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speranza

Il volto del potere

Chi invece non conta proprio niente sono gli habitué. Le marionette abbarbicate alle poltroncine, che si agitano per strappare un primo piano alla telecamera, bofonchiando il mantra «io non ti ho interrotto tu non mi interrompere». Il popolo senza speranza li disprezza e li vota. Il potere senza volto li disprezza e li usa. Massimo Gramellini su La Stampa.

Incattiviti e disperati

C’è una forza fenomenale, e una grande dimostrazione di sicurezza, nella nonviolenza. Pisapia ha costruito il proprio successo sulla calma e sul sorriso. Uno stile di vita e di lotta politica che ha fatto presa su molti elettori moderati e di centrodestra. Spero che nessuno vorrà incrinare questo modello proprio alla vigilia del voto decisivo, accettando un terreno di scontro che è l’ultima speranza del centrodestra incattivito, disperato e bugiardo. Tutto il resto di Fabrizio Ravelli qui.

Milano: lasciare le primarie alle primarie

C’è un (bel) dibattito a Milano negli ultimi giorni sui modi e sul profilo delle primarie che indicheranno a novembre uno dei candidati contro la Moratti per le prossime amministrative nel 2011. Un dibattito che si apre a opinioni e visioni talvolta fortemente contrastanti e a tre personalità (Giuliano Pisapia, Valerio Onida e Stefano Boeri) che sicuramente hanno da dire e raccontare storie e futuri per questa città. Ho sempre creduto che le primarie (come ogni consultazione diretta con i cittadini) siano un passaggio necessario per costruire credibilità: primarie che siano una partecipazione senza mediazioni, senza recinti e senza argini accomodanti. Primarie che siano l’occasione per i cittadini di spiazzare i partiti e non che siano il modo per i partiti di piazzare cittadini. Primarie che siano una libera circolazione di opinioni e sostegni dove i cittadini (politici, intellettuali, impiegati, ragazzi e genitori) decidono di sostenere questo o quel candidato per un’affinità libera da disegni di partito. Lasciare le primarie alle primarie quindi per non trasformare tutto in un gioco messo in ballo in attesa di conferme. Per questo ho più volte espresso i miei dubbi sulla “discesa in campo” istituzionale di alcuni partiti (nostra opinione personale e, bontà nostra, ora nostra linea politica essendo noi chiamati a farla, la politica) che hanno certificato più o meno questo o quel candidato addirittura all’alba della candidatura. E’ un’opinione, condivisibile o non condivisibile, ma è la nostra opinione che ci portiamo in tasca con fierezza. Mi sono ritrovato nelle parole di Valerio Onida, nei dubbi di Nando Dalla Chiesa e perfino nell’analisi di Davide Corritorela sensazione, qui fuori, è che  tutti parlino di entusiasmo e vivacità ma alla fine la maestrina ci voglia tutti seduti in silenzio e ben composti ai banchi.

Per questo l’IDV a Milano non “molla le primarie” né “si chiama fuori” ma, più semplicemente, lascerà ai cittadini l’onere e l’onore di essere il motore di questo percorso (e quindi lascerà ai propri iscritti il diritto ed il dovere di votare ognuno con la propria convinzione ) continuando a fare il “partito” sui temi, sui punti irrinunciabili e le proposte. Perché la cottura di un programma e della “famiglia” oggi è una speranza, un disegno e non deve essere strategia. Ed è grossolano e svilente pensare che uscito il candidato ci si sieda per cercarsi di aggiustare: quanto potremmo piacerci (noi al candidato e il candidato a noi) si annuserà cammin facendo e ascoltando quanto parleremo la stessa lingua. Tutto il resto sono stanzette dove quattro dirigenti di partito aggiustano il tiro. E questo proprio non ci interessa.

