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Sicurezza

Visite nelle carceri lombarde: Opera

Durante la campagna elettorale ho affermato più volte che avrei guardato con attenzione a tutte le situazioni di difficoltà e, tra queste, ovviamente rientra anche quella carceraria.

È per questo motivo che ho deciso di condurre visite ispettive in ogni carcere lombardo.

Devo ammettere che spesso non è semplice essere obiettivi e lucidi nell’analisi delle case di reclusione, soprattutto per persone che, come me, si ritrovano a intravedere, al di là delle sbarre, associati delle famiglie mafiose che vogliono eliminarle.

Il carcere di Opera è per la sua stessa struttura un ambiente asettico e anonimo. All’interno i colori si spengono quando lo sguardo incrocia le sbarre.

Ho percorso i corridoi, ho visto le celle, i passeggi dove i detenuti usufruiscono delle ore di aria, le mense, i laboratori e gli ambulatori. Ho visto facce, uomini dietro le sbarre e uomini con la divisa che vivono con estrema difficoltà la lontananza da casa, il lavoro recluso e una paga irrisoria.

Mentre osservavo tutto questo mi sono chiesto dove potessero posizionarsi gli slogan sulla sicurezza di questo governo, in quale recondito luogo della dignità dovesse inserirsi la vittoria di una struttura penitenziaria che riesce a far coabitare in una cella (di grandezza circa 3×2,5) “solo due detenuti”. Mi sono chiesto quale concetto di sicurezza abbiano coloro che ritengono necessaria l’apertura di nuove carceri come unica soluzione al sovraffollamento delle stesse.

Il problema sicurezza è strettamente legato alla situazione carceraria, che senza un reale apporto per il reinserimento dell’individuo è assolutamente inutile oltre che incostituzionale (art.27 Cost.). Il lavoro all’interno del carcere di Opera è ben strutturato, ma non è sufficiente. Sono necessari più laboratori, psicologi, educatori e agenti.

Eppure il governo della sicurezza non ha aumentato i fondi per le strutture ed il personale penitenziario. Ad Opera, inoltre, la struttura sanitaria interna a breve non sarà più in funzione per un passaggio di competenza alla Regione, che sicuramente dilungherà i tempi delle visite ed aumenterà i costi.

Non si può ritenere che le spese per i detenuti e per le case di reclusione siano inutili. Un uomo in carcere deve poter mantenere sempre la sua dignità e deve poter accedere a tutti gli strumenti che gli possano servire per il reinserimento nella società. Una politica che non si interessa di queste problematiche è una politica criminale, punitiva e medioevale, che non merita rispetto in un paese costituzionalmente orientato.

C’è un particolare che mi ha colpito molto in questa visita. Ad Opera sono reclusi colpevoli di ogni tipo di reato contro la persona e contro il patrimonio. Eppure una domanda mi è balzata alla mente: ma tutti i “colletti bianchi” che si situano in quella zona grigia della criminalità organizzata dove sono? Come mai c’è una categoria di colpevoli che riesce sempre a sfuggire alle maglie della reclusione? Forse tutte le riforme legislative di questi ultimi anni hanno avuto lo scopo di punire spacciatori, immigrati e ladruncoli e hanno perso di vista corruttori e frodatori? Sono convinto che non possa essere così perché, altrimenti, saremmo al cospetto di un governo schizofrenico.

Talvolta sento urlare allo scandalo per le condizioni in cui vivono i reclusi sotto regime di 41 bis. Oggi li ho visti nelle loro celle. Non mi sembra che possano essere considerati detenuti uguali agli altri e non ritengo che vivano in una situazione disagiata e terribile. Spero solo che tutto questo vocio non porti alla distruzione di questo regime speciale, che è stato ampliato dopo la strage di Capaci. Sebbene nessuno possa essere privato della dignità personale, ritengo doveroso che lo Stato utilizzi un trattamento carcerario differente per chi volutamente ha calpestato non solo la dignità di molte persone, ma ha vissuto in una società parallela guidata da regole proprie, che non ha mai riconosciuto le istituzioni se non quando le ha usate per patti, affari e compromessi.

