro della cosiddetta antimafia degli imprenditori, insomma, oggi riceve un altro durissimo colpo: a ben vedere Helg è accusato dello stesso reato che ha provato a combattere, almeno a parole. Sembra il più pirandelliano dei paradossi, e invece è solo cronaca.

Otto colpi

mattarella-copyright-letizia-battaglia

In questa foto c’è il destino di un uomo. C’è la storia di una famiglia che è l’attraversamento della Sicilia, c’è il confine fra la vita e la morte. Era ancora vivo, respirava ancora il Presidente della Regione Piersanti Mattarella quando suo fratello Sergio lo stava tirando fuori dalla berlina scura dove era rimasto schiacciato qualche istante prima da otto pallottole. Era ancora vivo quando lui cercava di prenderlo per le spalle e gli sorreggeva il capo mentre la moglie Irma gli spingeva le gambe, spingeva e spingeva senza sentire più il dolore per quelle dita spezzate da uno dei proiettili.

Questa è una foto che racconta molto dei Mattarella, padri, figli, fratelli, c’è dentro la Palermo degli Anni Ottanta, c’è dentro la paura, il prima e il dopo, c’è soprattutto l’attimo in cui cambia per sempre l’esistenza di un tranquillo professore universitario che ha fra le braccia il fratello morente e raccoglie l’eredità di una stirpe politica che con orme assai diverse ha profondamente segnato la vicenda siciliana fin dal dopoguerra. Proprio in qualche secondo è cambiato tutto per il professore Sergio Mattarella, fra le 12,30 e le 13 del giorno dell’Epifania del 1980. Strade quasi deserte dalla Statua fino al teatro Politeama, sole, chiese, campane e spari. Spari nella città dove si faceva politica con la pistola.

Ero lì, quella mattina del 6 gennaio. C’era qualcosa di informe fra quell’auto e l’asfalto, sembrava un manichino ma io – per non volere vedere un altro corpo massacrato di Palermo (capita ai giovani cronisti di «nera») – non distoglievo lo sguardo dalle dita di quella donna, la moglie Irma Chiazzese, l’indice e il pollice della mano sinistra frantumati, i tendini lacerati. Il fratello Sergio aveva la faccia più bianca dei suoi capelli, la figlia Maria si disperava sul sedile posteriore della Fiat 132 coprendosi il volto, il figlio Bernardo era immobile vicino al cancello.
Ero arrivato in via Libertà – la strada delle splendide ville liberty di Palermo che non c’erano più, fatte saltare in aria di notte con la dinamite per costruire palazzi di mafia – qualche minuto dopo Letizia Battaglia, la fotografa di questo scatto. «Chi è, Letizia? Dimmi chi è? Sai il nome?», le ho chiesto sicuro di una risposta. «Non lo so ancora, sono passata di qui e pensavo a un incidente stradale, poi ho visto qualcuno dentro la macchina e mi sono messa a correre e a tremare ». Letizia puntava l’obiettivo della sua camera dentro l’auto, Franco Zecchin – il suo compagno e fotografo anche lui – riprendeva gli uomini e le donne che si stavano radunando in silenzio davanti al marciapiedi di via Libertà numero 147, la casa dove abitava Piersanti Mattarella, allievo di Aldo Moro che stava portando la sua «rivoluzione» in un’isola che non voleva cambiare.

Stavano andando tutti a messa, come in ogni giorno di festa. Tutta la famiglia Mattarella. Soli, la scorta l’avevano lasciata libera. Poi quel «giovane in jeans e giubbotto che saltellava» e che era appena sceso da un’utilitaria bianca, aveva sparato quattro colpi, se n’era andato, era tornato indietro per spararne altri quattro. E poi quella scena, il fratello Sergio che provava a sollevarlo e tratteneva il suo corpo come per trattenere – in quel momento senza saperlo, senza neanche immaginare cosa sarebbe stata la sua vita dal giorno dopo e negli anni a venire – il suo lascito e il suo pensiero. L’eredità. Quella di Piersanti, gravosa e pericolosa. Quella del padre Bernardo ingombrante, molto scomoda. Avveniva tutto inspiegabilmente in mezzo al sangue e in mezzo al terrore, la cognata ferita, i nipoti sconvolti, tutto fra le 12,30 e le 13 di un giorno di Epifania in via Libertà a Palermo. Piersanti il fratello Presidente che voleva nuove regole e pulizia e il padre Bernardo con quelle ombre che scaraventavano in un passato cupo. Il fratello che sognava una Sicilia più libera e le voci sul padre che portavano indietro, a Castellammare del Golfo, patria dei «castellammaresi » che dal 1925 erano diventati re anche a New York, una moglie che si chiamava Maria Buccellato (famiglia di aristocrazia mafiosa), i sospetti sui suoi legami con i potentissimi Rimi di Alcamo, le accuse (mai provate) di Gaspare Pisciotta al processo di Viterbo negli Anni Cinquanta, i dossier del sociologo triestino Danilo Dolci (condannato per diffamazione e amnistiato) sulle sue complicità nel Trapanese, le molte pagine dedicate dalla prima commissione parlamentare antimafia fino alle confessioni più recenti dell’ultimo pentito di Cosa Nostra Francesco Di Carlo.

Ma quel 6 gennaio del 1980 – in verità almeno da un paio di anni prima, quando Piersanti era stato eletto Presidente e subito aveva cominciato a manifestare il suo desiderio di ribaltare una Regione impastata di mafia – e quell’immagine del fratello in fin di vita sono diventate lo spartiacque fra Castellammare del Golfo e Palermo, il passaggio da una generazione all’altra, il cambio di passo. Non era forse proprio quella la ragione – il cambio di passo, la svolta – che aveva fatto ritrovare quella mattina il professore universitario piegato a sostenere il corpo martoriato del fratello? Non era stata forse la decisione e la forza di Piersanti a mettere paura a gente come Vito Ciancimino e a tutti quegli assassini che circolavano per la Sicilia e chissà dove altro ancora? Non lo sapeva ancora il tranquillo professore universitario che quelle otto pallottole rappresentavano non solo, come si diceva allora in Sicilia, un omicidio di tipo «preventivo», quelli che vengono ordinati per eliminare un pericolo imminente. Era anche «dimostrativo », di quegli altri omicidi che servono come monito, che portano sempre una minaccia che raggiunge tutti, omicidi che producono paura. La paura che c’è in questa foto. Prima di andarmene da via Libertà, quel giorno mi sono guardato intorno. A duecento metri avevano ucciso qualche mese prima il capo della squadra mobile Boris Giuliano, a trecento metri il consigliere istruttore Cesare Terranova, a cinquecento metri il segretario provinciale della Democrazia Cristiana Michele Reina. E, a meno di un chilometro, il nostro bravissimo collega Mario Francese.

(Attilio Bolzoni, link)