Messina, il fango e l’obbligo di non dimenticare Arte, teatro e poesia si incontrano al “Nebiolo”

Una cordata di artisti perché dal fango di Messina possa nascere un museo come centro propulsivo del tessuto economico e culturale di tutta la riviera jonica. Primo atto, venerdì sera al teatro Nebiolo di Tavazzano, per il “Museo del Fango”, un segno di speranza per ricominciare, tra le case inagibili e le strade che portano ancora i segni del disastro del primo ottobre scorso. Nella frana che travolse i centri abitati di Scaletta Zanclea e di diverse località del comune di Messina, tra Giampilieri Superiore e Marina, Altolia, Molino, Santo Stefano di Briga, Briga Superiore e Pezzolo, persero la vita 31 persone. A tre mesi dalla sciagura, il silenzio, mentre gli abitanti iniziano a tornare nelle loro abitazioni nonostante gli scarsi interventi per la messa in sicurezza dell’area.A testimoniare la protesta del mondo dell’arte per il «silenzio immediato» su quella tragedia, il pittore Michele Cannaò, il poeta Guido Oldani (entrambi nel direttivo del Museo della Permanente di Milano), la giornalista Angela Manganaro e l’attore Giulio Cavalli. Assente invece Marco Dentici, noto scenografo del cinema e della tv, impegnato nella preparazione di un lungometraggio sulla tragedia di Messina dal titolo I° Ottobre – una giornata caldissima, di cui sono stati proiettati in apertura i bozzetti video. «Ci siamo ritrovati per la prima volta il 5 ottobre, a pochi giorni dalla tragedia – ha raccontato Cannaò – non solo per riflettere su quanto accaduto, ma anche per capire come poter intervenire nell’immediato. Abbiamo capito da subito che le raccolte di fondi non sarebbero bastate. Serviva un’iniziativa che diventasse un vero e proprio punto di partenza per la rinascita». Da qui l’idea di raccogliere opere di pittori, fotografi, musicisti e scrittori in un unico centro culturale che inizierà le esposizioni il prossimo 30 gennaio. Una mostra a cui hanno aderito circa 70 artisti (tra loro, anche il premio Nobel Dario Fo), organizzata nel Palazzo dei Duchi di Santo Stefano a Taormina fino al 13 febbraio. Una sede provvisoria, in attesa della ristrutturazione di un monastero del Seicento a Giampielieri. Un’iniziativa circolare, «che parte da un piccolo paese come Tavazzano per arrivare in un altro piccolo paese come Giampilieri – ha detto la giornalista Angela Manganaro, che ha anche spiegato come il silenzio sia quantomeno sospetto in un’area interessata dal progetto del ponte sullo Stretto di Messina – : è un’area non coltivata da anni, una terra che, abbandonata a se stessa, non regge. Come molte altre terre della Sicilia. Su cosa lo costruiamo questo ponte? Su una terra che non regge?». Di grande pathos, l’excursus linguistico di Oldani sul tema del fango, poiché «in un mondo che soffre di una scellerata tradizione di gioire delle disgrazie e in cui tutti fanno beneficienza, ma solo dall’altra parte del globo, fare un “fango museale” è trovare un elemento primigenio della nostra filosofia». Oldani, prima di leggere due poesie composte per l’occasione, ha poi aggiunto, non senza ironia, qualche parola sull’incontro con il direttore del Nebiolo Cavalli: «Sapevamo che a Giulio era capitata qualche disavventura e noi siamo arrivati come cavalieri senza macchia e senza paura». Ros. Mun.

DA IL CITTADINO L’ARTICOLO QUI

 

Giulio Cavalli: pensieri tra anno che muore e anno che nasce

Un regista e attore sotto scorta perché le risate non piacciono ai boss. In Italia è successo anche questo.
Giulio Cavalli: pensieri tra anno che muore e anno che nasce
A sentire la sua voce dimostra più anni dei 32 che ha compiuto a giugno. Sì, ha solo 32 anni ed è un altro concittadino italiano sotto scorta perché minacciato dalla mafia. Non è meridionale ma vive in Lombardia. Non è un giornalista (nel senso classico del termine) o un magistrato; Giulio Cavalli è un regista teatrale, uno scrittore e un attore.