Vi terrò aggiornati sulle prossime visite sperando di potervi illustrare situazioni sempre adeguate al rispetto dei diritti umani.

Il rispetto finito in carcere: diario di un giorno a San Vittore

Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni. (Fëdor Michajlovič Dostoevskij)

Martedì 11 maggio insieme ai miei compagni del Gruppo Consiliare Gabriele Sola, Francesco Patitucci e Stefano Zamponi sono stato in “visita” al carcere di San Vittore di Milano. Me lo ero ripromesso in modo ancora più forte dopo il recente suicidio di un detenuto a Como. Rientra nei diritti (o meglio doveri) di un consigliere regionale potere (o meglio dovere) entrare in qualsiasi carcere della regione per compiere un’ispezione sulle condizioni ambientali di lavoratori e ospiti. Un doveroso privilegio da praticare con regolarità e senza spese a piè di lista.

Entrare in un carcere con in tasca il diritto della visita breve è un distacco che non basta per non lasciarci dentro un pezzo di testa che ti rimbalza per i giorni successivi. A San Vittore ci sono circa 1400 detenuti: il doppio di quelli che ci dovrebbero stare, ma si sa gli uomini come tutti i branchi sono capaci di stringersi se è l’unico modo di starci. Celle tre metri per tre: un fazzoletto di pavimento che all’ikea si arreda con un mazzetto di 10 euro. Dentro i tre metri per tre qui a San Vittore ci vivono in sei. Con i letti aggrappati che arrivano ad un soffio dal soffitto. Ci accolgono con sommersa gratitudine e la buona educazione del nodo in gola. Gli agenti della Polizia Penitenziaria hanno le chiavi che ti aspetti per aprire castelli e parlano dei colleghi e dei detenuti. Ogni tanto gli scappa un “noi”. Come un recinto di guardie e ladri che si mettono insieme almeno per salvarsi. Se i detenuti sono doppi di quello che dovrebbe, le guardie circa la metà. A San Vittore i numeri non tornano mai: eppure la vivibilità è fatta di numeri, spazi e fondi. Qui lo sanno bene che il bluff non funziona.

In una cella con un ventilatore tenuto insieme dal nastro da pacchi, un ospite con il piglio esperto del residente si stacca dal fornello a tre passi dalla turca e dice indicando l’agente “se fate stare bene loro, loro possono fare stare bene noi”. L’emergenza sa costruire solo estremi: alleanze impensabili o odi profondi. Mi arrivano in testa Stefano Cucchi e a tutti gli altri che non si sono nemmeno meritati di essere stati nominati. Penso all’agente di Polizia Penitenziaria aggredito pochi giorni fa nel carcere di Opera. Questa è una guerra senza vincitori né vinti dove perde solo la responsabilità.

Nei prossimi giorni insieme ad alcune associazioni stilerò un programma per visitare tutte le carceri della regione. Stabilendo insieme le priorità per una relazione più completa possibile.

Intanto stanno finendo i nuovi servizi igienici: il lavoro ce lo mettono i detenuti lavoratori, i materiali, le porte, i sanitari e gli arredi l’Italia dei Valori. E’ poco ma è qualcosa. Almeno per provare a tenere anche il rispetto sotto osservazione.

Ronde lombarde per la pubblica responsabilità

  • Milano è una carcassa egocentrica che sfila da metropoli. Mentre s’incipria il quadrilatero delle vetrine e della piazza ha lasciato da anni i quartieri periferici a cuocere a fuoco lento. Il problema delle occupazioni abusive degli alloggi popolari (dietro cui molto spesso esiste un vero e proprio racket organizzato) è una consuetudine storica e quasi sclerotizzata. Una città che marcisce tanto più si allontana dalla piazza è il simbolo di un’integrazione realizzata dal reddito piuttosto che dalle opportunità. Associazioni come SOS RACKET E USURA di Frediano Manzi raccontano di centinaia di segnalazione (firmate ) che arrivano dalle periferie e dipingono scenari di criminalità e solitudine dove la prepotenza, l’intimidazione e la ghettizzazione sono le vere e uniche armi del “controllo”. Esistono sacche di inciviltà dove il sistema “stato” è vinto rispetto all’alternativa criminale più o meno organizzata che garantisce velocità, efficienza e organizzazione a basso costo convertendo i diritti in privilegi da restituire un poco al mese. Vicende come quella delle famiglie Pesco, Priolo e Cardinale in via Padre Luigi Monti 23 disegnano periferie che non devono essere compromessi accettabili.