Quando risponde alle domande dimostra una grande umiltà e quasi inconsapevolezza di ciò che rappresenta agli occhi di molti giovani di oggi. Quando gli si ricorda che è stato ribattezzato il Saviano del nord non si capisce se sia più divertito o arrabbiato. Credo arrabbiato.

Ha messo in scena coi suoi spettacoli pezzi della nostra storia recente e più scomoda, come l’assurda morte di Carlo Giuliani al G8 di Genova, in (Re) Carlo (non) torna dalla battaglia di Poitiers, o l’incidente di Linate in Linate 8 ottobre 2001: la strage, un monologo sul disastro aereo in cui persero la vita 118 persone.

E in Bambini a dondolo mostra al pubblico quel dramma sociale che attraversa le frontiere che è il turismo sessuale infantile. Ma è con il suo spettacolo Do ut Des – Riti e conviti mafiosi, che il suo lavoro va a toccare quei fili da cui in Italia è sempre bene tenersi lontani se vuoi vivere tranquillo. Attraverso la storia di Totò Nessuno, si viaggia appunto tra riti e cerimoniali mafiosi, che vengono dissacrati e resi ridicoli agli occhi dello spettatore divertito e amareggiato.

Penso che le parole più adatte per parlare di Do ut Des siano proprio le sue: “Tutte le mafie del mondo vivono, proliferano e crescono sulla base del proprio onore che cresce sulla paura. Quell’onore si incancrenisce e diventa credibilità fino a sommergersi e travestirsi di cultura. Ridere di mafia significa ribellarsi ad un racket culturale”.

Alla fine di questo lungo anno, abbiamo voluto chiedergli di tirare le somme di questi 12 mesi e delle speranze che nutre per il 2010 alle porte. Con qualche risposta che ha preferito non dare e un premio da ritirare ai primi di gennaio.

Il 2009 è stato per lei un anno importante. Ci può raccontare come è cambiata la sua vita e come ripensa oggi a quest’anno che se n’è andato?
Se penso al 2009 non penso all’aspetto televisivo e vouyeuristico della scorta. Il 2009 è stato un anno importante perché ho fatto delle scelte importanti, augurandomi di avere lucidità e onestà intellettuale per riuscire a farle anche nel 2010. Poi ad ogni disposizione e presa di posizione seguono purtroppo delle reazioni che sono più o meno civili. Però siccome ho sempre preferito dedicarmi alle cause e non agli effetti, allora questo 2009, che è stato un anno di cause, è importante.

Ora che vive sotto scorta, e viene definito il Saviano del nord, rifarebbe tutto quello che ha fatto?
Non definitemi il Saviano del nord, per piacere. Non usate questa espressione, vi prego. Ci sono 675 persone in Italia sotto scorta.

Ma rifarebbe tutto quello che ha fatto?
Ma certo. Io non faccio qualcosa in base alle conseguenze. Cioè, se trovo che qualcosa sia giusto, l’ultimo mio pensiero è quali conseguenze potrebbe comportare. Io mi dedico alla pars construens delle mie decisioni, quindi mi auguro di non arrivare mai a essere compromettibile, a essere piegato su me stesso e piegato sugli effetti. Quindi assolutamente rifarei tutto quello, e continuerò a farlo.

Secondo lei perché è così difficile pensare che la mafia non sia solo un problema del sud Italia?
Perché il nord, e soprattutto la Lombardia è sempre stata la regione regina nel prostituire la politica ai linguaggi della pubblicità, e allora, se ci pensi, l’effetto tranquillizzante, l’effetto più importante in politica è che sia sotto forma di spot, e la mafia è un fenomeno che è vissuto, per chi ha una conoscenza superficiale o ignorante, come qualcosa di molto sporco e peloso; per chi invece ha avuto appena appena il gusto e la voglia di approfondire un po’, si scopre che è figlia della debolezza morale di una classe politica. E’ come fare lo spot di un panettone e dire che però poteva succedere che qualche candito non sia buono.