Da domani i volontari dell’associazione SOS RACKET e USURA distribuiranno dei questionari nelle zone più difficili di Milano, in una tourné curiosa e attiva che vuole provare ad infilare il dito tra le croste dei quartieri, da Giambellino a viale Sarca, da via Ciriè a piazzetta Capuana: un tentativo di “misurare” l’influenza della città. Un caravanserraglio di portatori sani di domande in una Lombardia che ha sempre temuto le risposte. In una Milano che, come le donne che non accettano di invecchiare, ha risolto coprendo tutti gli specchi.

L’iniziativa di Frediano e i suoi volontari è una discesa in campo di cittadinanza attiva, comunque la si possa pensare. Domani sarò con lui in piazzetta Capuna per distribuire i questionari sullo stato dell’arte dell’usura e del racket nella zona, partendo dal bar Quinto alle portinerie della zona, ma la sua battaglia è una battaglia di tutti. Ancora di più per i professionisti delle “ronde” e della sicurezza in gran cassa.

Quei quartieri non sono vigne pre elettorali ma vivono, cucinano, stendono, sorridono, chiudono e scendono con i ritmi della quotidianità. Senza nessun divisionismo partitico, senza “federalismi” e  rozze recriminazioni territoriali, sarebbe il caso di scendere tutti a rinfoltire il battaglione delle domande.

Ronde lombarde per la pubblica responsabilità come antidoto alla malattia della “sicurezza” permeabile e indifferente padana.

Questionario sull’usura (formato DOC)
Questionario sulla sicurezza (formato DOC)
Modulo di adesione (formato DOC)
Il programma (formato DOC)

Via Padova e il Risiko di propaganda

Me la immagino con la faccia attonita mentre pronuncia la frase con gli occhi dolci della propaganda: “ci rivediamo entro il 31 marzo”. Era il 23 febbraio e il sindaco di Milano Letizia Moratti aveva convocato un “tavolo” con circa venti associazioni pochi giorni dopo l’omicidio del giovane egiziano in via Padova a Milano.

Il cardinale Dionigi Tetammanzi al Teatro dal Verme pochi giorni fa è stato chiaro: “Il problema migratorio è complesso ma perché la sicurezza viene accostata sempre solo alla legalità? Non c’è una sicurezza che può essere legata anche all’accoglienza? E l’accoglienza è da intendersi in senso “passivo”, come un semplice aprire i confini o i paesi o le braccia, o anche in “attivo” come impegno per l’integrazione?”

E a Tettamanzi non sarà sfuggito che la “sicurezza” passiva è un concetto che sopravvive sulla paura: l’ingrediente principe della campagna leghista che miete voti sull’amplificazione degli allarmi. Sarà per questo che oggi via Padova è uno spettacolino ambulante della paura: il quartiere è diventato un accampamento militare all’aria aperta come piace al gendarme De Corato. I cittadini? per niente contenti: “siamo in stato d’assedio” dicono, mentre agli spacciatori basta spostarsi di un angolo. Poco male.

La Moratti dichiara “La nostra politica coniuga legalità e solidarietà. Per questo in città non ci sono ghetti e sommosse contro lo Stato“. Le risponde Asfa Mahmoud, presidente della Casa della Cultura islamica di via Padova 144 che nonostante la cacofonia del cognome è tutt’altro che un pericoloso attentatore come dovrebbe insegnare il recente Ambrogino d’oro ricevuto per la sua collaborazione con le istituzioni:  “Il nostro quartiere sembra diventato una caserma. Avevamo molta fiducia, quando il sindaco ci ha convocato a Palazzo Marino. Ma poi non è stato più nulla. Nessuno si è più fatto vivo e di tante belle parole non c’è rimasto che un pugno di mosche“.