Lei utilizza il grammelot per fare un teatro che è di denuncia sociale. Da che cosa deriva questa scelta?
Il grammelot è il cordone ombelicale coi giullari e con gli arlecchini, e i giullari sono stati i più grandi attori di teatro civile, molto di più di noi che ci siamo imborghesiti cinquecento anni dopo. Quindi recuperare un po’ di pancia per essere il più possibili trasparenti anche in scena mi sembrava fondamentale. Poi, siccome il federalismo esiste solamente nelle teste di qualche ebete ma in realtà lo stesso federalismo, il purismo linguistico, soprattutto in Lombardia è un’utopia, tra l’altro criminale, allora il grammelot è quella lingua che ti permette di non essere identificabile con una zona, soprattutto in questo momento in cui l’identificazione con i quartieri sembra quasi che diventi un elemento di pregio.

Il grammelot è stato utilizzato anche da Dario Fo. Pensa che questo sia uno degli aspetti che ha portato al vostro incontro?
Beh, sicuramente come formazione teatrale sono molto vicino a Fo, per cui era una grande speranza lavorare con lui. E tra l’altro Fo è stato, penso, uno degli esempi negli anni ’70, proprio dell’uso politico, nel senso alto del termine politica, della risata. E quindi rimane sicuramente un maestro irraggiungibile, per chiunque.

Cosa le ha lasciato, insomma, quest’esperienza col premio Nobel?
Ogni volta che ti capita di fare un incontro importante ci sono due aspetti. Uno che se vuoi è egoistico ed è la soddisfazione di aver potuto ottenere della stima di persone che hanno fatto la storia del nostro lavoro. E poi cercare di assorbire il più possibile quello che queste persone ti possono dare. Io credo che ormai la persona Fo è schiava, nel senso bello, del teatrante che è geneticamente in tutto quello che fa e in tutto quello che dice.

Spera che vi siano altre vostre collaborazioni in futuro?
Sì, mi auguro che le collaborazioni continuino. Spero che gli incontri siano sempre l’inizio di qualcosa, non l’apice.

Il 2010 inizierà per lei con il premio Fava, per cui lei ha detto che reagirà col tremolio emozionato di un bambino davanti ad un regalo inaspettato… Ci può dire qualcosa di più su questo premio, lei che si è definito un giornalista mancato?
Guarda, siccome i critici teatrali sono i sacerdoti al ballo delle banalità, vivono paragonando sempre noi a qualcun altro. Io sono stato il nuovo Fo, il nuovo Paolini – il nuovo Paolini con, tra l’altro, Marco in buona salute e che continua a lavorare – il nuovo Celestini, semplicemente perché usavo un linguaggio, un ritmo molto alto durante gli spettacoli. Poi sono diventato il nuovo Impastato perché semplicemente mi son permesso di credere, come lo credeva lui, che la risata sia una delle armi più soddisfacenti per smerdare la vacuità morale dei boss mafiosi e per disonorarli. Allora in tutto questo io, fondamentalmente, pur contento di essere accostato a queste persone, anche a livello professionale, però, non c’entro nulla; io non sono un attore, per cui non arriverò mai ai livelli attoriali di Fo; non sono una persona a cui interessa fare memoria, ma più inchiesta, quindi sono molto lontano da Paolini, e se c’è una persona a cui mi sono sempre sentito vicino è inevitabile che fosse invece Pippo Fava, che tra l’altro paga, con questa carenza di memoria, proprio questa non specificità, il fat
to che lui non si sia riuscito a dare un ruolo. E quindi ricevere il premio Fava così inaspettatamente vuol dire che allora esiste una giustizia delle consonanze. E poi vado a ritirare un premio giornalistico di una persona che non era solamente un giornalista; è sempre molto riduttivo, secondo me, marchiare le persone. E’ allora per questo che forse è uno tra i premi che ho ricevuto che più mi sorprende, perché l’avrei sempre sperato. Ecco, per questo.

Speranze per il 2010?
Di continuare a essere onesto, con me stesso.

Ultima domanda. Si parla di lei come candidato dell’Idv alla regione. Accetterà?
No, non rispondo a questa domanda.

Devia?
Devio.

di  Laura Meloni

DA AGORAVOX.IT

L’ARTICOLO QUI

Un appello di Emma Dante sul Teatro Biondo di Palermo

emma_danteEmma Dante è una teatrante che preferisce parlare sul palco piuttosto che con le parole. Ci siamo conosciuti nella morbidissima bomboniera laica che è il suo teatro-bottega giù a Palermo. Ha gli occhi di velluto dell’esteta ma la stretta ferma dell’osservatrice. Per questo quando ho letto che ha deciso di scrivere e mettersi dritta e in piedi giù dal palco non ho potuto fare a meno di ascoltarla e apprezzarne la forza. In un mondo per natura fangoso come quello teatrale in Italia e per di più con la voce che si alza da Palermo e su Palermo.

“Carissimi colleghi,

teatranti, artisti e intellettuali vi scrivo con la speranza che possiate dimostrare solidarietà all’ importante movimento che si sta sviluppando per far chiarezza sulla gestione del teatro stabile di Palermo.
Finalmente, dopo anni di silenzio-assenso, una consistente parte della società civile ha promosso una petizione popolare che io appoggio con convinzione. E’ assurdo che, in tutti questi anni in cui la carica del direttore del teatro stabile è diventata un vitalizio, caso unico in Europa, nessuno di noi si sia indignato per la malagestione del teatro della nostra città. Anche quest’ anno il cartellone presenta numerose regie, scene e costumi firmate da pietro carriglio, anche quest’anno si dà pochissimo spazio alla drammaturgia contemporanea e ai giovani talenti emergenti. E’ arrivato il momento di fare chiarezza e questa petizione ce ne dà l’occasione. Bisogna svincolarsi dalla mentalità per cui aderire a questo movimento significa schierarsi contro il teatro biondo e chiudersi le porte per il presente e il futuro. E’ proprio questa mafiosa minaccia di esclusione che consolida il potere e annienta qualsiasi forma di rivolta. E’ una mentalità subdola e indissolubilmente legata all’ egoismo e alla chiusura. Non a caso nel momento in cui ho aderito e mi sono fatta portavoce di questa petizione, il mio atto sociale è stato interpretato come un fatto personale tra me e il biondo per l’assenza dei miei spettacoli in cartellone. Ma come tutti voi ben sapete mai è stato programmato un mio spettacolo in quel teatro e a questo punto ne sono fiera e vi giuro
che fino a quando ci sarà pietro carriglio alla direzione del biondo
io non ci metterò piede. In questi giorni di vacanza ho letto i nomi dei numerosi firmatari della petizione: sono quasi tutti cittadini, pochissimi addetti ai lavori. Vi chiedo perché. Ciò che domanda la
petizione è legittimo e naturale ed è per questo che vi invito a
sottoscriverla. Non può esserci un futuro migliore se continuiamo a
stare trincerati nelle nostre case, ognuno a curare il proprio orticello.

Ps : la petizione si può firmare on line sul sito www.studiolegalelopiccolo.como alla pagina http://www.firmiamo.it/sign/list/petizioneperlagestionedelteatrostabiledipalermo (ricordandosi di confermare via mail l’adesione )