Eppure, il gioco del Risiko politico per spostare soldatini a truccare i quartieri con l’ombretto della sicurezza sembra fare presa nella pancia molle di una bella fetta di elettorato. Eppure dal 2007 le statistiche ci dicono che il numero di reati in discesa: non sono più i fatti a determinare le opinioni, le opinioni si sono separate dai fatti. In un gioco dove la domanda e l’offerta sono monopolio della stessa parte.

Per finire come prevedeva Germaine Greer che probabilmente l’unico posto in cui un uomo può davvero sentirsi al sicuro è un carcere di massima sicurezza, non fosse per l’incombente minaccia di venire liberato.

Media italiani censurano intervento Alto Commissario Onu per i Diritti Umani

Riporto e condivido il comunicato del Gruppo EveryOne sulle politiche intolleranti di questo Governo denunciate dalla comunità internazionale e prevedibilmente oscurate.

La visita dell’Alto Commissario in Italia aveva in realtà un significato di primissimo piano per la società italiana, il suo sviluppo civile e la sua presenza nella realtà internazionale. Navi Pillay, infatti, ha incontrato a Roma il Ministro della Giustizia Angelino Alfano, il Ministro degli Interni Roberto Maroni, il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri Gianni Letta, il Ministro degli Affari Esteri Franco Frattini e il Presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini. Ha tenuto discorsi al Senato e alla Pontificia Università Lateranense. Ha visitato due campi nomadi e il Cie di Ponte Galeria. Ha, infine, incontrato i rappresentanti di oltre 40 ong.

Roma, 12 marzo 2010. L’Europa e il mondo si chiedono (basta leggere i giornali esteri per rendersene conto) come sia possibile che in Italia proseguano da anni – in totale spregio degli accordi internazionali sui Diritti Umani – le politiche intolleranti contro i migranti, i Rom e le minoranze sgradite alle Istituzioni e alle autorità. La risposta è facile. Politici e media, senza distinzione fra le loro “correnti” di appartenenza, conducono da molto tempo una propaganda xenofoba, connotata da discriminazioni forti riguardo alla provenienza, al colore della pelle, alle tradizioni culturali e religiose dei gruppi sociali colpiti. Le ideologie dei partiti anti-stranieri non hanno, in Italia, un contraddittorio, perché i mezzi di comunicazione e informazione sono strumenti politici, mentre gli attivisti e i promotori di una cultura di pace sociale e uguaglianza sono imbavagliati e perseguitati. Le leggi chiaramente discriminatorie, come la Bossi-Fini, il pacchetto sicurezza, le centinaia di provvedimenti comunali, hanno contaminato anche la cultura giuridica e l’operato dei magistrati, come dimostrano le innumerevoli condanne di Rom e migranti senza prove o per reati coniati a loro misura (occupazione di suolo pubblico, oltraggio, resistenza, accattonaggio molesto ecc.) e le sentenze-choc, come quella di ieri della Cassazione che ha giudicato lecito deportare un padre di famiglia clandestino, anche se i suoi bambini vanno a scuola in Italia. Questa cultura deviante che criminalizza lo straniero facilità anche la sottrazione di minori non italiani da parte dei servizi sociali e le adozioni di bambini – che sono amati dai loro genitori, ma sono considerati “adottabili” a causa del loro status di “irregolari” o “senzatetto” – da parte di famiglie italiane. Come scritto sopra, i media hanno un ruolo fondamentale e sono sostanzialmente uniti nella guerra allo straniero. Ne è un’ulteriore dimostrazione la censura attuata nei confronti dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite, signora Navi Pillay, il cui invito a sospendere le politiche persecutorie nei confronti di Rom e migranti durante importanti incontri istituzionali è stato completamente ignorato o relegato in spazi piccoli e marginali sia sui quotidiani che nei radiogiornali e telegiornali.

Nelle foto: le copertine odierne del Giornale, del Messaggero, della Repubblica e del Corriere della Sera. Il giorno successivo alla visita della signora Pillay, nessun riferimento ai suoi incontri e discorsi alle Istituzioni italiane