Emma Dante

Sono morti perché noi non eravamo abbastanza vivi: LOTTA CIVILE di Antonella Mascali

lottacivileC’è una legge non scritta depositata tra le sacerdotesse del buongusto che ci insegna che parlare di morti è esercizio solo per criminologi, pessimisti o complottisti. Al massimo possono essere raccontati in qualche serata di fiction ma dopo averli attentamente sterilizzati, perchè i bacilli dei cadaveri ma soprattutto le facce degli assassini aprono quel dubbio dal velo nero che terrorizza la casalinga di Voghera. Eppure dove c’è un morto ammazzato per mano di mafia tutto intorno c’è una famiglia che apre la porta ed esce di casa per alzare la testa. Non credo che sia un esercizio di coscienza leggero prendere la penna, il quaderno e il registratore per bussare le porte ai figli, le mogli e dare forma di un capitolo alle storie che camminano ancora per casa. Antonella Mascali ci è riuscita con un tratto leggero lì dove la leggerezza è una brezza di primavera che riesce a non lasciarti sepolto e schiacciato dal dolore che c’è nelle lancette delle ultime ore di dodici persone esemplari che ancora di più oggi andrebbero ascoltate. Perché sono morti ma hanno così tanto da dire che ogni libro, serata o voce che ce li racconti è una carezza che ci meritiamo per smetterla di mettere il naso sotto la coperta comoda della paura, o della codardia, o peggio ancora della viltà. Va letto perché nonostante le ombre di fango e merda che hanno impugnato l’arma alla fine è un libro che profuma. E che lascia un alone di speranza. Del dovere di speranza, soprattutto se a portarcela in mano sono proprio i figli, i mariti e le mogli.

Dal dolore privato all’impegno nelle scuole, nelle carceri, nella pubblica amministrazione. Giorno per giorno. È ciò che contraddistingue questo libro. Dodici storie esemplari, raccontate da chi le ha vissute sulla propria pelle. I familiari delle vittime che hanno trasformato la sofferenza in denuncia e in lavoro concreto nella società. Con il sostegno di Libera e delle Fondazioni dedicate a chi ha combattuto per ciò in cui credeva, fino a morire. È essenziale ricordarli: da Giuseppe Fava a Rocco Chinnici, da Beppe Montana a Roberto Antiochia, da Marcello Torre a Silvia Ruotolo, da Libero Grassi a Vincenzo Grasso, fino a Barbara Asta ai figli Giuseppe e Salvatore, e ancora Mauro Rostagno, Francesco Marcone, Renata Fonte. Le loro battaglie sono diventate le battaglie di figli, fratelli, mogli e mariti. Nando dalla Chiesa, nell’intervista che chiude il libro, afferma: “Bisogna cominciare a dire le cose che provocano reazioni ma che sono vere”. Lo sta facendo chi ha subito perdite irrimediabili e oggi, in prima persona, diventa artefice di una vera e propria resistenza civile. Prefazione di don Luigi Ciotti.

Titolo Lotta civile
Autore Mascali Antonella
Prezzo € 14,60
Prezzi in altre valute
Dati 2009, XX-305 p., brossura
Editore Chiarelettere (collana Reverse)

Come ci vengono sempre bene i funerali

Come ci vengono sempre bene i funerali. Matrimoni e funerali: dove c’è da mangiare fino a slacciarsi i pantaloni siamo i primi della classe. Ho aspettato a scrivere su Giovanni Falcone perché volevo sedimentare insieme alla commemorazione che, come nelle previsioni, è riuscita fantasticamente nei modi, nella comunione d’intenti, nelle parole, nei tempi, nella trasversalità politica e nelle scene e i costumi.

Mi fanno paura tutte le manifestazioni che mettono tutti d’accordo, come se fosse veramente solo il tempo di ricordare perché su tutto il resto abbiamo già tutte le risposte: un anniversario di funerale così ben fatto in diretta tv è la ciliegina sulla “normalizzazione” della mafia in Italia. Io, Giovanni, non ci sono andato, ma ho riletto la preghiera laica di Antonino Caponnetto.

UNA PREGHIERA LAICA MA FERVENTE

di Antonino CAPONNETTO*

Queste sono le parole di un vecchio ex magistrato che e’ venuto nello spazio di due mesi due volte a Palermo con il cuore a pezzi a portare l’ultimo saluto ai suoi figli, fratelli e amici con i quali Leggi tutto »Come ci vengono sempre bene i funerali